venerdì, luglio 28, 2006

Io parto... per l'Andalusia!

Annuncio con questo post le mie vacanze. Parto domani sera da Brescia verso Barcellona: prima tappa, una tirata. Una Skoda, no aria condizionata, quattro avventurieri in totale. Poi scenderemo verso sud, lungo quel migliaio di chilometri che dividono Barcellona da Cadice, dove vorremmo arrivare prima di girare la macchina e partire per il ritorno. Il blog sarà un pò trascurato... ma se riesco vorrei aggiornarvi sul viaggio, però al momento è solo un proposito. Quindi se tutto tace e nulla si muove non preoccupatevi, ripartiremo verso la fine di agosto...

Buon viaggio a me! Diviso fra le dune del deserto e quelle delle spiaggie...


giovedì, luglio 27, 2006

Sabato 22 luglio è morto Valerio Marchi...

... improvvisamente e a soli 51 anni. Poco tempo fa associai la sua firma e il suo nome alla sua vita, in particolare agli ultimi anni di questa: un articolo sul manifesto raccontava infatti di una nuova libreria a Polignano, in Calabria, aperta appunto da Valerio che si era lì trasferito dal quartiere di San Lorenzo a Roma, dove lasciava un'altra "mitica" libreria. La cosa che mi colpì dall'esperienza raccontata nell'articolo fu il "coraggio" di lasciare la metropoli romana per la "periferica" Calabria, portandosi fra i bagagni un sapere eretico che attecchisce presto fra gli avventori della libreria "la capa gira".
Attento osservatore e studioso delle controculture (meglio che sottoculture...) e delle forme di conflitto giovanile, ricercatore ultrà romanista, saggista antifascista. Questi i titoli dei suoi libri: "La morte in piazza. Venti anni di indagini, processi e informazione sulla strage di Brescia"; "Nazi-rock. Pop music e destra radicale"; "La sindrome di Andy Capp. Cultura di strada e conflitto giovanile"; "Il derby del bambino morto. Violenza e ordine pubblico nel calcio". Qui sotto ripropongo un suo articolo sulla nascita del calcio e la cultura ultrà, è un poco lungo ma oltre a potervi riempire qualche ora di questa calda estate mi pare un ottimo modo di mostrare una pratica di ricerca affascinante e roots, uno sguardo - in questo caso sul calcio - dal basso verso l'alto. Per chi fosse interessato altro materiale pubblicato da Valerio si trova qui, con alcuni articoli che lo ricordano senza retorica.

di Valerio Marchi [da Carta Almanacco, settembre 2004]

Dove nascono gli ultras. Il calcio visto dal "basso".

Stretto tra i palazzi che si allungano fino a sbirciare nel terreno di gioco, con la sua forma squadrata e gli spalti schiacciati sul campo, lo stadio Marassi di Genova manifesta nella sua dislocazione e nella sua struttura la propria natura esplicitamente cittadina e monodisciplinare, da indiscussa cattedrale dell'antica e nobile tradizione calcistica genovese.

A Marassi, come in tutti gli altri stadi dedicati unicamente al calcio, per dieci mesi su dodici va in scena il medesimo spettacolo: niente meeting di atletica, niente concerti rock o pop, ma solo e soltanto il conflitto ludico-simbolico tra contrapposte comunità.

Correndo indietro nei secoli, oltre quel processo di regolamentazione che si sviluppa in Gran Bretagna nel corso dello scorso secolo, oltre le suddivisioni artificiose tra "soccer" e "rugby" e "football", tra palla tonda e palla ovale, tra uso dei piedi e uso delle mani, troviamo infatti alla base di questi sport moderni un gioco altomedievale in cui la figura dell'attore coincide con quella dello spettatore e, ancora oltre, con buona parte dei maschi adulti in ogni singola comunità, che troviamo ben rappresentato nell'"hurling over the country" dell'Inghilterra del XIV secolo.

Queste sfide tra comunità - che possono essere rappresentate da paesi differenti, ma anche da altre forme di aggregazione, quali gli scapoli contro gli ammogliati dello stesso paese, come avveniva nella cittadina britannica di Scone - si svolgono di solito nelle ricorrenze religiose o comunitarie e si caratterizzano per l'assenza di regole certe e uniformi sulla durata dell'incontro [che può raggiungere anche le 72 ore], sul perimetro di gioco [che spesso coinvolge l'intero territorio], sul numero dei partecipanti [trenta, cinquanta o più giocatori per parte], per il livello di violenza e il "tutto è permesso" che regola gli scontri in campo. L'agone assume, anzi, caratteristiche tali da essere considerato dalle autorità una vera forma di teppismo, un'aperta manifestazione di quell'aggressività e sfrenatezza popolare cui si vuol porre un freno attraverso la civilizzazione forzata dei costumi, oltre che una forte distrazione dal gioco marziale del tiro con l'arco. Da un lato la violenza incontrollata del calcio, dunque; dall'altro la tensione calibrata, fredda e funzionale [alla guerra] del tiro con l'arco: nelle scelte delle autorità, che giungeranno nel 1314 a porre fuorilegge l'"hurling over the country", si possono scorgere i primi segnali di quel processo di coartazione culturale delle classi subalterne, e più generalmente dei giovani d'ogni classe e ceto, che segnerà i secoli successivi e di cui la creazione del concetto di "sport" sarà parte integrante [Elias-Dunning, 1989].

Guerra o competizione?

La storia del calcio, dal XIV secolo ad oggi, coincide dunque con la storia della sua rielaborazione da conflitto simbolico tra comunità a competizione sportiva tra atleti, della sua progressiva regolamentazione secondo i dettami del nuovo ordine che, a partire soprattutto dalla seconda metà del XVIII secolo, verrà posto in opera prima contro le turbolenze dei giovani delle classi superiori e quindi, con l'allargamento del tempo libero e la trasformazione dei mezzi di produzione, contro quelle - ben più gravi - delle classi subalterne e delle loro "barbare e sfrenate" fasce giovanili.

Al momento della nascita del calcio modernamente inteso [Londra 26 ottobre 1863: fondazione della Football Association] troviamo infatti una situazione perfettamente regolamentata, almeno per quel che avviene in campo. Differente è la situazione sugli spalti, ove le due contrapposte comunità che di volta in volta formano il pubblico - di matrice prevalentemente "working class" - continuano a essere pervase dallo spirito originario dell'"hurling", partecipando attivamente all'incontro nelle forme spesso turbolente della tradizione contadina e operaia.

Tra il 1895 e il 1915 la Football Association assume 117 provvedimenti disciplinari contro squadre i cui sostenitori si sono macchiati di "disordini o comportamenti scorretti", tra cui risse, attacchi contro arbitri e giocatori della squadra avversaria, atti di vandalismo contro impianti sportivi e mezzi di trasporto. A volte le turbolenze sono tali da trasformarsi in scontri di piazza: dopo il match tra Greenock Morton e Port Glasgow: città paralizzata per molte ore, negozianti barricati nelle botteghe, diciannnove poliziotti all'ospedale e nove tifosi in galera [Durining- Murphy- Williams 1988].

Anche fuori dalla Gran Bretagna - in Italia, per esempio - si inizia ad assistere, nel XX secolo, ai primi casi di turbolenza calcistica: risse [Genoa-Andrea Doria, 1902], invasioni di campo [Juventus-Genoa, 1905], sassaiole contro l'abitro e intervento dei carabinieri [Andrea Doria-Internazionale, 1912], incidenti fuori dagli stadi [Milan-Andrea Doria, 1913; Lazio-Juventus Roma e Internazionale-Casale, 1914], colpi di pistola tra tifosi [Spes Livorno- Pisa sporting club, 1914].

Le due guerre mondiali, con tutto quello che avviene tra l'una e l'altra, sembrano modificare di poco l'approccio del pubblico al calcio, che è nel frattempo diventato un vero e proprio spettacolo di massa. Negli anni Cinquanta troviamo, sul fronte delle turbolenze, una situazione per molti versi simile a quella di quarant'anni prima: in Gran Bretagna, come in Italia e nel resto dell'Europa calcistica, si registrano scontri tra tifoserie e con le forze dell'ordine, invasioni di campo, aggressioni ad arbitri e giocatori. In Inghilterra la Football Association registra 238 incidenti tra il 1946 e 1959, mentre in Italia si assiste a una escalation che, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, assume anche forme fino ad allora inedite quali le sassaiole contro i pullman delle squadre avversarie e le aggressioni contro giornalisti e dirigenti presenti in tribuna.

Gli anni cinquanta

In questi episodi di turbolenza, si registrano atti e comportamenti che ritroveremo, con le dovute differenze, nel movimento ultrà: eppure, nonostante l'oggettiva gravità di molti episodi, la violenza legata al calcio non viene ancora considerata un'emergenza sociale né viene riservato al tifoso il ruolo di Folk devil, come avverrà con gli ultràs.

Per comprendere compiutamente questo diverso approccio delle autorità e del sistema dei media alla questione della violenza calcistica si deve infatti tener conto non soltanto dell'aumento quantitativo e qualitativo degli incidenti che accompagna la nascita e l'elspansione del movimento ultrà, ma soprattutto delle differenti peculiarità conflittuali del "tifoso turbolento" e dell'ultrà.

Diversamente da quel che avverrà a partire da dieci anni più tardi, le violenze che animano gli stadi d'Europa fino agli anni Cinquanta sembrano raccordarsi soprattutto alla sfera comportamentale del gioco originario e, ancora oltre, alle tradizionali turbolenze ritualizzate delle classi subalterne preindustriali [dal carnevale alle feste del Misrule] delle campagne inglesi del XVII e XVIII secolo [Gillis 1981], valvole di sfogo attraverso cui la conflittualità popolare veniva incanalata e resa innocua.

Allo stesso modo, in un periodo - quale l'Italia degli anni Cinquanta - in cui ogni forma di dissenso o di conflittualità politica viene violentemente contrastata, la turbolenza dei tifosi di calcio è sì combattuta, ma non genera sindromi ansiose: il conflitto sociale - quello "vero", che terrorizza l'establishment - passa ancora altrove, attraverso le lotte contadine e operaie e le loro organizzazioni politiche e sindacali.

Eppure, qualche piccolo segnale di mutamento nella "weltanschauung" collettiva del tifoso si coglie già in questi anni Cinquanta, quando per esempio diminuiscono gli scontri tra tifoserie avverse e aumentano a dismisura le violenze contro arbitri e dirigenti; in qualche modo, contro le "istituzioni" dell'ormai affermato "show-biz" calcistico. Primi, vaghi segnali di nuove forme conflittuali che, pur restando nell'ambito del calcio, riusciranno, a partire dagli anni Sessanta, a esprimere valenze più generali fino a conformarsi in una vera e propria cultura antagonista.

L'Upton Park è lo storico stadio della squadra east-ender del West Ham United; ma, soprattutto, è uno dei luoghi che ha visto nascere e svilupparsi, verso la fine degli anni Sessanta, una cultura antagonista destinata a oltrepassare la Manica e a diffondersi velocemente in tutti gli stadi d'Europa: quella degli hooligan calcistici.

L'attuale hooliganismo nasce infatti nel corso del campionato inglese 1967 - 1968, quando "Alleanze ad hoc tra gruppi di adolescenti e di ragazzi dei quartieri e delle periferie operaie iniziarono a rivendicare le curve dei campi di calcio come territori propri e, in modo più preordinato di prima, a escludere da queste zone sia gli spettatori più anziani che i giovani sostenitori di squadre avversarie" [Dunning-Murphy-Williams 1998].

Il controllo del territorio

Questo senso aggressivo del territorio è secondo le tesi della scuola sociologica di Leicester, frutto di fattori prettamente socioculturali: questi giovani "provengono dagli strati più bassi della classe operaia, vivono una comune condizione di disagio e marginalità sociale e riproducono nei gruppi hooligan l'appartenenza al proprio quartiere o al proprio rione. Il loro comportamento violento si spiega col fatto che hanno fatto proprio lo stile maschile violento tipico della cultura di vita dello strato operaio da cui provengono" [Roversi 1992]. Basta, del resto, attraversare le zone del North Bank londinese più periferico, conoscerne la lunga storia di disoccupazione e di isolamento politico-culturale, per comprendere i motivi dell'altissimo livello di conflittualità sociale che gli "hools" inglesi hanno manifestato fin dagli esordi e che, perpetuandosi [pur se in termini spesso differenti] nel tempo e in ogni possibile contesto europeo, hanno reso questa cultura una delle più attrezzate agenzie di conflitto sorte negli ultimi venti o trent'anni, in grado di interpretare - e a volte di anticipare - dinamiche sociali ben più vaste e articolate. Nei suoi trent'anni di vita, il movimento ultrà ha in breve dimostrato di essere una perfetta cartina di tornasole delle tendenze comportamentali in atto nella società, ponendosi come un inevitabile banco di prova per chiunque intenda affrontare quella che viene definita - con una certa dose di approssimazione e d'ipocrisia - la "questione giovanile".

Rispecchiando alla perfezione il superamento del dato anagrafico nell'ambito delle sfere sociocomportamentali tradizionalmente riconducibili ai "modelli giovanili", la cultura ultrà supera infatti ogni limitazione per andare a coprire una vasta fascia d'età, dalla prima adolescenza [dodici-tredici anni] alla piena maturità [quaranta e oltre]. Parlare degli ultrà non significa dunque parlare automaticamente di "giovani", pur se il movimento è composto prevalentemente da ragazzi e da ragazze.

La caratteristica principale di questa cultura non è il dato anagrafico - non si è alla presenza del tipico "peers group" - ma quello comportamentale: da Mosca a Lisbona, da Atene a Glasgow, l'ultrà trova un comune denominatore non nell'età, ma nel senso di contrapposizione verso ogni forma di autorità costituita [da quelle sportive a quelle politico-istituzionali]. Unico, vero collante di un movimento, per altri versi frammentato, è il rifiuto di ogni forma di controllo da parte di altri, dalle società sportive [da cui la contrapposizione con i club riconosciuti e coordinati dalle società stesse] alle forze di polizia [considerate una "tribù avversaria"]. Una seconda caratteristica comune a tutto il movimento è rappresentata dai forti sentimenti comunitari che lo animano e che si manifestano soprattutto nelle valenze assegnate alla curva: da semplice contenitore di spettatori a luogo sacro e inviolabile, da difendere contro ogni possibile invasione di tifosi avversari [il "take an end" di britannica memoria] o dagli sconfinamenti della "blue line gang" [ovvero, nello slang dei ghetti di Los Angeles, l'unica gang metropolitana dotata di lampeggiatori azzurri], in cui atteggiamenti e comportamenti vengono regolati da leggi proprie.

Nella cultura ultrà il senso conflittuale si coniuga con questa visione dei rapporti di curva: il movimento si autorappresenta come una serie di comunità che si aggregano intorno a un ideale - la squadra - e a un territorio liberato, portatrici di una necessità di aggregazione che si manifesta non soltanto all'interno del gruppo, ma anche attraverso una rete di amicizie che va oltre la comunità di appartenenza. Nel movimento, questo duplice atteggiamento diviene esplicito nei rapporti tra differenti tifoserie, nella capacità di creare rapporti con "gli altri" in positivo e in negativo; nei gemellaggi come nelle rivalità.

La sindrome del beduino

Nonostante l'ambivalenza insita in questo comportamento, che viene definito di "sindrome del beduino" [Harrison 1974], la cultura ultrà è invece tradizionalmente associata soprattutto al meccanismo dell'amico-nemico, alla percezione dell'altro come presenza inevitabilmente ostile. Come sempre avviene nel rapporto tra cultura dominante e sottoculture, anche in questo caso un atteggiamento insito nel nostro modello di sviluppo culturale e sociopolitico viene dunque "scaricato" sul Folk devil di turno [Marchi 1994]: a essere profondamente intriso di xenofobia non è specificatamente il movimento ultrà, ma il nostro modello sociale nella sua interezza, soprattutto istituzionale; e la curva rende semplicemente [e ingenuamente] più esplicito, più grossolanamente "visibile" quel che nelle istituzioni e nella cultura dominante è tanto più grave quanto più sfumato.

Nelle proprie caratteristiche principali, la cultura ultrà si manifesta, insomma, come un movimento di resistenza contro due processi sociali: quello del progressivo controllo politico dei comportamenti e quello di mercificazione del football, inteso non come puro gioco ma come luogo sociale in cui si concentrano interessi e conflitti di natura sia economica che culturale.

In questo contesto, risulta evidente come l'interazione tra l'agire sociale e l'agire "di curva" finisca per rappresentare un rapporto di scambio politico bidirezionale, basti pensare alla contaminazione tra i linguaggi delle curve e quelli, ad esempio, dei cortei.

Specialmente in Italia, per le caratteristiche che il movimento assume, si registra una forte interazione tra curva e dinamiche sociopolitiche. Il gruppo ultrà nasce, infatti, appropriandosi delle forme organizzative e dei linguaggi dei modelli politici antagonisti dei primi anni Settanta. Per Antonio Roversi sono tre gli elementi che contribuiscono alla nascita del fenomeno: "Autonomia dalla tutela paterna, modelli para-politici di coesione del gruppo, assimilazione per via imitativa delle forme inedite di tipo hooligan" [Roversi 1992], e con essi di inconsapevole ma esplicita capacità di interpretare e rielaborare, in forme simboliche, la conflittualità sociale.

Nato come simulacro, come uno slittamento di scenario nell'ambito dei conflitti di classe, con la rottura del rapporto tra conflittualità giovanile e sfera politica maturata a partire dalla fine degli anni Settanta, il movimento ultrà si ritrova però a sopravvivere al proprio modello originario. E quel che agli inizi si candidava a essere un "simulacro simbolico" [Dal Lago 1990] del conflitto politico, si ritrova a dover interpretare il ruolo di principale, se non unica, agenzia antagonista di massa.

Considerati da giovani e meno giovani sempre meno adatti, spesso addirittura mistificanti, i codici della politica lasciano il passo a nuove forme di conflitto che, confermando le capacità divinatorie delle sottoculture giovanili, si tingono di quei toni impolitici e a tratti teppistici che rappresentano da sempre la realtà di strada [Humpries 1995].


[Tratto da "La sindrome di Andy Capp cultura di strada e conflitto giovanile", NdA press]








venerdì, luglio 21, 2006

Sentenza a Milano per i "fatti" del 11 marzo

E' definitiva la sentenza del Tribunale di Milano per i fatti contestati ai 18 manifestanti antifascisti che l'11 marzo di quest'anno hanno partecipato al corteo - e ai disastri... - contro la sfilata dei neofascisti della fiamma tricolore: per tutti 4 anni, 6 per le due persone con precedenti. Già da questo si capisce l'assurdità di tale sentenza, una sentenza politica poichè non si basa su nessuna prova tesa a dimostrare la responsabilità personale dei singoli condannati; una sentenza politica poichè si fonda sulla corresponsabilità morale dei manifestanti. Va giustamente ricordato inoltre che queste persone hanno già scontato 4 mesi di carcerazione preventiva - 0vviamente più dei ricucci o dei mezziprincipi di casa savoia - solo perchè si doveva dimostrare l'inflessibilità del potere, tanto che questa sentenza viene da più parti definita "educativa" e il Pm invita le famiglie dei ragazzi a una stretta educativa nel periodo di detenzione domiciliare... proprio così, dai 4 ai 6 anni per un reato mai utilizzato nei processi "politici" e scritto nei vecchi codici fascisti, ma poi tutti ai domiciliari... che presa per il culo! Questa sotto è una dichiarazione spontanea rilasciata da quattro imputate nell'ultima udienza del processo pochi giorni fa...


"L’11 marzo a Milano veniva autorizzata una marcia del partito neofascista Fiamma Tricolore, un’organizzazione che si pone a referente dei settori più oltranzisti e intolleranti della destra radicale italiana. Una manifestazione che ha sfilato nel centro della città con la spudorata esibizione di braccia tese, cori e simbologie nazifasciste, tracciando una ferita profonda nella memoria della Resistenza combattuta con sacrificio dai nostri nonni ormai sessant’anni fa.
Ci chiediamo che senso abbia avuto il divieto imposto dalla Questura a quella stessa manifestazione che avrebbe dovuto tenersi il 21 gennaio, divieto motivato dalla prossimità della settimana della memoria dell’ Olocausto.
La “sorte” ha poi voluto che la parata della Fiamma Tricolore fosse rimandata in data 11 marzo, a cinque giorni dal terzo anniversario dell’assassinio di Davide Cesare, Dax; apice dell’escalation di violenza neosquadrista registrata negli ultimi anni in Italia: incendi, agguati e accoltellamenti che in diverse altre occasioni hanno rasentato quel tragico epilogo. Per un popolo che ha subito una dittatura ogni giorno deve essere considerato “giornata della memoria”, mai bisognerebbe concedere agibilità politica e istituzionale a questo tipo di formazioni.
La presenza degli antifascisti in piazza l’11 marzo era finalizzata a testimoniare 20 anni di dittatura, rappresaglie, leggi razziali, deportazione, nonché il sangue versato, le torture subite e gli sforzi di tutti quei partigiani che a lungo hanno resistito per sconfiggere il nazi-fascismo, ma anche la strenua opposizione alle forme più attuali delle ideologie/pratiche fasciste, razziste e xenofobe.
La Costituzione dice: “è vietata la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto Partito Fascista”.
Era dunque legittimo e doveroso recarsi in quel luogo per tutti coloro per i quali i valori dell’antifascismo sono sopravvissuti al revisionismo storico e rimasti inalterati nella loro autenticità.
Ci troviamo oggi in quest’aula, quasi tutti dopo più di quattro mesi di custodia cautelare in carcere, per rispondere dell’accusa di “concorso” in “devastazione e saccheggio”. Un tipo di reato che ci offende e non è mai appartenuto al nostro patrimonio storico e politico. Le parole “devastazione” e “saccheggio” si addicono meglio ad altre situazioni piuttosto che allo scenario creatosi in c.so Buenos Aires. Si devasta e si saccheggia in un contesto come la guerra, paradossalmente chiamata “umanitaria”. Si devasta e si saccheggia l’ambiente attraverso le grandi infrastrutture, funzionali alle logiche di mercato che dominano nella nostra società. Si devasta e si saccheggia la vita di strati sempre più ampi della popolazione costretti a fare i conti con la precarietà del mondo del lavoro, la violazione sistematica di diritti fondamentali quali la casa, la salute o l’istruzione che impediscono di costruire una vita dignitosa. Si devasta e si saccheggia il nostro presente e il nostro futuro attraverso la formulazione di reati come questo e un uso punitivo e indiscriminato della carcerazione preventiva. "

MAI LIBERI FINCHE' L'ULTIMO SARA' SCHIAVO

Crolla il Dente di ghiaccio del pensile in Presanella...


Non è certo una novità il ridimensionamento massiccio dei ghiacciai alpini nel corso dell'ultimo secolo. Molte foto scattate all'inizio del Novecento mostrano quanto fossero estesi i diversi ghiacciai, estensione dovuta probabilmente anche ad un periodo di raffreddamento del clima concomitante con il periodo storico della Grande guerra. Oggi si parla costantemente dei pericoli relativi al riscaldamento di Gaia, si ipotizzano scenari in cui i mari si alzeranno di qualche metro per lo scioglimento delle calotte polari, così come appunto dell'arretramento dei diversi ghiaccia sparsi per il pianeta. Questa sotto non vuole essere un campanello d'allarme, probabilmente i ghiaccia in diverse ere geologiche furono anche più ridotti di ora, e poi di campanelli d'allarme ne sono suonati a bizzeffe ed oramai possiamo essere certi che stiamo mettendo in difficoltà il pianeta che ci ospita, così come stiamo mettendo in pericolo non solo la sopravvivenza della nostra specie, ma quella di interi ecosistemi. Comunque è una notizia che conferma le fosche previsioni, ed inoltre sotto al ghiacciaio pensile della Presanella io e i miei fratelli ci siamo più volte fermati a volgervi lo sguardo, a misurare il suo ritiro, quasi a volerlo nutrire d'attenzioni come si fa con un malato. Insomma, io ci sono affezionato.
Le foto a lato sono tratte da qui, non mostrano la montagna dopo il crollo ma mettono a confronto una foto scattata nel 2003 (sopra) ed una dello scorso aprile in cui già era evidente il crollo imminente.


Un boato impressionante, poi una nuvola di ghiaccio. Verso le 8.30 di giovedì scorso, undici ore prima che dall'Eiger si staccassero 500 mila metri cubi di roccia - alzando una nube sulle case di Grindelwald - dal ghiacciaio pensile della Presanella, 3.558 metri di altezza, si è staccato un enorme «dente» azzurrino, grande tre volte il rifugio Denza. Un altro crollo nel cuore delle Alpi che coincide con un periodo di gran caldo anche in quota, dove lo zero termico continua ad essere sopra i 4.000 metri. Per giovedì prossimo, le previsioni parlano di un'isoterma addirittura a 4.400 metri. Sulla zona, giovedì scorso era piovuto per tutta la notte, probabilmente accentuando di quanto bastava lo scioglimento del ghiaccio che teneva appeso l'enorme dente al ghiacciaio pensile, che è come incastrato fra la vetta della Presanella e la grande parete occidentale, nerastra. Poche ore dopo l'alba il crollo del lembo estremo, che da tempo dava segni di cedimento: la massa s'è staccata dal corpo triangolare del ghiacciaio - sospeso sulla parete nord - ed è precipitata sulla vedretta sottostante, frantumandosi. La fotografia che pubblichiamo, scattata ieri da Isidoro Bertolini di Vermiglio, mostra una scia nerastra lungo la linea di caduta. «Ero nella cucina del rifugio - racconta Erika Dezulian , moglie del gestore Mirko - quando ho udito un fragore, un rumore fortissimo. Crolli di ghiaccio ogni tanto si sentono, ma questo sarà stato dieci volte più forte. D'istinto ho pensato al pensile, perché Mirko continuava a ripetere che prima poi sarebbe crollato. Ho guardato dalla finestra e ho visto alzarsi una nuvola di polvere di ghiaccio». Il labbro inferiore del ghiacciaio pensile, sorta di gigantesco seracco, era sotto osservazione da mesi. L'anno scorso la Provincia aveva piazzato degli avvisi di pericolo alla base, per allontanare gli alpinisti attratti dalla scalata, che è a tratti verticale. «Ora - osserva il gestore del "Denza" Mirko Dezulian - dovrebbe essere ridiventato arrampicabile, la forma è cambiata. Il pezzo che è precipitato sarà stato due-tre volte il rifugio. Quel che resta ora dev'essere in fondo al ghiacciaio, sgretolato in tanti blocchi». Una ricognizione - a quanto se ne sa in zona - non è ancora stata compiuta dal giorno del crollo. Il ghiacciaio pensile era stato salito per la prima volta nell'agosto del 1983 dai fratelli Cortinovis e la via era stata «raddrizzata» dagli alpinisti Bettio e Tedeschi nel 1980. La guida Cai-Tci «Presanella» di Dante Ongari, del 1978, parla di 50 chiodi tubolari usati dai primi salitori. Servono 9 ore di salita, secondo la guida, dal rifugio Denza alla vetta, anche se probabilmente c'è chi impiega meno. Una scalata impressionante, ad ogni modo, con un paio di lunghezze di corda praticamente verticali. «Io l'ho salita nel '94 - spiega Mirko Dezulian - e l'ho trovata sicura dalle scariche, contrariamente alla nord, e con cinquanta metri su ghiaccio strapiombante». È una classica via da salire in piolet traction , ma ovviamente assai meno frequentata del classico scivolo nord. Ora, il crollo l'ha rimodellata.
di FABRIZIO TORCHIO RIFUGIO DENZA (PRESANELLA)

lunedì, luglio 17, 2006

"Lui l'ha ucciso, con il suo sasso!" - da Giap#6, VIII serie



"Molti, dunque, sanno già benissimo
come sarà il morto di Genova.
Si prevede
la faccia, la pettinatura,
l’abbigliamento,
il curriculum.
Tutti conoscono già - e si ripetono -
l’età,
i precedenti, le frasi, le canzoni,
le predilezioni, gli affetti, gli effetti,
e su che ritmo stava ballando in quel momento"

(Dal "rap" di Alberto Arbasino intitolato "Un morto a Genova", giugno 2001)



Si avvicina il quinto anniversario dell'assassinio di Carlo Giuliani, nonché dei pestaggi, delle torture, dei fermi illegali al G8 di Genova. Il quinto anniversario di Bolzaneto.
La sfiga di morire d'estate è che l'anniversario cade in piena aria di smobilitazione, con la gente al mare etc. Stavolta, poi, siam pure campioni del mondo... Poo po po po po poo po.... Non che morire d'inverno garantisca chissà che... Piazza Fontana è un 12 dicembre (sei mesi e sei giorni prima di Italia-Germania 4-3!). Qualche giorno fa ci scrive Giuliano Santoro di Carta. Ci chiede se scriviamo qualcosa per la rivista, il numero dedicato alla ricorrenza. Il preavviso è troppo breve, non ce la facciamo, chiediamo scusa. Però il tarlo rode, e rode, e rode. Poi capita di scaricare un video... Carlo Giuliani fu ucciso da un proiettile con effetto "dum dum". Qualcuno gli sparò in faccia, con traiettoria diretta. Lo dimostrano i filmati e le fotografie, benché alcuni "periti" si siano inventati la storia del colpo sparato in aria, deviato da un calcinaccio volante. Carlo Giuliani fu ucciso da Mario Placanica, dicono. Un carabiniere ausiliario che stava nell'Arma da sei mesi. A uno così darebbero in mano un'arma caricata con un proiettile illegale? Secondo la versione ufficiale, sul defender c'erano soltanto due carabinieri. Eppure si vede un terzo uomo, o meglio: si vede un paio di mani in più, che non si sa a chi appartengano. Carlo Giuliani era ancora vivo quando il defender dei CC passò sopra il suo corpo per due volte. Un Defender vuoto pesa diciannove quintali. Pieno, intorno ai venticinque. Questo defender, però, doveva essere leggero, anzi, alato. Secondo le ricostruzioni dell'Arma (e di media compiacenti), era "bloccato" e "a motore spento"... eppure si eclissò dal luogo del delitto in cinque secondi netti. Si vede nei filmati. Un defender che ci è sempre stato descritto come "isolato" e "in balìa di numerosi manifestanti", a dispetto di quanto si vede in tutte le immagini. Carlo Giuliani era ancora vivo quando lo squadrone della morte (come chiamarlo, altrimenti?) lo attorniò, scacciò tutti i testimoni, un carabiniere lo prese a calci (vedi foto) e qualcuno gli sbattè con violenza una pietra sulla fronte. Un grosso ciottolo bianco, insanguinato, presente in diverse foto accanto al corpo, e in seguito, puf!, scomparso. Carlo Giuliani era ancora vivo quando un certo vicequestore (che pochi minuti prima, per sua stessa ammissione, aveva scagliato sassi contro il corteo di via Tolemaide, come un teppista qualsiasi: un vicequestore!) finse di inseguire il primo malcapitato sbraitando: "Tu l'hai ucciso! Col tuo sasso!". Prima di prodursi in questa scenetta, s'era assicurato che la telecamera di Terra! (il programma condotto da Toni Capuozzo) lo stesse riprendendo. Insieme a Capuozzo, il primo giornalista ad accorrere in piazza Alimonda, pochissimi minuti dopo l'omicidio, fu Renato Farina, vicedirettore di "Libero", nome in codice "Betulla", a libro paga del SISMI. Carlo Giuliani era privo di sensi, spezzato, maciullato, ancora vivo. Ogni nervo del suo corpo stava urlando inascoltato. Inascoltato, già stereotipizzato, preventivamente irriso dalla satira del Potere, calunniato col ghigno sulle labbra dal nuovo qualunquismo. Eh, ma stava per tirare un estintore! Eh, ma si sapeva che c'era il morto, l'aveva scritto pure Arbasino! Che banalità, farsi ammazzare dalle forze dell'ordine. Eh, ma sai, questi "coglioni post-Seattle", questi qui che (sempre Arbasino dixit), hanno "gli occhiali da sole globali, / i compact globali, i concerti globali, / i rave e rap e hiphop e DVD globali, / i piercing universali globali / tutti uguali..." Ma com'è arguto Arbasino! E che bei versi! Glieli pubblica Feltrinelli, pensa... [Che poi parti cospicue dello stesso movimento, nel biennio successivo, abbiano fatto di tutto per corrispondere a stereotipi, beh, quella è un'altra storia. Triste. Ne parleremo un'altra volta.] Molti degli accadimenti del G8 hanno dato vita a processi. Ma la morte di Carlo è stata archiviata. Circola un appello per la formazione di una commissione parlamentare d'inchiesta sui fatti del G8. Una commissione che indaghi davvero, non un comitato-burla come quello formato all'indomani di quei fatti. Il testo è sul sito piazzacarlogiuliani.org. Firmatelo, fatelo circolare. Il 20 luglio "Liberazione" avrà in allegato un dvd, "Quale verità per Piazza Alimonda?". Nel video, Giuliano Giuliani commenta le foto e i filmati agli atti del processo conclusosi con l'archiviazione. Archiviazione che appare davvero incredibile, vista la verità che emerge da questi materiali. E' il video di cui sopra, quello appena visto. Merita una grande diffusione. Tante cose, in Italia, meritano una grande diffusione, e raramente la ottengono. Ma il giorno dopo quello scempio, il 21 luglio, a Genova eravamo in trecentomila. E' lecito sperare che la maggior parte di noi tenga viva la memoria di quei giorni, e abbia ancora sete di giustizia.
Il video è già scaricabile in diversi formati, qui. Con la banda larga è più semplice, ovviamente. Comunque scaricatelo, fatelo girare. E se volete dare una mano al Supporto legale...

Per l'intervento con i collegamenti originali vedere qui.

Amnistia: lettera aperta al Presidente della Camera


Patrizio Gonnella, presidente di Antigone

Franco Corleone, garante dei detenuti del Comune di Firenze

Signor Presidente, proprio a ridosso delle dichiarazioni del ministro Mastella in Parlamento sulle linee d’azione del Governo nel delicato settore della giustizia siamo spinti a scriverLe perché sentiamo una forte preoccupazione. Quello che il ministro non ha detto è che la nostra è una giustizia di classe. La clemenza oggi è la risposta in via di urgenza a un sistema che sta implodendo nella sua iniquità e violenza. Siamo di fronte all’ennesimo paradosso per quanto riguarda il provvedimento di amnistia e indulto.

Pare che non siano sufficienti il Suo impegno a calendarizzare il provvedimento, la determinazione del ministro, le adesioni autorevoli agli appelli della società civile. In galera l’estate è torrida. I 20 mila detenuti in surplus rispetto alla capienza regolamentare fanno vivere tutti in condizioni insopportabili.
Agosto è il mese più duro in carcere. Le chiediamo che il prossimo agosto la Sua Camera si occupi di giustizia, quella dei poveri, degli esclusi, degli emarginati. Sarebbe un segnale forte, autorevole, di qualità. Pensiamo che una sessione estiva di lavoro sul carcere possa far bene a tutti, dentro e fuori le aule parlamentari e le carceri. L’amnistia e l’indulto sono necessari per poi costruire un nuovo sistema penale e penitenziario.
La metà dei detenuti è il prodotto di due leggi, quella sulle droghe e quella sull’immigrazione. In attesa della loro indifferibile abrogazione le norme criminogene dovranno essere previste nell’amnistia, in particolare i reati previsti dall’articolo 73, 5° comma, del DPR 309/90 e la violazione delle norme sull’espulsione da parte degli immigrati senza permesso.
Non osiamo pensare alle conseguenze incontrollabili nelle carceri dell’ennesimo fallimento della proposta di amnistia e indulto. La delusione sarebbe più che giustificata. Le obiezioni della destra possono essere superate sperimentando un terreno di dialogo che veda nell’amnistia del ‘90 la base di partenza. Le obiezioni di Di Pietro e di pezzi dei Ds possono essere superate non disperdendo il lavoro di riforma del codice penale fatto da Grosso due legislature fa. La commissione Pisapia lavori sulla seconda parte del codice penale, quella dei reati e delle pene, e depositi subito al ministro e al Parlamento la prima parte, in modo che si dia un segnale di attenzione a chi pensa che la clemenza debba essere preceduta da riforme strutturali. Nel frattempo nelle galere si muore di caldo, di malattia, di disperazione.

Per questi motivi Le proponiamo di mettere in cantiere una sessione estiva speciale della Camera sui problemi del carcere che in ogni caso rappresenterebbe un segno di attenzione e di partecipazione. Vi sono alcuni provvedimenti che possono apparire minori, ma sono di grande valore simbolico, di impatto pratico e di affermazione dei diritti. Ci riferiamo all’istituzione del Garante (o difensore) dei diritti dei detenuti, alla previsione dell’affettività in carcere, al diritto di voto dei detenuti, alla giurisdizionalizzazione dei reclami dei detenuti, all’ordinamento penitenziario minorile, al diritto di visita degli istituti penitenziari da parte dei sindaci, alla previsione del reato di tortura. Riteniamo che su questo pacchetto si potrebbe anche verificare un accordo vasto e non solo di uno schieramento.

Signor Presidente, Lei aveva proposto una razionalizzazione dei lavori dell’aula, noi suggeriamo che per questo anno, ad inizio di legislatura, si possa prevedere una pausa dei lavori parlamentari assai contenuta e che proprio in agosto, il mese più terribile in carcere per assenza di attività, il Parlamento risponda alle attese che rischiano di trasformarsi ancora una volta in tragiche illusioni. Lavorare ad agosto per i carcerati sarebbe un gesto di responsabilità, consapevolezza e dialogo con gli ultimi.

venerdì, luglio 14, 2006

"Libero" e la "betulla" del SISMI


A pochi giorni dal quinto anniversario dell'assassinio di Carlo Giuliani è interessante segnalare un intreccio a suo modo inaspettato venuto alla luce nell'inchieste della magistratura sul rapimento del ex imam di Milano Abu Omar. Potrebbe essere un semplice coincidenza, ma casi come questi sono quelli che solitamente confermano la regola che recita "a pensare male si fa peccato ma ci si imbrocca quasi sempre". Non voglio entrare nelle questioni legate al processo per l'assasinio di Carlo, nemmeno parlare ora dei tantissimi lati oscuri di questa vicenda che fino ad ora non sono stati disvelati. La notizia attuale da cui si parte è l'iscrizione nel registro degli indagati sul rapimento dell'imam del vicedirettore di "libero", Renato Farina. Nome in codice (per il Sismi): betulla.
Cosa c'entra tutto questo con quello che avvenì in P.zza Alimonda 5 anni fa? Semplice, ma anche un poco inquietante. Quando Carlo venne colpito e restò a terra proprio in P.zza Alimonda, i primi giornalisti ad arrivare sul posto furono Capuozzo - il cui cameramen riprese la scena dello sbirro che gridava "lui l'ha ucciso, con il suo sasso" - e appena in ritardo su quest'ultimo Renato Farina, appunto il giornalista che ora sembra sia stato sul libro paga del Sismi (nella foto si vedono accorrere in alto a sinistra).


Cosa c'è di strano!?
Come è che uno è un bravo giornalista? Perchè arriva per primo la dove ci sono le notizie.

E come si può arrivare per primi a coprire una notizia? Ve lo spiega
qui Girolamo De Michele in un articolo per Carmillaonline, comunque vi svelo subito che di modi se ne conoscono tre: fiuto, fortuna o una soffiata...

mercoledì, luglio 12, 2006

The Declaration of Indipendence from Oil


Provate a farvi un giretto su questo sito della campagna FreedomFromOil, troverete una bella, divertente e intelligente animazione... Ovviamente si tratta di una campagna contro l'uso degli idrocarburi, in particolare negli Stati Uniti dove i diffusissimi S.U.V. consumano una quantità enorme di gasolio e benzina. Avevamo già segnalato qui come aziende automobilistiche statunitensi abbiano studiato operazioni commerciali per "contribuire" alla spesa carburante di questi giganti brutti e puzzolenti. Non serve ricordare che negli States il costo dei carburanti è ridicolo se paragonato, ad esempio, a quelli europei; così come non serve ricordare le tante accuse alla politica estera statunitense sempre mirata al reperimento di materie prime fossili, in quantità e a condizioni "vantaggiose". La Ford in questa animazione è il target, perchè infatti se cento anni fa - un pò meno - questa produceva la prima Ford modello T - funzionante con olio di canapa, oltre che progettata con "allestimenti" sempre del medesimo materiale biocompatibile - che contribuì a definire l'identità statunitense e quella sua way of life, oggi la politica industriale della Ford rappresenta uno degli elementi che hanno portato al consumo abnorme di combustibili fossili, con la continua introduzione sul mercato di sempre nuovi - più grandi e potenti - S.U.V..

Prima o poi dovremo farci anche noi i conti con l'invasione di questi pachidermi meccanici sporchi e spreconi...

L'Italya campione del mondo canta pooo.po.po.po.po.pooo.pooooo


In Italya le cose girano sempre in maniera strana. Succede che l'Italya vince i mondiali di calcio e che tre quarti degli italiani cantino quello che è diventato di fatto l'inno per questo mondiali: una melodia fatta di po.po.po... Bè, la prima cosa strana è che i media italiani dimostrano come sempre la loro superficialità non essendosi nemmeno sbattuti nel cercare la canzone da cui viene tratta questa melodia. Cosa fra l'altro semplice visto il successo che un paio d'anni fa ebbe il pezzo degli White Stripes - garage-punk band - dal titolo Seven Nation Army. Magari nessuno l'ha voluto scoprire poichè il testo della canzone - qui sotto - è un'inno antimilitarista composto in occasione dell'invasione dell'Iraq. Chissà cosa direbbero i vari truzzi e fascistelli che in piazza portavano bandiere repubblichine mentre intonavano il po.po.po.....

SEVEN NATION ARMY

I'm gonna fight 'em all
A seven nation army couldn't hold me back
They're gonna rip it off
Taking their time right behind my back

And I'm talking to myself at night
Because I can't forget
Back and forth through my mind
Behind a cigarette
And the message coming from my eyes
Says leave it alone

Don't want to hear about it
Every single one's got a story to tell
Everyone knows about it
From the Queen of England to the hounds of hell

And if I catch it coming back my way
I'm gonna serve it to you
And that ain't what you want to hear
But thats what I'll do
And the feeling coming from my bones
Says find a home

I'm going to Wichita
Far from this opera for evermore
I'm gonna work the straw
Make the sweat drip out of every pore
And I'm bleeding, and I'm bleeding, and I'm bleeding
Right before the lord
All the words are gonna bleed from me
And I will sing no more
And the stains coming from my blood
Tell me go back home

venerdì, luglio 07, 2006

mi|to|po|iè|si


mi|to|po||si
s.f.inv.
1
TS lett., creazione o elaborazione dei miti

2 TS antrop., processo di formazione in cui l’uomo manifesta l’attitudine a pensare o a interpretare il reale in termini mitologici

dal Dizionario De Mauro

La costruzione di miti è oggi - molto più che in passato - uno strumento fortissimo nel disvelare logiche di potere, così come nel fornire materiale sensibile che possa divenire poi risorsa per la costruzione d'identità collettive.
Oggi più che in passato semplicemente perchè la nostra società è altamente differenziata e complessa, non c'è informazione o conoscenza che non venga veicolata attraverso qualche
medium, tanto che il nostro generico sapere sul mondo poco ha a che vedere con le nostre esperienze dirette, ma piuttosto con narrazioni di narrazioni di narrazioni di narrazioni...

Come dire, un
mito si trova a suo agio dentro un vortice di narrazioni.

I processi mitopoietici sono così preziosi oggi perchè possono veicolare codici e rappresentazioni alternative a quelle dominanti, ma se il vortice di narrazioni si blocca, se il mito viene cristallizzato dalle rappresentazioni mainstream, cioè ripulito-ricombinato, possiamo cogliere il lato scoperto dei processi mitopoietici oggi, cioè la loro fragilità, la loro decadenza conservatrice...

Come dire, un mito si trova a suo agio solo dentro un vortice di narrazioni.

Tutto questo per dire che io amo coltivare i miei miti, vederli correre nell'immaginario sociale. Perciò considerate questi pensieri come un introduzione a un progetto che in futuro vorrei riempisse un pò il blog, di cui non so ancora il nome e che quindi non esiste.
Semplicemente vorrei offrire materiale su quelli che io penso possano essere miti e mitologie capaci in potenza di igienizzare l'infosfera, ovviamente finchè questi corrono di bocca in bocca.

giovedì, luglio 06, 2006

CASO: INCENERITORI E NANOPATOLOGIE


Sulla questione rifiuti in italya si sa quante opinioni ci siano. Certo che prima dell'ormai famoso decreto Ronchi non c'era nè una cultura del riutilizzo nè del riciclaggio, tanto che non vi era una normativa complessiva in materia. Il problema si è imposto al dibattito pubblico con urgenza, poichè in molte aree geografiche le amministrazioni locali non sanno più dove sbattere la testa (o meglio i rifiuti...) , ma anche per le pressioni dell'Unione Europea e per il business che il trattamento dei rifiuti genera. Quindi se in alcune arre geografiche - non necessariamente di una medesima area amministrativa - si è negli ultimi anni puntato sulla raccolta differenziata "spinta", in altre aree si procede molto diversamente con l'ausilio degli inceneritori esistenti o con la progettazione di nuovi impianti dell'"ultima generazione". Un esempio di mega-inceneritore della new generation è quello di Brescia, sempre portato come esempio; costruito dall'Ansaldo, alla faccia di ogni protesta dei cittadini - o di una parte dei cittadini di Brescia - l'impianto è andato ampliandosi, fino alle attuali tre linee. Ora, lasciando perdere come l'uso di questa tecnologia determini l'impostazione generale degli interventi in materia di rifiuti, uno dei temi più scottanti è quello legato alla salute delle cittadine e dei cittadini. Finora i favorevoli a questi mega-impianti hanno negato ogni pericolosità, senza però convincere l'opinione pubblica, o quanto meno grosse fette di questa. Qui sotto, da Nanodiagnostics, un articolo che pone la questione della nocività sulla base di nuove conoscenze relative alle nanopatologie...

Ormai non esiste più alcun dubbio a livello scientifico: le micro- e nanoparticelle, comunque prodotte, una volta che siano riuscite a penetrare nell’organismo innescano tutta una serie di reazioni che possono tramutarsi in malattie. Le nanopatologie, appunto.
Se è vero che le manifestazioni patologiche più comuni sono forme tumorali, è altrettanto vero che malformazioni fetali, malattie infiammatorie, allergiche e perfino neurologiche sono tutt’altro che rare. A prova di questo, basta osservare ciò che accade ai reduci, militari o civili che siano, delle guerre del Golfo o dei Balcani o a chi sia scampato al crollo delle Torri Gemelle di New York e di quel crollo ha inalato le polveri.
“Comunque prodotte”, ho scritto sopra a proposito di queste particelle che sono inorganiche, non biodegradabili e non biocompatibili. E l’ultimo aggettivo è sinonimo di patogenico. Il fatto, poi, che siano anche non biodegradabili, vale a dire che l’organismo non possieda meccanismi per trasformarle in qualcosa di eliminabile, rende l’innesco per la malattia “eterno”, dove l’aggettivo eterno va inteso secondo la durata della vita umana.
Le particelle di cui si è detto hanno dimensioni piccolissime, da qualche centesimo di millimetro fino a pochi milionesimi di millimetro, e più queste sono piccole, più la loro capacità di penetrare intimamente nei tessuti è spiccata; tanto spiccata da riuscire perfino, in alcune circostanze e al di sotto di dimensioni inferiori al micron (un millesimo di m millimetro), a penetrare nel nucleo delle cellule senza ledere la membrana che le avvolge. Come questo accada sarà il tema di un incipiente progetto di ricerca europeo che vedrà coinvolto come coordinatore il nostro gruppo.
Se è vero che la natura è una produttrice di queste polveri, e i vulcani ne sono un esempio, è pure vero che le polveri di origine naturale costituiscono una frazione minoritaria del totale che oggi si trova sia in atmosfera (atmosfera significa ciò che respiriamo) sia depositato al suolo, ed è pure vero che la loro granulometria media è, tutto sommato, relativamente grossolana.
È l’uomo il grande produttore di particolato, soprattutto quello più fine. Questo perché la tecnologia moderna è riuscita ad ottenere a buon mercato temperature molto elevate a cui eseguire le più svariate operazioni, e, in linea generale e a parità di materiale bruciato, più elevata è la temperatura alla quale un processo di combustione avviene, minore è la dimensione delle particelle che ne derivano. A questo proposito, occorre anche tenere conto del fatto che ogni processo di combustione, nessuno escluso, produce particolato, sia esso primario o secondario. Per particolato primario s’intende quello che nasce direttamente nel crogiolo, per secondario, invece, quello che origina dalla reazione tra i gas esalati dalla combustione (tra gli altri, ossidi di azoto e di zolfo) e la luce, il vapor d’acqua e i composti principalmente organici che si trovano in atmosfera.
Al momento attuale, la legge prescrive che l’inquinamento particolato dell’aria sia valutato determinando la concentrazione di particelle che abbiano un diametro aerodinamico medio di 10 micron - le ormai famose PM10 - e prescrive che la valutazione avvenga per massa. Nulla si dice ancora, invece, a proposito delle polveri più sottili: le PM2,5 (cioè particelle con un diametro aerodinamico medio di 2,5 micron), le PM1 (diametro da 1 micron) e le PM0,1 (diametro da 0,1 micron). Sono proprio quelle le polveri realmente patogene, con una patogenicità che cresce in modo quasi esponenziale con il diminuire del diametro. E per avere un’idea degli effetti sulla salute di queste poveri occorre che le particelle siano non pesate ma classificate per dimensione e contate. Dal punto di vista pratico, la massa di una particella da 10 micron corrisponde a quella di 64 particelle da 2,5 micron, oppure di 1.000 da un micron, oppure, ancora, a quella di 1.000.000 di particelle da 0,1 micron. Perciò, valutare il particolato in massa e non per numero e dimensione delle particelle non dà indicazioni utili dal punto di vista sanitario e può, anzi, essere fuorviante.
Venendo al problema dell’inquinamento da rifiuti, è ovvio che questi debbano, in qualche modo, essere smaltiti.
A questo punto, è necessario ricordare la cosiddetta legge di Lavoisier o della conservazione della massa. Questa recita che in una reazione chimica la massa delle sostanze reagenti è uguale alla massa dei prodotti di reazione. Il che significa che, secondo le leggi che regolano l’universo, noi riusciamo solo a trasformare le sostanze, ma non ad annullarne la massa.
Ciò che avviene quando s’inceneriscono i rifiuti, dunque, altro non è se non la loro trasformazione in qualcosa d’altro, e questa trasformazione è ottenuta tramite l’applicazione di energia sotto forma di calore.
Stante tutto ciò che ho scritto sopra e che è notissimo sia tra gli scienziati sia tra gli studenti delle scuole medie, se noi bruciamo l’immondizia, altro non facciamo se non trasformarla in particelle tanto piccole da farle scomparire alla vista e, con i cosiddetti “termovalorizzatori” – una parola che esiste solo in Italiano e che evoca l’idea ingenuamente falsa che si ricavi valore economico dall’operazione – la trasformazione produce particelle ancora più minute e, dunque, più tossiche.
Malauguratamente, non esiste alcun tipo di filtro industriale capace di bloccare il particolato da 2,5 micron o inferiore a questo, ma, dal punto di vista dei calcoli che si fanno in base alle leggi vigenti, questo ha ben poca importanza: il “termovalorizzatore” produce pochissimo PM10 (peraltro, la legge sugl’inceneritori prescrive ancora la ricerca delle cosiddette polveri totali ed è, perciò, ancora più arretrata) e la quantità enorme di altro particolato non rientra nelle valutazioni. Ragion per cui, a norma di legge l’aria è pulita. Ancora malauguratamente, tuttavia, l’organismo non si cura delle leggi e le patologie da polveri sottili (le PM10 sono tecnicamente polveri grossolane), un tempo ignorate ma ora sempre più conosciute, sono in costante aumento. Tra queste, le malformazioni fetali e i tumori infantili.
Tornando ala legge di Lavoisier, uno dei problemi di cui tener conto nell’incenerimento dei rifiuti è la quantità di residuo che si ottiene. Poiché nel processo d’incenerimento occorre aggiungere all’immondizia calce viva e una rilevante quantità d’acqua, da una tonnellata di rifiuti bruciata escono una tonnellata di fumi, da 280 a 300 kg di ceneri solide, 30 kg di ceneri volanti (la cui tossicità è enorme), 650 kg di acqua sporca (da depurare) e 25 kg di gesso. Il che significa il doppio di quanto si è inteso “smaltire”, con l’aggravante di avere trasformato il tutto in un prodotto altamente patogenico. E in questo breve scritto si tiene conto solo del particolato inorganico e non di tutto il resto, dalle diossine (ridotte in quantità ma non eliminate dall’alta temperatura), ai furani, agl’idrocarburi policiclici, agli acidi inorganici (cloridrico, fluoridrico, solforico, ecc.), all’ossido di carbonio e quant’altro.
Affermare, poi, che incenerire i rifiuti significa non ricorrere più alle discariche è un ulteriore falso, dato che le ceneri vanno “smaltite” per legge (decreto Ronchi) in discariche per rifiuti tossici speciali di tipo B1.
Si mediti, poi, anche sul fatto che l’incenerimento comporta il mancato riciclaggio di materiali come plastiche, carta e legno. I “termovalorizzatori” devono funzionare ad alta temperatura e, per questo, hanno bisogno di quei materiali che possiedono un’alta capacità calorifica, vale a dire proprio le plastiche, la carta e il legno che potrebbero e dovrebbero essere oggetto di tutt’altro che difficile riciclaggio.
Tralascio qui del tutto il problema economico perché non rientra nell’argomento specifico, ma il bilancio energetico è fallimentare e, se non ci fossero le tasse dei cittadini a sostenere questa forma di trattamento dei rifiuti, a nessuno verrebbe mai l’idea di costruire impianti così irrazionali.
Rimandando per un trattamento esaustivo dell’argomento ai numerosi testi che lo descrivono compiutamente, compresi i siti Internet dell’ARPA e di varie AUSL, la conclusione che qualunque scienziato non può che trarre è che incenerire i rifiuti è una pratica che non si regge su alcun razionale. Ma, al di là della scienza, il sensus communis del buon padre di famiglia che per i Romani era legge può costituire un’ottima guida. Usare i cosiddetti “termovalorizzatori” spacciandoli per un miglioramento tecnico, poi, non fa che peggiorare la situazione dal punto di vista del nanopatologo, ricorrendo questi a temperature più elevate.
Perciò, una pratica simile non può essere in alcun modo presa in considerazione come alternativa per la soluzione del problema legato allo smaltimento dei rifiuti, se non altro perché i rifiuti non vengono affatto smaltiti ma raddoppiati come massa e resi incomparabilmente più nocivi.

Stefano Montanari – Direttore Scientifico del laboratorio Nanodiagnostics

martedì, luglio 04, 2006

Il lavoro debilita l'uomo...


Proprio così, come vedete è un pò che non metto mano al blog e ciò dipende dal fatto che al lavoro devo strettamente lavorare e non riesco - proprio così - ad aggiornare finoaquituttobene. Un pacco, ma d'altronde ho trecento e passa e-mail accumulate nella posta e quindi si fa che quel che si può. Qualcuno potrebbe pensare "non avrà cominciato a lavorare davvero?". Risposta: No. Però diciamo che per due settimane sarò un pò sotto pressione. Se vedete che latito don't worry, torno subito.