martedì, giugno 27, 2006

Pagherete caro, pagherete tutto

Anche se risulta un pò datato ho pensato di proporre comunque l'articolo qui sotto, pubblicato su Alias il 24 luglio 2004. Gli autori sono la crew di Guerriglia Marketing e ci spiegano qui che cosa differenzia un paio di Nike da qualsiasi altro paio di sneaker in vendita sui banchi dei negozi gestiti da cinesi o sulle bancarelle dei mercati di tutta italya: "C’è un marchio, un contesto di vendita e un brand value che ridefiniscono e sovradeterminano la nostra percezione di quel paio di scarpe".
Niente di nuovo, ma comunque è bene tenersi ripassati certi argomenti...




Passeggiando per Piazza Vittorio, la china-town romana, è possibile infilarsi in uno dei tanti negozi privi di insegne gestiti da cinesi e acquistare un paio di scarpe da ginnastica del tutto simili a quelle dei brand più noti per meno di 20 euro. Ad un primo sguardo quelle scarpe sembrano realizzate in maniera più approssimativa di quelle messe in commercio da Reebok o Adidas. Ma se osserviamo da vicino i materiali, le cuciture, le colle alla ricerca di un dettaglio che ci mostri in maniera definitiva che siamo di fronte a produzioni più scadenti, restiamo delusi. I nostri occhi finiscono per arrendersi nel constatare che, a parte discutibili valutazioni sul design, quel paio di scarpe sono esattamente le stesse che potremmo acquistare in un Nike Store per 200 euro. E’ innegabile però che l’impatto percettivo tra un paio di scarpe cinese e un paio di AirMax complete di swoosh sia completamente diverso. C’è un marchio, un contesto di vendita e un brand value che ridefiniscono e sovradeterminano la nostra percezione di quel paio di scarpe.

Uno dei più riusciti manifesti di Adbusters riproduce un paio di sneaker con su scritto al tratto: “Nike 250$, sweatshop 83 cent”.
Ed effettivamente la questione è brutalmente semplice: lo stesso paio di scarpe che noi paghiamo 250 euro, costa meno di un euro quando esce dalle fabbriche subappaltatrici del terzo mondo. Ma costa meno di un Euro in entrambi i casi: sia che finisca in un negozio cinese a Piazza Vittorio a Roma, sia che arrivi nel Nike Town di Chicago. Quel paio di scarpe costa così poco perché come è noto in quelle fabbriche gli operai non hanno alcun tipo di diritto sindacale e sono spesso sottoposti a forme di sfruttamento quasi schiavistiche.

Noi fortunati occidentali spendiamo 200 euro per uno stupido paio di sneaker in un punto vendita luminoso e spensierato mentre dall’altra parte del mondo qualcuno sta sputando sangue intossicato dai veleni della gomma. A questa contraddizione si risponde allora con la critica serrata al potere dei marchi, responsabili dell’innalzamento dei prezzi e dello sfruttamento del lavoro. Ma le scarpe senza logo di Piazza Vittorio sembrano dirci molto di più di questo: pur senza marchio, pur se vendute ad un costo pari a un decimo delle nobili sorelle marchiate, quelle sneaker sono anch'esse prodotte in condizioni inumane, le sole che gli permettono di costare così poco. Le sneaker di Piazza Vittorio, da questo punto di vista, rappresentano il grado zero della marca e ci dimostrano che il rapporto tra logo e sfruttamento non è un rapporto di continuità diretta.

La contraddizione fra Nike e sweatshop rischia quindi di nascondere dietro ai nostri occidentalissimi sensi di colpa un secondo livello di contraddizioni che, seppure in una dimensione del tutto diversa e assolutamente non paragonabile, ci riguarda altrettanto da vicino.
La prima contraddizione, quella che porta le scarpe da 1 a 20 euro, è tutta spiegabile in termini marxiani come sfruttamento del lavoro per la massima estrazione di plusvalore. L’unica risposta adeguata in questo caso è la lotta di classe, una lotta da svilupparsi negli stessi sweatshop in cui il lavoro viene sfruttato.
La seconda contraddizione invece, quella che porta il prezzo delle scarpe da 20 a 200 euro, è tutta interna alle nuove forme di produzione dell’occidente e ha a che vedere con un’inedita modalità di sfruttamento. Uno sfruttamento che non avviene più negli spazi e nei tempi del disciplinamento produttivo del lavoro ma al suo esterno, attraverso la propriazione da parte dei grandi marchi del valore di innovazione e riproduzione d’immaginario che viene prodotto dalla società nel suo insieme.

Quando compriamo una merce di marca stiamo quasi sempre ricomprando l’immaginario che noi stessi abbiamo prodotto e che qualche cacciatore di tendenze ha sapientemente pescato dalla strada per poi impacchettarlo e rivendercelo per dieci volte il suo valore. Tutte le volte che gli umani si incontrano e si scontrano, tutte le volte che producono conflitto o scoprono una nuova pace ecco apparire i cool hunter, spie e crumiri pronti a formalizzare in un brand l’innovazione linguistica e culturale prodotta.

Si tratta di una vera espropriazione unilaterale dell’economia, di uno sfruttamento non retribuito del lavoro sociale diffuso al quale si aggiunge un ulteriore lavoro: quello del consumatore che vivifica l’identità di marca continuando a indossare quel logo, quel marchio, quell’immaginario… in fin dei conti quasi una sorta di schiavismo immateriale. Rispetto a questo processo diviene allora necessario inventare una nuova forma di rigidità operaia, una rigidità che individua nella produzione di immaginario e nel consumo un momento produttivo centrale e che passa per un’indisponibilità a produrre e riprodurre il valore marchio a titolo gratuito.

Nessun commento: