mercoledì, novembre 29, 2006

Vandana Shiva: rubare l'acqua per creare la sete.

La questione dei commons, dei beni comuni, è stata già alcune volte la protagonista di qualche post su finoaquituttobene, in particolare per quel bene così prezioso e fondamentale che è l'acqua: da ciò che succede nella Regione Lombardia fino alle tendenze globali che tendono a privatizzare l'acqua e farne una merce qualsiasi.

Ora pubblico di seguito un articolo di Vandana Shiva, fisica ed economista indiana, che propone non solo una forte critica alla pretesa generalizzata di privatizzare l'acqua ma una denuncia diretta alle potenti multinazionali che in India - dove l'acqua, diversamente che sulle Alpi, scarseggia - in nome del profitto e con una gran faccia tosta sfruttano e distruggono l'ambiente per recuperare risorse idriche e allo stesso tempo propongono poi al consumatore prodotti scadenti e pericolosi per la salute di chi ne fa uso - cioè beve.



Rubare l'acqua per creare la sete.
Coca-cola, Pepsi e la politica della sicurezza alimentare.


Vietare o meno Coca Cola e Pepsi non puo' e non
dovrebbe dipendere solamente da se un particolare
laboratorio non trova particolari livelli di residui di
particolari pesticidi oltre i limiti permessi nelle bevande
analcoliche. I problemi dovuti alla creazione da parte di
Coca Cola e Pepsi di una crisi idrica e di una crisi
sanitaria sono separatamente ragioni sufficienti per vietarle.


di Vandana Shiva (Z Net - Peacelink)

In una democrazia, bandire prodotti e attivita' dannose e' un'espressione della liberta' e dei diritti dei cittadini. La messa al bando protegge i cittadini dai rischi per la salute e per l'ambiente. E' per questo che il fumo è stato vietato nei luoghi pubblici. E' per questo che le sostanze dannose per l'ozono sono state proibite dal Protocollo di Montreal. E' per questo che la Convenzione di Basilea ha bandito il commercio di rifiuti tossici e pericolosi.

La Coca Cola e la Pepsi sono entrate senza dubbio a far parte del gruppo dei prodotti tossici e dannosi che e' necessario bandire per proteggere la salute dei cittadini e per proteggere l'ambiente. Il 22 agosto la campagna "Coca Cola e Pepsi lasciate l'India" ha intensificato l'attività per bandire

Coca Cola e Pepsi con una giornata di azioni per "bandire Coca Cola e Pepsi". Il Kerala ha bandito le coca cole. Il Karnataka, il Madhya Pradesh, il Gujarat, il Rajastan hanno vietato le bevande analcoliche dalle istituzioni educative e dalle mense del governo. E "zone libere da Coca Cola e Pepsi" si stanno diffondendo in tutto il Paese.

Rubare l'acqua, creare sete.

Ci sono serie ragioni ambientali e umanitarie per vietare la produzione di bevande analcoliche in India. Ogni stabilimento di Coca Cola e Pepsi estrae 1-2 milioni di litri d'acqua al giorno. Se ogni stabilimento estrae 1-2 milioni di litri d'acqua al giorno e ci sono 90 stabilimenti, l'estrazione giornaliera va dai 90 ai 180 milioni di litri. Questo potrebbe soddisfare il fabbisogno giornaliero di acqua potabile di milioni di persone. Ogni litro di queste bevande distrugge ed inquina 10 litri d'acqua. E si e' scoperto che le acque di scolo così prodotte contengono alti livelli di cadmio e piombo (Pollution Control Board, Kerala, Hazard Centre).

Una prolungata esposizione al cadmio puo' potenzialmente avere effetti quali disfunzioni renali, danni alle ossa, al fegato e al sangue. Il piombo colpisce il sistema nervoso centrale, i reni, il sangue e il sistema cardio-vascolare. Le donne di un piccolo villaggio del Kerala sono riuscite a far chiudere uno stabilimento della Coca Cola. "Quando bevete una coca, bevete il sangue della gente", ha detto Mylamma, la donna che ha dato inizio al movimento contro la Coca Cola a Plachimada. Lo stabilimento della Coca Cola di Plachimada nel marzo 2002 ricevette una commessa per la produzione di 1.224.000 bottiglie di prodotti Coca Cola al giorno e ricevette dal panchayat una licenza condizionata per installare una pompa a motore per l'acqua. Ad ogni modo, la compagnia comincio' ad estrarre illegalmente milioni di litri di acqua pulita. Secondo la gente del posto, la Coca Cola estraeva 1,5 milioni di litri d'acqua al giorno. Il livello dell'acqua comincio' a calare, passando da 150 a 500 piedi sotto la superficie terrestre. Membri delle tribu' e contadini si lamentarono che i depositi e le scorte d'acqua risentivano negativamente dell'installazione indiscriminata di pozzi per lo sfruttamento delle falde freatiche, con gravi conseguenze per le coltivazioni. I pozzi minacciavano anche le fonti tradizionali di acqua potabile, gli stagni, i serbatoi, i fiumi e i canali navigabili. Quando la compagnia non riusci' a soddisfare la richiesta di informazioni dettagliate da parte del panchayat, fu notificato un avviso che la invitava a provare il proprio diritto, e la licenza fu cancellata. La Coca Cola cerco' invano di corrompere il presidente del panchayat, A. Krishnan, con 300 milioni di rupie. La Coca Cola non solo rubava l'acqua della comunita' locale, ma inquinava anche quella che non prendeva. La compagnia depositava materiali di scarto all'esterno dello stabilimento, materiali che durante la stagione delle piogge si propagavano nelle risaie, nei canali e nei pozzi, causando gravi rischi per la salute. In seguito a questo scarico, 260 pozzi creati dalle autorita' pubbliche per l'approvvigionamento di acqua potabile e per l'agricoltura si sono prosciugati. La Coca Cola inoltre pompava le acque di scarico nei pozzi asciutti all'interno della proprietà della compagnia. Nel 2003 l'ufficiale medico del distretto informo' la gente di Plachimada che la loro acqua non era adatta ad essere bevuta. Le donne, che gia' sapevano che la loro acqua era tossica, dovevano fare chilometri per procurarsi l'acqua. La Coca Cola aveva provocato una carenza idrica in una regione ricca d'acqua scaricando acque di scolo contenenti grandi quantita' di piombo, cromo e cadmio.

Le donne di Plachimada non avevano intenzione di permettere di questa pirateria idrica. Nel 2002 cominciarono un dharna (sit-in) ai cancelli della Coca Cola. Per festeggiare il primo anniversario della loro agitazione mi unii a loro nella Giornata della Terra del 2003. Il 21 settembre 2003 una grossa manifestazione consegno' un ultimatum alla Coca Cola. E nel gennaio 2004 la Conferenza Mondiale per l'Acqua porto' attivisti globali a Plachimada per sostenere gli attivisti locali. Un movimento iniziato da donne adhivasi locali aveva messo in moto un'ondata di energia a loro sostegno a livello nazionale e globale. Oggi lo stabilimento e' chiuso e movimenti sono iniziati in altri stabilimenti. I giganti della Coca Cola stanno aggravando la crisi idrica gia' conosciuta dalle popolazioni delle aree rurali.

Ci sono un solo criterio e una sola misura nel problema dell'uso dell'acqua: il diritto fondamentale di ogni uomo ad acqua pulita, sana e adeguata non puo' essere violato. E la Coca Cola e la Pepsi stanno violando questo diritto. E' per questo che la loro estrazione di milioni di litri d'acqua dev'essere vietata. Nel caso di Plachimada l'Alta Corte del Kerala aveva stabilito "che le falde sotterranee appartengono alla popolazione. Lo Stato e le sue istituzioni dovrebbero fungere da amministratori di questo grande bene. Lo Stato ha il dovere di proteggere le falde da un eccessivo sfruttamento e l'inattivita' dello Stato a questo proposito equivale ad una violazione del diritto della gente alla vita, garantito dall'art. 21 della Costituzione dell'India. Le falde freatiche, sotto la terra dell'imputato, non gli appartengono. Le falde appartengono al pubblico e il secondo imputato non ha nessun diritto di reclamare una forte partecipazione e il Governo non ha il potere per permettere ad un privato di estrarre una tale quantita' di acque sotterranee, che sono una proprieta' che gli e' stata affidata. Questo principio dell'acqua come un bene pubblico e' cio' che ha condotto al divieto di estrazione dell'acqua a Plachimada. E' il principio che il 20 gennaio 2005 ha portato le comunita' locali in 55 stabilimenti di Coca Cola e Pepsi per notificare alle aziende che stavano rubando una risorsa comune.

Rubare la salute, creare malattia.

La lotta contro la Coca Cola e' anche una lotta per la salute. Residui di pesticidi sono stati trovati nella Coca Cola e nella Pepsi. Comunque le bevande analcoliche sono pericolose anche senza pesticidi. Le bevande analcoliche non hanno nessun valore nutrizionale in confronto alle nostre bevande locali, quali nimbu pani, lassi, panna, sattu. Con le loro campagne pubblicitarie aggressive i giganti delle bevande analcoliche sono riusciti a far vergognare i giovani indiani della nostra cultura gastronomica locale, nonostante i suoi valori nutrizionali e la sua sicurezza.

Hanno monopolizzato il mercato della sete, acquistando compagnie locali come Parle e bevande fredde locali fatte in casa o col lavoro a domicilio. Ma cio' che vendono Coca Cola e Pepsi e' una brodaglia colorata tossica, con valori anti-nutritivi. Il Ministro della Salute indiano ha chiesto alle star del cinema di non sostenere Coca Cola e Pepsi per via dei rischi rappresentati dallo zucchero contenuto nelle bevande analcoliche, implicate nelle epidemie di obesita' e diabete tra i bambini.

Marion Nestle ha definito le bevande analcoliche delle "porcherie", ricche di calorie ma poco nutrienti. Il Centro per la Scienza e l'Ambiente nell'Interesse Pubblico ha definito le bevande analcoliche "caramelle liquide". Una lattina da 12 once contiene 1,5 once di zucchero.

I giganti delle bevande analcoliche si stanno orientando sempre di piu' sullo Sciroppo di Grano ad Alta Concentrazione di Fruttosio (High Fructose Corn Syrup, HFCS). Il Ministero della Salute non ha ancora affrontato la questione dei rischi per la salute dell'HFCS e dei rischi per la salute dei cibi geneticamente modificati se il grano utilizzato fosse grano geneticamente modificato. Se il Governo vuole che i cittadini usino dolcificanti sicuri dovrebbe bandire l'HFCS ed incoraggiare i produttori di zucchero di canna in India a passare all'agricoltura organica. Il Governo Centrale sta chiaramente fallendo nel proteggere la salute dei cittadini indiani.

La composizione nutritiva delle bevande analcoliche per dosi di 12 once in confronto al succo d'arancia o al latte magro.


Coca Cola Pepsi Succo d'arancia Latte magro
% calorie 154 160 168 153
Zucchero 40 40 40 18
Vit. A, UI 0 0 291 750
Vit C, mg 0 0 146 3
Acido folico, mg 0 0 164 18
Calcio, mg 0 0 33 450
Potassio, mg 0 0 711 352
Magnesio, mg 0 0 36 51
Fosfato, mg 54 55 60 353

Fonte: Marion Nestle, politiche alimentari.

Lo zucchero contenuto nelle bevande analcoliche non e' zucchero naturale, saccarosio, bensi' HCFS. Gli stabilimenti per la produzione dello sciroppo di grano hanno cominciato ad essere impiantati in India, e se non vengono stabilite delle regole rigide la dieta indiana potrebbe prendere la via di quella statunitense, dove lo sciroppo di grano ad alta concentrazione di fruttosio provoca resistenza all'insulina. A differenza del saccarosio, il fruttosio non passa attraverso alcune fasi critiche intermedie di collasso, ma viene deviato verso il fegato, dove imita la capacita' dell'insulina di far rilasciare al fegato acidi grassi nel sangue. Degli studi hanno scoperto che le diete a base di fruttosio contengono il 31% in piu' di trigliceridi rispetto alle diete a base di saccarosio. Il fruttosio inoltre riduce il tasso di ossidazione degli acidi grassi. P.A. Mayes, uno scienziato dell'universita' di Londra, e' giunto alla conclusione che l'assunzione prolungata di fruttosio provoca un adattamento dell'enzima che aumenta la lipogenesi, la formazione del grasso, e la formazione di VLDL (colesterolo cattivo), che conducono a trigliceridemia (eccesso di trigliceridi nel sangue), ridotta tolleranza al glucosio, e iperinsulinemia (eccesso di insulina nel sangue). Gli scienziato dell'Universita' della California a Berkley hanno anche confermato che un consumo eccessivo di fruttosio stava deviando la dieta americana verso cambiamenti metabolici che inducono all'accumulo di grasso.

L'India non puo' affrontare gli elevati costi sanitari di una dieta a base di fruttosio, che ha anche altri costi nutrizionali come effetti collaterali. Quando il grano viene utilizzato per produrre sciroppo ad alta concentrazione di fruttosio, ai poveri viene negato un elemento nutritivo basilare. Il 30% del grano viene gia' utilizzato per produrre materia grezza per la produzione industriale di cibo per il bestiame e fruttosio e non viene usato come alimento per l'uomo. Inoltre, la sostituzione di dolcificanti piu' sani derivati dallo zucchero di canna, come il gur e il khandsari, derubano i contadini di guadagni e mezzi di sostentamento. L'impatto dei prodotti della cola sulla catena alimentare e sull'economia e' pertanto molto ampio e non finisce con la bottiglia.

Ad ogni modo, quello che c'e' nella bottiglia non va bene per una dieta sana. E' risaputo che il consumo di bevande analcoliche contribuisce a rovinare i denti, e gli adolescenti che consumano bevande analcoliche mostrano un rischio di fratture ossee 3-4 volte superiore rispetto a quelli che non ne bevono. Le bevande analcoliche stanno diventando la maggiore fonte di caffeina nelle diete dei bambini, visto che ogni lattina da 33 cl contiene circa 45 mg di caffeina. E ci sono altri ingredienti nella brodaglia tossica, un composto antigelo - etilenglicole per ridurre la temperatura di congelamento, acido fosforico per dargli un po' di mordente.

La gente consuma 4 kg di prodotti chimici a testa all'anno, sulla base di 20,6 milioni di tonnellate di prodotti chimici sotto forma di coloranti artificiali, aromi, ecc. (Prashant Bhushan, "Soft drinks - a toxic brew"). Pertanto non e' solo dei pesticidi che dovremmo preoccuparci, ma delle miscele tossiche da cui i giganti della cola stanno rendendo dipendenti i nostri figli. L'altra violazione commessa da Coca Cola e Pepsi e' la violazione del diritto alla salute. L'acido fosforico e il diossido di carbonio rendono le bevande analcoliche fortemente acide, il che spiega come mai siano efficaci come detergenti per il bagno. Non approveremmo mai che i nostri figli bevessero detergente per il bagno, tuttavia le bevande analcoliche, che hanno le stesse proprieta' acide, vengono vendute liberamente. E' a causa di questi rischi che negli Stati Uniti le scuole hanno vietato le bevande analcoliche. E' a causa di questi rischi che 10.000 scuole e college indiani si sono dichiarati "zone libere da Coca Cola e Pepsi". E' a causa di questi rischi che il Governo del Kerala ha bandito le Cole. E' a causa di questi rischi che la mensa del Parlamento Indiano non serve Coca Cola e Pepsi. Ed e' a causa di questi rischi che i rappresentanti della Pepsi hanno ammesso che le loro bevande non sono sicure per i bambini.

Tuttavia, il Governo dell'Unione sta esitando sotto la pressione delle aziende e degli Stati Uniti. Il Ministero della Salute dell'Unione ha messo in discussione uno studio del Centro per la Scienza e l'Ambiente sui residui di pesticidi in Coca Cola e Pepsi, citando testualmente uno studio commissionato dalla Coca Cola. Chiaramente la salute dei cittadini non puo' essere messa nelle mani di un Governo che fissa degli standard arbitrari che garantiscono a Coca Cola e Pepsi la sicurezza per fare profitti enormi, ma che non garantiscono la sicurezza per la salute dei cittadini.

Il Ministero della Salute ha annunciato che entro gennaio 2007 avra' degli standard di sicurezza idonei per Coca Cola e Pepsi. Tuttavia Coca Cola e Pepsi non diventeranno sicure dopo il gennaio 2007. Ci sono due motivi per cui dipendere solo dalla fissazione di uno standard non e' affidabile per garantire che i cittadini ricevano prodotti sicuri e salutari. In primo luogo, le decisioni centralizzate del Governo possono essere facilmente influenzate dagli interessi aziendali, come abbiamo visto nella risposta del Governo al dibattito in Parlamento. C'e' una scienza aziendale e c'e' una scienza pubblica. In un'epoca in cui sono le aziende a dettar legge, governerà la legge societaria. In secondo luogo, per loro natura gli standard sono riduttivi. Verranno fissati gli standard per i residui di pesticidi basandosi solo sui livelli permessi per ingredienti quali acqua e zucchero, senza badare agli effetti dannosi del prodotto sulla salute della gente e sull'ambiente. Abbiamo bisogno di una sicurezza alimentare olistica, non di standard per una pseudo - sicurezza riduttivi e manipolati che proteggono le corporazioni e non la gente. Le osservazioni dello stesso Ministro della Salute chiariscono che "standard di sicurezza riduttivi non rendono sicure Coca Cola e Pepsi". Mentre dichiarava che i residui di pesticidi erano "entro i limiti di sicurezza" nelle bottiglie testate a Myson e Gujarat, affermava anche che le cola sono porcherie e non erano sicure per la salute. La sicurezza e' piu' di uno standard per residui di pesticidi. E, come abbiamo visto, differenti laboratori danno risultati differenti.

Vietare o meno Coca Cola e Pepsi non puo' e non dovrebbe dipendere solamente da se un particolare laboratorio non trova particolari livelli di residui di particolari pesticidi oltre i limiti permessi nelle bevande analcoliche. I problemi dovuti alla creazione da parte di Coca Cola e Pepsi di una crisi idrica e di una crisi sanitaria sono separatamente ragioni sufficienti per vietarle. Prese insieme, rendono il divieto imperativo. Sono crimini contro la natura e le persone. I crimini vengono determinati dal loro impatto, non dallo "standard" degli strumenti usati per commettere un crimine. Coca Cola e Pepsi sono impegnate a devastare le risorse idriche della terra e stanno lentamente avvelenando i nostri figli. E non c'e' uno standard sicuro per la devastazione. Nessuno "standard sicuro" per un lento omicidio. E' per questo che dobbiamo bandirle dalle nostre vite con azioni da liberi e sovrani cittadini di un'India libera e sovrana.

Un discorso di un Ministro influenzato dai giganti della Cola non li scagiona, come hanno affermato. Devono essere i liberi cittadini indiani a scagionarli. E le popolazioni indiane non hanno scagionato la Coca Cola e la Pepsi. Dobbiamo costruire sull'esempio fornito da Plachimada e dal Kerala per liberare l'India da Coca Cola e Pepsi per proteggere le nostre falde e la salute delle generazioni future.

Dobbiamo resistere ad ogni tentativo di togliere a cittadini e stati i diritti costituzionali di prendere decisioni circa la sicurezza del nostro cibo, come propone il Food Safety Act 2006.

lunedì, novembre 27, 2006

It's a bad trip.



La notizia sta correndo in queste ore rimbalzando fra i nodi della Rete: il Professor Bad Trip ha lasciato questa vita e questa dimensione della realtà.
Penso che tutti - ed in particolare coloro vicino ai movimenti underground in italya negli ultimi 15 anni - avranno impresse nelle proprie retini alcune delle immagini lisergiche ed energeticamente eccedenti che il Prof. Bad Trip ha prodotto copiosamente, mostrandoci con folle anticipazione e tensione visionaria i segni della catastrofe ecologica e sociale in corso.

Per chi rimane su questa terra it's a bad trip.

Quella che segue è la nota sulla morte del Prof Bad Trip pubblicata sul sito di Decoder, rivista cyberpunk che più e più volte si è avvalsa dell'arte di Bad Trip.

"Sabato 25 novembre è morto all'età di 43 anni Gianluca Lerici - aka Professor Bad Trip - uno dei grandi, forse il più grande, artista visuale underground italiano degli ultimi 15 anni.
I funerali di Bad Trip si terranno lunedì 27 novembre alle ore 15 presso il cimitero di La Spezia. Grazie a chi ci sarà.


Il Prof. Bad Trip, di La Spezia, studioso e artista a tutto campo, conoscitore della cultura underground internazionale, si è fatto conoscere nei primi anni Ottanta come autore e illustratore di fanzine & volantini punk, come produttore di mail-art e di t-shirt artistiche ad alto livello, per poi sviluppare negli anni Novanta una serie straordinaria di collage e parallelamente uno stile fumettistico inconfondibile.

E' stato l'unico artista italiano della generazione nata negli anni Sessanta a interpretare visualmente in maniera matura le distopie di JG Ballard - autore che ha sempre amato - e del cyberpunk.

Da circa un decennio si dedicava - tra le altre
cose - alla pittura su tela e ha esposto in decine di mostre con i suoi colori psichedelici e sui temi a lui cari, come le mutazioni e i mutanti, i "mostri" alla Philip Dick, creature spaziali, vulcani che esplodono, fabbriche inquinanti e altri disastri naturali e metropolitani.

Esperto serigrafo ha prodotto artigianalmente migliaia di t-shirt, oltre a decine di serigrafie su materiali vari. Stava ultimamente lavorando per realizzazioni di oggetti "da portare" di alto livello artistico distribuiti in tutto il mondo. Anarchico, è sempre stato vicino ai movimenti underground.

Colto collezionista di libri, riviste e dischi underground e politici.


Per Decoder rivista cartacea ha prodotto numerose copertine, illustrazioni e fumetti. Per ShaKe ha disegnato "Il pasto nudo" a fumetti di WS Burroughs e l'inserto a fumetti di Costretti a sanguinare di Marco Philopat.

Senza di lui sarà più dura.
Ma c'è da dire che ha sempre dato l'impressione di vivere da uomo libero."

giovedì, novembre 23, 2006

Beppe Sebaste: lo Stato si occupi della memoria delle sue stragi.


Su l'Unità del 20 novembre è apparso il seguente appello dello scrittore Beppe Sebaste (qui trovate la sua bibliografia), è un appello dall'alto valore e per questo motivo vari siti lo stanno facendo circolare... io concordo col valore e mi accodo...

L’Unità, unico giornale, riportava il 19 novembre scorso alcune delle testimonianze che si sono potute udire nel pubblico processo sul massacro nazista di Marzabotto, oltre sessant’anni fa. Non è solo il principio dell’imprescrittibilità del crimine, le cui carte giacevano occultate in un armadio polveroso della procura militare, a rendere importante questo processo in corso che pure riguarda i fondamenti costituzionali dell’Italia repubblicana, e coinvolge ogni cittadino come “parte civile”. La sfilata di oltre duecento testimoni, che travalica le stesse necessità processuali, riporta alla mente l’evento inaugurale dell’Era dei testimoni (come titolava il suo bel libro la storica Annette Wievorka): il processo Eichmann a Gerusalemme.

Lì i testimoni dei lager e i loro racconti furono l’insostituibile occasione di dare pubblica voce alle vittime di un genocidio. Ma fu anche l’inizio dell’irruzione della memoria viva e calda nella storia contemporanea: alla fredda compostezza del diritto e all’oggettività distaccata della storia si affiancò, a costo di turbarle, la parte della memoria, col suo bagaglio di soggettività e di empatia. Con la Shoah nasce la storia del presente, che porta a maturazione e coscienza l’importanza civile e politica degli archivi, orali e scritti.

Un libro recente, Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica (ombre corte), scritto da un storico italiano che da tempo vive e insegna a Parigi, Enzo Traverso, fa il punto sulla questione analizzando con sobria lucidità gli usi politici della memoria. In quei Paesi in cui l’elaborazione del lutto e dei crimini commessi non è stata compiuta a dovere, il ritorno del rimosso può essere assai virulento e imbarazzante, e la memoria non riesce a costituirsi in Storia. Se è vero, come ha scritto Sergio Luzzatto, che ogni democrazia si fonda su una “gerarchia retrospettiva della memoria”, ha ragione Traverso ad osservare con preoccupazione che in Italia “la crisi dei partiti e delle istituzioni che incarnavano la memoria antifascista ha creato le condizioni per l’emergere di un’altra memoria, fino a quel momento silenziosa e stigmatizzata. Il fascismo è ora rivendicato come un pezzo di storia nazionale, l’antifascismo respinto come una posizione ideologica ‘antinazionale’”. Commemorazioni congiunte di tutte le vittime dell’ultima guerra, senza soffermarsi sui valori e le motivazioni dei loro atti, o l’ormai famosa formula usata da Luciano Violante nel 1996 (i “ragazzi di Salò”), sembrano rimettere in discussione le scelte fatte al momento della nascita della Repubblica.

Anche la nozione di archivio, che riguarda la conservazione della memoria contemporanea, è dunque una questione politica, anzi istituzionale. E che esista un problema cruciale di archivi lo dice l’allarme lanciato dal Corriere della Sera sul destino delle carte processuali relative alla strage di Piazza Fontana a Milano, il 12 dicembre del 1969, “conservate” a Catanzaro. pzzafont2006.jpg
Un pezzo della storia più cupa d’Italia - la “perdita dell’innocenza”, come è stato detto da alcuni a sinistra - comunque sia una strage fascista tuttora senza colpevoli. «Piazza Fontana è il nostro 11 settembre. Eppure non tutti se lo ricordano. Se venisse fatto un sondaggio chiedendo che cosa è successo a Milano il 12 dicembre del 1969, non so quanti risponderebbero correttamente. Invece quella data dovrebbe far parte della nostra memoria collettiva». A parlare così è Marco Alessandrini, avvocato e figlio del magistrato che svelò per primo la pista nera.

Tempo fa una giovane giornalista, Maria Itri, descrisse l’imponente mole di fascicoli che giaceva nel caos dei sotterranei del tribunale, confusi tra di loro in scatoloni di supermercato, sottomessi al deperimento e all’illeggibilità. Senza parlare della completa mancanza di indicizzazione: “cercare un singolo documento in questa babele risulta praticamente impossibile, è come averlo perso per sempre”. Mario Porqueddu e Marco Nese sul Corriere della sera (7, 8, 12 novembre) hanno lanciato l’allarme: “Le carte giacciono da molti anni. Il tempo le consuma. Dicono che in tutto sono 500 mila fogli. Gli atti del processo per la strage di Piazza Fontana, le istruttorie, centinaia di fotografie, bobine, i reperti, perfino un giallo Mondadori che diedero a Pietro Valpreda quando chiese qualcosa da leggere in cella. veline che hanno più di 30 anni, manoscritti che rischiano di diventare illeggibili. Originali di cui non esiste una copia. Relazioni dei servizi segreti. Vecchi faldoni su “Ordine Nuovo”. Tutto questo pezzo di storia d'Italia rischia di andare perduto”.

La notizia del rischio di dissolvimento dei documenti di Piazza Fontana ha mobilitato passioni civili in tutta Italia, e qualcuno ha evocato l’immagine, fresca dell’anniversario dei volontari in soccorso all’alluvione di Firenze quarant’anni fa, di “angeli della carta”: recuperare materiali, documenti, storia e storie, scritture, sottrarli alla cancellazione, ciò che non va lasciato ai singoli volonterosi, ma assicurato dallo Stato. Possibile che solo i parenti delle vittime debbano farsi carico della conservazione e cura di questi documenti, che sono la storia del nostro Paese? Milioni di pagine, documenti di stragi che si intrecciano tra loro, inchieste che si incrociano, gruppi eversivi che si sovrappongono in uno “spettro” di stragi spesso irrisolte con responsabilità ancora in ombra. Sempre sul Corriere il ministro della Giustizia Mastella ha assicurato la copertura finanziaria per digitalizzare le carte, informatizzare i documenti, rendere disponibile l'intero materiale su computer. Insomma, “salvarlo in memoria”, secondo la formula tecnologica. Ma è sufficiente? O non sarà che, come nella poesia di Hans Magnus Enzensberger, “salvare in memoria vuol dire dimenticare”?

Al problema della conservazione materiale e alla lacuna di una seria costituzione di archivi si aggiunge forse un problema di rimozione, un delegare la memoria che rischia di perderla se non si costituisce in Storia, ovvero in Archivio. La memoria, si sa, si declina sempre al presente,, è il passato che resta presente, come nel lutto. Ma la temporalità propria degli archivi, ha insegnato il filosofo Jacques Derrida, è il “futuro anteriore”, il futuro nel passato: perché gli archivi riguardano il nostro avvenire di cittadini, gli archivi costruiscono le opere future. Anche il nesso tra archivio e democrazia è al centro da anni della riflessione di filosofi e storici, a partire dalle ricerche di Michel Foucault, per il quale l’archivio è nel crocevia tra ciò che si dice e ciò che non si dice: si tratta di ampliare la visibilità e la dicibilità degli eventi, contro l’invisibilità e gli interdetti del potere, ridurne la zona d’ombra. Il potere di certificazione degli archivi deve essere al servizio dei cittadini, della sfera pubblica e sociale. Insomma, l’archivio – l’apertura e la conservazione pubblica degli archivi – è tutt’uno con la democrazia, ciò che permette di continuare a scrivere la Storia e di trasmettere la memoria.

«Partiamo dal fatto che le carte del processo di piazza Fontana sono una montagna – ha detto il ministro Mastella - il problema di salvare i documenti e la memoria storica non riguarda un solo processo. Gli attentati che in questo Paese hanno provocato delle stragi negli ultimi 30 o 40 anni sono purtroppo numerosi. Non c'è solo piazza Fontana, ma anche la strage sul treno Italicus, quella della stazione di Bologna, il Dc9 di Ustica e via di seguito. Vorrei realizzare una banca dati generale che comprenda tutti i processi per strage». Un archivio informatico consultabile anche via Internet. «Così verrebbe reso un servizio a tutti. Le carte devono rimanere per un certo numero di anni nelle sedi di competenza, ma poi si possono rimuovere e portarle in altra sede”.

Facciamo nostre le parole del Ministro. L’unico esempio virtuoso di materiale ordinato e conservato, non solo digitalizzato ma indicizzato, è a Brescia per la strage di Piazza della Loggia, dove è stata costituita una “casa della memoria”. Ad esso si affianca il “museo della memoria” delle vittime di Ustica, la cui edificazione è in corso d’opera a Bologna, in un sito creato appositamente e a cui darà un contributo nell’allestimento il grande artista della commemorazione Christian Boltanski. Sarà un grande evento artistico e informativo, perché già l’impatto sul visitatore del relitto del Dc9 di Ustica, ricostruito come un puzzle che riproduce simbolicamente il lungo mosaico processuale per arrivare alla drammatica verità di quell’atto di guerra in tempo di pace, è molto forte. Ma le carte processuali relative a Ustica, la documentazione vera e propria attualmente a Rebibbia, sarà collocata nella sede regionale dell’Istituto Ferruccio Parri, dove già si trovano le carte attinenti alle indagini, alle perizie, agli atti istruttori e ai processi in possesso dell’Associazione dei parenti delle vittime di Ustica creata da Daria Bonfietti.

Ecco la proposta che lanciamo da queste pagine: il modello messo in atto per il Museo, cioè la conservazione dei documenti presso un istituto di storia, un’istituzione vera, diventi un modello per il caso di Piazza Fontana, ma anche per tutti gli altri casi che inevitabilmente si presenteranno, ed evitare che la dispersione degli atti giudiziari sulla vicenda di piazza Fontana annunci la dispersione probabile di altri atti di altre stragi di questi anni.


Il referente nazionale dell’Istituto Parri è l’INSMLI – Parri, ovvero Istituto Nazionale di Storia del Movimento di Liberazione in Italia, che riteniamo essere il referente giusto attorno al quale fare ruotare anche l’operazione per la raccolta del materiale di Piazza Fontana - la sede nazionale dell’istituto è a Milano, c’è anche quindi una pertinenza geografica. Ma c’è anche il prestigio del Presidente dell’Istituto, Oscar Luigi Scalfaro. Attorno questo istituto di comprovata affidabilità può nascere un progetto serio che deve trovare le gambe nel contributo di molti – a partire dal Ministero della Giustizia, alle Regioni a Enti che possono mettere in campo risorse anche tecniche, Cnr, Cineca.

Resta un problema di grande spessore: quello della memoria e della storia, quello da cui abbiamo preso le mosse. Le associazioni e i comitati di cittadini in Italia hanno fatto molto per contribuire alla ricerca della verità, tenere desta la memoria, scuotere le coscienze. Una grande supplenza civile. Ma la storia deve essere riconsegnata alle sue istituzioni. Per questo si deve aprire un serio dibattito a partire dalla mobilitazione di questi giorni. Dobbiamo continuare a inventarci sottoscrizioni, manifestazioni, comitati per conservare documenti? Per farne cosa, poi? Il punto cruciale è trovare formule istituzionali corrette a cui affidare la memoria, la riflessione, lo studio. Le nostre carte. Senza le quali siamo tutti – noi cittadini italiani, dei sans papier – che in francese vuol dire clandestini, senza documenti. Senza cittadinanza.

mercoledì, novembre 22, 2006

Networking. La rete come arte.


"Il primo tentativo di ricostruzione della storia del networking artistico in Italia. Un'analisi sull'uso creativo e condiviso delle tecnologie, dal video al computer e sulla formazione di una comunità hacker italiana. Un riflessione sul ruolo dell'artista che si fa networker, ricollegandosi alle neoavanguardie degli anni Sessanta."

Queste sono le prime frasi utilizzate per presentare il libro Networking. La rete come arte scritto da Tatiana Bazzichelli. L'autrice studia da parecchi anni le interazioni fra l'arte e l'uso della Rete - tanto che ha fondato prima il progetto ATTIVIsmo ARTistico e poi il progetto AHA: activism, hacking, artivism - e si è laureata in Sociologia delle comunicazioni di massa a Roma nel 1999. Ha curato poi rassegne, eventi e convegni, fra cui Hack.it.art (Berlino, 2005), Arte in rete in Italia (Berlino, 2005), MediaDemocracy and Telestreet (Monaco, 2004), AHA (Roma, 2002), Hacker Art Lab (Perugia, 2000). Pare un testo molto interessante, magari ci torneremo dopo una letta più approfondita. Il libro, di cui riporto di seguito la presentazione completa, è sotto licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-ShareAlike License, quindi si può liberamente scaricare dal sito dedicato (qui).

IL LIBRO

Fare network significa creare reti di relazione, per la condivisione di esperienze e idee in vista di una comunicazione e di una sperimentazione artistica in cui emittente e destinatario, artista e pubblico, agiscono sullo stesso piano.

In Italia, grazie all'uso alternativo della rete Internet, nel corso di venti anni di sperimentazione si è formato un vasto network nazionale di persone che condividono obiettivi politici, culturali e artistici. Attivi in ambienti underground, questi progetti utilizzano media diversi (computer, video, televisione, radio, riviste) e si occupano di sperimentazione tecnologica, ovvero di hacktivism, secondo la terminologia in uso in Italia dove la componente politica è centrale.

Il network italiano propone infatti una forma di informazione critica, diffusa attraverso progetti indipendenti e collettivi in cui l'idea della libertà di espressione è centrale. Allo stesso tempo, costruisce una riflessione sul nuovo ruolo dell'artista e autore che si fa networker, operatore di reti collettive, ricollegandosi alle pratiche artistiche delle Neoavanguardie degli anni Sessanta (prima fra tutte Fluxus), ma anche alla Mail Art, al Neoismo e a Luther Blissett.

Un percorso che va dalle BBS, reti telematiche alternative diffuse in Italia dalla metà degli anni Ottanta ancor prima di Internet, fino agli Hackmeeting, alle Telestreet e alle pratiche di networking e net art di diversi artisti e attivisti, fra cui 0100101110101101.ORG, [epidemiC], Jaromil, Giacomo Verde, Giovanotti Mondani Meccanici, Correnti Magnetiche, Candida TV, Tommaso Tozzi, Federico Bucalossi, Massimo Contrasto, Mariano Equizzi, Pigreca, Molleindustria, Guerriglia Marketing, Sexyshock, Phag Off e molti altri.

martedì, novembre 21, 2006

MondoRisiko: un torneo - e non solo - contro la guerra

Come si può vedere anche dal banner che troneggia qui sopra, vi segnalo e promuovo Mondo Risiko, un vero e proprio torneo di Risiko con dadi e carrarmatini, ma anche una scusa per parlare di guerra attraverso conferenze, reading, presentazioni di libri, film...


L'immagine che accompagna questo post è invece un olio su tela dal titolo Risiko di Giorgio Galotti, potete vedere i suoi lavori qui.



Il programma completo e il regolamento di Mondo Risiko si possono trovare su
http://mondorisiko.noblogs.org

Se volete iscrivervi al torneo scrivete a mondorisiko@inventati.org


Ed intanto leggetevi qui sotto la "favola del Mondo Risiko":

La prima volta è stata il 17 gennaio 1991. La notizia dei bombardamenti sull'Iraq è arrivata durante la notte. Il mondo era appena cambiato ma noi eravamo i soliti quattro. Il giorno dopo saremmo scesi in piazza, ma quella notte c'era da esorcizzare lo spettro della guerra, sotto con i dadi e con i carrarmatini. Non sapevamo che sarebbero seguite molte altre notti, bombe vere mentre noi attaccavamo da due dalla Kamchatka. Scrivevamo volantini e perdevamo il Siam. Cazzo, non si può perdere un territorio così strategico. Addio controllo dell'Oceania. Anche la Cecenia è strategica per controllare il petrolio. Chiedetelo ad Anna Politkovskaja. La gente crepava a migliaia in Africa orientale, e noi difendevamo da tre contro un attacco dal Madagascar.

Obiettivo: sconfiggere le armate rosse. Fatto. Le armate verdi sono i marines che sbarcano a Baghdad o la Guardia nazionale padana che fa la ronda in un quartiere di migranti? La confusione aumentava e nell'Europa meridionale tornavano la guerra, le deportazioni, l'odio etnico. Armate nere in Bosnia(Jugoslavia), non se ne vedevano in giro dal 1945. Esplodono autobombe in Indonesia? D'Alema bombarda Belgrado? E io ci provo da uno dalla Cita, non mi
interessa se è un suicidio. A un certo punto qualcuno ha attaccato gli Stati uniti orientali da tre, una mossa a sorpresa. Ha fatto sei-sei-sei e la confusione è aumentata ancora. La risposta è stata conquistare l'Afghanistan, e non era difficile. I Talebani difendevano con un dado solo, e uno contro cento anche con molto culo non funziona. Figuriamoci poi se gli esce un bell'uno. È che dopo ti accorgi che a ogni turno bisogna rinforzare i territori, e i carrarmatini non bastano mai, non bastano mai. Un'assemblea, un corteo, una partita. Qui sulla Cisa dei pazzi bloccano treni pieni di carrarmatini in viaggio per il Golfo. In Chiapas si gioca in passamontagna, a Gaza con la kefiah e a Washington in doppiopetto. Chi controlla l'America meridionale porta a casa due armate supplementari a ogni turno, ma non è mica come dirlo. I governi cambiano e i colpi di stato continuano. Però a Cuba c'è Fidel castro e c'è anche Guantanamo, e sembra che levarseli dalle balle non sarà facile.

Intanto in Medio oriente tutti vogliono farsi l'atomica, anzi qualcuno ce l'ha già. L'atomica? Ma non si giocava coi dadi? Truccati magari, ma pur sempre dadi. Oddio, non ci si capisce più niente. La nostra arma chimica è il gutturnio, che va giù a litri mentre giochiamo. Che poi tutti quei carrarmati blu elettrico nel deserto sono troppo psichedelici, la gente non capisce mica che sono finti e li fa saltare per aria. Le armate verdi dicono che le armate gialle ci invaderanno tutti, a cominciare dalla Brianza e da Treviso. Per ora non si sono mosse dalla Cina. Sono gialle anche le bandierine di Hezbollah che sventolano a Beirut sud. Valgono dieci armate e non è mica facile farle fuori.

Comunque lo scontro più memorabile rimane la grande sfida del 15 febbraio 2003.
Il debutto delle armate arcobaleno. Centodieci milioni di dadi contro un solo, gigantesco, presidente con la testa a forma di dadone rosso. Lo scroscio dei dadi sul tabellone si è sentito in tutto il mondo. Ma abbiamo perso anche quella partita. Nella storia del risiko non si era mai vista una simile sfilza di uno. Eppure ancora oggi qualcuno di noi, ogni tanto, sogna un terzo continente a tua scelta dove non ci siano né guerre, né dadi, né carrarmatini. Mi sa che dobbiamo smettere di sognare. E basta anche con questo vizio di attaccare da uno dalla Cita.

venerdì, novembre 17, 2006

Nanoparticelle e patologie connesse # Parte prima

Le nanoparticelle sono appunto particelle dalle dimensioni piccolissime, da qualche centesimo di millimetro fino a qualche milionesimo di millimetro. La definizione che ne viene data su Wikypedia dice: "Con il termine nanoparticella si identificano normalmente delle particelle formate da aggregati atomici o molecolari con un diametro diametro compreso fra 2 e 100 nanométri (nm)" [un nanométro = un milionesimo di millimitro].

Per dare una percezione delle dimensioni in ballo basti dire che la doppia elica che compone il DNA ha un diametro di 2 nm.
Ma perché sono importanti le nanoparticelle? Su che terreno ci portano? Innanzittutto va detto che l'utilizzo delle nanoparticelle sta alla base delle nanotecnologie, ossia il settore di ricerca che si propone di realizzare attraverso la manipolazione meccanica di queste nanoparticelle aggregati molecolari o atomici con particolari proprietà chimico-fisiche, fra l'altro prospettandone un futuro profittevole per i possibili utilizzi su scala industriale. Ma più importante per il discorso che qui si propone è un'altra faccia delle nanoparticelle, ossia quella corrispondente a quanto evoca l'utilizzo del termine per indicare particolato ultrafine: una delle cause primarie dell'inquinamento atmosferico. Infatti, il particolato è l'insieme delle sostanze sospese in aria (fibre, particelle carboniose, metalli, silice, inquinanti liquidi o solidi) la cui presenza dipende sì da fattori naturali, ma per la stragrande quantità derivano oggi dall'attività umana.

Nei centri urbani siamo oramai abituati a sentir parlare di allarme polveri sottili, in particolare si sente parlare di PM10, anche se probabilmente ai più non è ben chiaro di che si tratta.
Le PM10 sono particolato formato da particelle inferiori a 10 μm (un millesimo di millimetro), ed hanno la caratteristica - viste le sue dimensioni - di essere una polvere inalabile, ovvero in grado di penetrare nel tratto respiratorio superiore (naso e laringe). Le PM10 sono dunque pericolose per la salute dell'uomo perché possono penetrare nel nostro organismo, causando di conseguenza patologie dell'apparato respiratorio.

Ma
cosa succede quando ad essere inalate non sono le PM10 - che in relazione alle dimensioni del particolato sospeso sono tutto sommato particelle "grandi" - ma polveri ancora più sottili?

Come abbiamo visto le nanoparticelle da cui siamo partiti hanno dimensioni molto ridotte rispetto alle PM10, così che corrispondentemente queste particelle anziché fermarsi nel nostro naso arrivano direttamente nei nostri polmoni, fino ai casi più estremi in cui queste particelle possono arrivare negli alveoli, la parte più profonda dei polmoni: di conseguenza, come si può immaginare, questo comporta la presenza di diverse - e più gravi - patologie per l'uomo, ossia le nanopatologie.
La ricerca scientifica sugli effetti delle nanoparticelle e sulle patologie correlate in Italia è legata in particolare alla nanodiagnostics di Modena, un laboratorio di ricerca in cui si è impegnati dall'inizio degli anni '90 su queste tematiche, che ha pubblicato un interessantissimo e consigliato articolo sulla rivista Ambiente Risorse Salute - che potete trovare qui - dal titolo Nanopatogie: cause ambientali e possibilità d'indagine.
In questo articolo si definiscono le nanopatologie come "le malattie provocate da micro- e, soprattutto, nanoparticelle inorganiche che riescono a penetrare nell’organismo, umano o animale
che sia, sortendo effetti i cui meccanismi in gran parte ancora da indagare e indipendenti dall’origine delle particelle", ovviamente "restando in sospensione, è inevitabile che le polveri siano inalate insieme con l’aria e, cadendo al suolo, è altrettanto inevitabile che queste finiscano su frutta, verdura e foraggio, entrando così nella catena alimentare di uomini e animali".
Siamo dunque tutti esposti e tutti a rischio.

Ma come interagiscono queste polveri con il nostro organismo, quali patologie provocano?

"È di recente che, nello stesso ambito medico, si comincia a rendersi conto che le polveri possono essere responsabili di ben altro e che l’incremento vertiginoso della loro concentrazione in atmosfera va di pari passo con l’incremento di affezioni, per esempio, di natura cardiovascolare, e che cominciano anche ad essere fortemente sospette malattie tumorali, malattie neurologiche, malattie della sfera sessuale e malformazioni fetali.
Anche il vistoso aumento delle patologie allergiche, specie a livello pediatrico, o di sensibilizzazione potrebbe essere correlato a fenomeni d’inquinamento ambientale o a prodotti d’uso comune quale, ad esempio, il cemento cui vengono sempre più spesso addizionate le
ceneri che residuano da processi di combustione di rifiuti".


Nel maggio del 2006 comunque anche i medici di famiglia, attraverso il bollettino della Federazione Italiana Medici di Medicina Generale (consultabile qui, dal blog di Beppe Grillo), ammettono la loro preoccupazione rispetto agli effetti delle nanoparticelle e scrivono: "Le forme patologiche più comuni sono le neoplasie, ma ci sono anche malformazioni fetali, malattie infiammatorie allergiche e perfino neurologiche".

E' dunque oramai fuor di dubbio la nocività di queste polveri fini per la salute, ora si tratta di comunicarne e denunciarne i pericoli e quindi agire per diminuire la loro presenza nell'aria.

Ma come è possibile intervenire e ridurre le concentrazioni? Bisogna innanzitutto individuare quali attività umane contribuiscono maggiormente alla produzione di nanoparticelle, preoccupandoci in particolare della produzione delle polveri più fini e sollecitando l'attenzione degli enti locali per queste, più che per le famose PM10. Infatti sono proprio queste "le polveri realmente patogene, con una patogenicità che cresce in modo quasi esponenziale con il diminuire del diametro. E per avere un’idea degli effetti sulla salute di queste poveri occorre che le particelle siano non pesate ma classificate per dimensione e contate".

L'articolo citato precedentemente ci aiuta a individuare le attività più pericolose, una lista non certo incoraggiante ma che è importante fare circolare: "oggi, la maggior parte dell’inquinamento
ambientale ed alimentare da polveri si deve ai motori a scoppio, alle fonderie, ai cementifici,
agli inceneritori, spesso chiamati abusivamente termovalorizzatori, alle esplosioni in genere, e giù fino ad operazioni apparentemente più innocue come quelle di saldatura".


Acqua bene comune.

La questione dei beni comuni è diventata negli ultimi anni centrale nel pensiero altermondista, in particolare la battaglia dell'acqua ha rivestito un importante campo di prova di ciò che ci aspetta. L'acqua è uno dei beni comuni per eccellenza e gli effetti delle privatizzazioni di questa e dei servizi ad essa legati sono degli esperimenti mostruosi, non solo dal punto di vista morale ed etico, ma anche dal punto di vista pratico e per quello che riguarda l'emersione di nuove linee di diseguaglianza sociale.

In Italia quale è la situazione? Quali sono le iniziative in corso per non permettere che l'acqua sia considerata una merce qualsiasi?

Dopo vari tentativi di privatizzazione da parte - manco a dirlo... - della Regione Lombardia nel video qui sotto si può seguire un'intervista di una decina di minuti con Elio Molinari, Presidente del Comitato Italiano per un Contratto Mondiale sull'Acqua, che aggiorna sulle campagne in corso ed anche sulle iniziative legislative in proposito.



giovedì, novembre 16, 2006

Lumi di punk

Di Marco Philopat ho letto la sua trilogia Costretti a sanguinare - La Banda Bellini - I viaggi di Mel. In realtà è una trilogia per il principale motivo che racconta storie che scorrono negli anni '70 e primi '80 proponendoci dei veri e propri mondi che se prima della lettura ci sembravano scontati, alla fine dei libri si scoprono essere mondi molto più complessi e sconosciuti.

In parte penso che ciò sia dovuto al fatto che di molti eventi, di molte culture giovanili, la nostra conoscenza si ferma all'etichetta che negli anni i media e la cultura mainstream hanno cristalizzato; ma anche a chi è attento ed interessato a queste culture giovanili e diffida del pensiero mainstream i libri di Philopat raccontano e mettono in mostra una realtà complessa e vivida di quei movimenti e delle singolarità che ne presero parte che non si trova in nessun saggio sull'argomento.

Ora esce in libreria il nuovo lavoro di Philopat - o meglio a cura di - che riprende l'indagine svolta sulla cultura punk in Costretti a sanguinare, rendendo esplicita - a quanto pare dalla presentazione - una vena semi nascosta nei libri precedenti: una ricerca strorica dal basso basata sulle fonti orali e il loro studio.
Ed è questa vena seminascosta nei precedenti libri di Philopat che li rende secondo me affascinanti e coinvolgenti, questa ricerca attraverso le fonti orali e la messa a punto di uno stile che non permette che i singoli protagonisti delle vicende raccontate soccombano alla pesantezza della soggettivazione.

Così Philopat a proposito di Lumi di Punk:
"Come saprete il libro è frutto di una serie di registrazioni e interventi raccolti tra l'estate del 2005 e l'autunno 2006. Qui in redazione abbiamo lavorato per garantire l'uniformazione narrativa e confezionare il libro come una sorta di mappa della memoria di un periodo storico quasi dimenticato, almeno per quanto riguarda i percorsi personali e politici. Una minuscola generazione stritolata dal correre del tempo, dall'eroina e dal riflusso, ma forse, a distanza di anni, si può dire che i nostri destini non siano finiti nell'immondezzaio, come molti di quelli che ci avevano preceduto. I sessantottini hanno scritto e storicizzato ogni microbo del loro vissuto, quante centinaia di pubblicazioni ci sono state sugli anni Settanta? la nostra esperienza non sarà stata così eclatante ma possiamo contare su pochissimi abiuri. Quasi nessuno è diventato un segretario di Forza Italia o un portaborse di Tronchetti Provera..."

"Lumi di punk è solo la prima tappa di un percorso che abbiamo deciso di intraprendere con altre registrazioni e contributi che si raccoglieranno nel corso di quest'anno, e quindi ogni presentazione locale sarà finalizzata a trovare nuovi punk o ex punk pronti a dare testimonianza orale o scritta del loro vissuto del periodo, per poi realizzare un secondo volume di Lumi di punk."


Fra l'altro il libro è edito dall'Agenzia X, di cui avevo parlato segnalando la rivista Conflitti Globali e in cui alimentavo un pò di suspense proprio su questa sconosciuta casa editrice. Ora abbiamo qualche notizia in più, fra cui che Marco Philopat è uno dei redattori, che scrive della casa editrice:

"La casa editrice si chiama Xbook, un ramo di
AgenziaX – Idee per la Condivisione dei Saperi. La redazione è formata da Paoletta, Caterina, max e il sottoscritto, tutti provenienti dalla dolorosa rottura con la ShaKe. All'interno di AgenziaX si sono aggiunti nuovi soci: Fabio Zucchella di Pulp, Roberto Vai e Francesco Galli. Molti sono i collaboratori, a partire da Giancarlo Mattia, la libreria Calusca, L'Archivio Primo Moroni e tutto il collettivo di Cox 18, poi il gruppo di cineasti indipendenti legati alla realizzazione di due film autoprodotti Fame chimica e Fuori vena, inoltre molti collaboratori di Pulp partecipano al nostro progetto."

Per farsi un'idea delle storie contenute in
Lumi di punk potete leggere l'articolo Punk a Bari: dai Wogs alla giungla (1979-1984) di Enzo Mansueto (The Skizo) su Carmillaonline.

Precarietà, esternalizzazioni e "sindacati di m."

Domenica sera Report oltre a averci dato l'ennesimo esempio di buon giornalismo ci ha mostrato una realtà allucinante, una realtà dove le esternalizzazioni dei servizi ospedalieri ha dato vita ad un sistema criminale e al contempo - in parte - legale, in cui le cooperative sociali sono comparse sulla scena dopo l'approvazione delle legge 30 e si sono ritagliate un posto da protagonista nel sistema criminale di caporalato.
Ma a vedere il servizio - come scrive qui sotto Mazzetta a proposito - la cosa più triste è stata l'intervista ai rappresentanti dei sindacati confederali - tre dissoluti sindacalisti dell'ospedale romano al centro dell'indagine giornalistica - che era l'immagine stessa della pura difesa d'interessi corporativi. L'articolo qui sotto di Mazzetta mi vede totalmente in accordo, oltre che riassumere brevemente la vicenda.


Mi ha fatto male vedere, domenica sera, i sindacalisti di un ospedale romano
che rispondevano svaccati e indifferenti alle domande che un giornalista di Report poneva loro su gravissime questioni riguardo al malcostume che ha ormai travolto l’inquadramento delle maestranze nel loro ospedale.

Sintetizzando la questione, peraltro semplice al di là delle intricate denominazioni e dei numerosi passaggi innalzati a gettare fumo su una truffa e un malcostume colossali, succede che nell’ospedale romano (ma sarebbe meglio dire in quasi tutti gli ospedali ed enti pubblici) è ormai in vigore un vero e proprio racket del lavoro che impone retribuzioni miserrime ai lavoratori a fronte di un costo altissimo delle loro prestazioni per la sanità pubblica.

Tutto accade perché grazie alle leggi per la flessibilità del lavoro, all’apparizione sulla scena delle cosiddette -cooperative sociali- e alla complicità di molti, si è instaurato un fenomeno di caporalato istituzionalizzato. Eppure ci avevano raccontato meraviglie della flessibilità, per anni molti soloni hanno vantato i vantaggi e le economie derivanti dalla esternalizzazione, un neologismo che significa appaltare ad altri soggetti quello che normalmente farebbero i dipendenti di un’azienda.

Flessibilità della forza lavoro ed esternalizzazioni di funzioni diverse dal core business (l’oggetto sociale, nel caso degli ospedali la cura dei pazienti) dovrebbero consentire economie, maggiore competitività e una migliore concentrazione sulla -mission- delle aziende. Lasciando da parte la competitività (e l‘utilizzo di termini inglesi a depistare chi non conosca la lingua), che ovviamente non entra in gioco nel caso di un ospedale pubblico (o di altre attività della funzione pubblica), il servizio di Report ci ha dimostrato con la forza dei numeri che, quando si parla di aziende pubbliche, non esiste alcuna economia e che la “mission” è messa addirittura in pericolo dallo stato di cose che si è venuto a creare.

Succede quindi che il nosocomio romano appalti prestazioni d’opera all’esterno senza conseguire alcun vantaggio, ma pagando in realtà molto di più le stesse prestazioni che potrebbe ottenere assumendo i lavoratori che gli sono necessari. Ovviamente questo non può avvenire senza una rete di connivenze che vanno dai vertici della sanità pubblica, passano per quelli dell’INPS, dei sindacati e infine franano rovinosamente sulle vite dei lavoratori e sui bilanci dello stato. Non per niente la sanità pesa sul bilancio della Regione Lazio per circa il 70%.

Nessuno degli intervistati da Report è riuscito a spiegare perché si permetta
l’esistenza di un meccanismo per il quale ad un costo del lavoro (da contratto nazionale) per operatore di 9€, la Regione Lazio paghi alle cooperative sociali 12€ e al lavoratore ne finiscano 7€. Sono stato approssimativo, ma il rapporto tra le grandezze è quello. Neanche a seguito del servizio si è trovato un politico o un funzionario in grado di sollevare il problema, che rimane per ora lettera morta.

A peggiorare il quadro emerge che le -cooperative sociali- oltre a lucrare indebitamente cifre da inchiesta, mettono in atto tutta una serie di comportamenti semplicemente delinquenziali ai danni dei loro soci-lavoratori.
La mortalità di queste cooperative è infatti molto elevata, tanto da far sospettare che sia strumentale. Le cooperative inoltre, ha dimostrato Report, spesso non pagano i contributi previdenziali, sottopagano regolarmente i lavoratori che per il fatto di essere -soci- si trovano nell’ingrata posizione di chi non può godere dei diritti fondamentali quali le ferie, la malattia e le altre indennità che spettano ai colleghi che lavorano loro accanto nell’ospedale (con un costo minore per la struttura) e che sono regolarmente assunti come dipendenti. Queste non troppo fantomatiche cooperative sono equamente distribuite tra bianchi, rossi ed azzurri ed è evidente a chiunque che la situazione abbia potuto deteriorarsi a tal punto solo grazie alle complicità di un sistema nel quale tutti hanno un loro tornaconto, tranne i lavoratori ed il bilancio pubblico.

Senza complicità a diversi livelli non sarebbe possibile per l’ospedale contrattualizzare forniture di lavoro a prezzi superiori a quelli del CCNL, non sarebbe possibile per le cooperative operare in un regime che non ha nulla a che fare con le norme che regolano l’impresa cooperativa, pagare il lavoro molto meno di quanto previsto dal CCNL, non versare i contributi, estinguersi e poi risorgere più belle che pria dopo aver tirato il pacco all’INPS, esistere in virtù di organi sociali che non si riuniscono mai e in capo a titolari misteriosi dei quali nessuno sa nulla e che non appaiono da nessuna parte. Non sarebbe neppure possibile che una cooperativa con centinaia di soci sia priva di un indirizzo, di una sede sociale, oppure che questa migri in continuazione per la città, addirittura localizzandosi presso i locali di inconsapevoli clienti.

A fronte di una tale massa di irregolarità e di veri e propri reati evidenti,
il servizio televisivo ci ha mostrato solo una solitaria signora dei Cobas, peraltro combattiva, che coglieva l’occasione per ribadire quanto da anni denuncia e I lamenti di alcuni soci-lavoratori (dai volti oscurati per evitare che vengano colpiti da rappresaglie); il resto è stato uno spettacolo da basso impero. I funzionari pubblici interrogati, fatto salvo quello del Ministero del Lavoro che riconosceva le irregolarità rilevate, hanno fatto una magra figura, ma sono stati i rappresentanti dei sindacati confederali a suscitare in me una vera sensazione di schifo a livello epidermico. Loro, quelli che in teoria dovrebbero vigilare sul rispetto dei diritti dei lavoratori e difenderli, non hanno saputo andare oltre uno squallido palleggio durante il quale hanno cercato di minimizzare quanto il giornalista sbatteva loro in faccia. A tratti sembravano non saperne niente, a tratti invece saperne tutto mentre facevano la faccia di circostanza di quelli che non ci possono fare nulla perché l’impresa è al di sopra delle loro forze. In linea di massima la cosa non stupisce, visto che è grazie alla connivenza dei sindacati che la Legge 30, l’art. 18 ed altre meraviglie del genere sono diventate legge. Tutti ricordiamo Cofferati infiammare le folle a Roma e in seguito defilarsi dal referendum chiesto per contrastare l’entrata in vigore dell’art. 18.

Tutti, i lavoratori per primi, abbiamo ormai realizzato che la
funzione dei sindacati si è andata sempre più istituzionalizzando trasformando la Triplice da baluardo in difesa dei lavoratori in controparte funzionale al padronato e ad un sistema malato nel quale l’assalto alle risorse pubbliche è la cifra corrente. La trasformazione dei tre maggiori sindacati italiani in altro dal loro oggetto sociale ha ovviamente offerto spazio all’emergere di altre formazioni, dai Cobas fino ai sindacati di destra, ma ha anche travolto i lavoratori italiani ed i loro diritti, per non parlare dell’effetto devastante che ha avuto sulle loro retribuzioni e sul loro potere d’acquisto. Nel caso dell’ospedale romano e di altre situazioni del genere, purtroppo ormai diffusissime, non parliamo semplicemente di organizzazioni che interpretano quasi la figura del “sindacato giallo” (sindacato che controlla i lavoratori in funzione delle esigenze dei datori di lavoro), ma del totale abbandono dei compiti statutari in favore della connivenza con una rete di poteri che ha tutto fuorché i crismi della legalità. La situazione evidenziata da Report non è una novità di questi giorni, ma si trascina da anni ed è ben conosciuta. E’ conosciuta dai lavoratori, dai sindacati e anche dagli amministratori pubblici. Ora, visto che nessuno di questi tre soggetti in apparenza ci guadagna (nemmeno il sindacato che perde potenziali iscritti e non cerca nemmeno di recuperarli sindacalizzando i precari”ospedalieri), verrebbe da chiedersi il perché di una tale catena di omissioni, distrazioni, silenzi e anche peggio al fine di favorire soggetti ufficialmente sconosciuti, quelli che alla fine incassano i guadagni illecitamente conseguiti dalle cooperative sociali. Tafazzismo esasperato? Allucinazioni collettive imposte attraverso l’ipnosi o droghe sconosciute? Incapacità al cubo diffusa trasversalmente? Ignoranza così diffusa da rendere facilmente truffabili decine di funzionari?

La realtà sicuramente custodisce una verità diversa, nelle quale probabilmente una fitta rete di connivenze assicura vantaggi (in denaro o alte utilità) a tutti quelli che nominalmente non incassano un euro e che non vedono, non sentono e non parlano anche se sono ufficialmente pagati per controllare, ascoltare e denunciare quello che non funziona negli ospedali e negli enti pubblici. Una melma connivente che ruba il denaro pubblico e, grazie alla possibilità di assicurarsi la mediazione ed il controllo sulla fornitura della merce-lavoro, taglieggia, opprime e sfrutta un’umanità dolente di cittadini-lavoratori che vengono trasformati in soggetti sottopagati e privati dei diritti riconosciuti dalle leggi in vigore. Reti del genere pervadono, nel nostro paese sicuramente, la politica, i sindacati, la funzione e le istituzioni pubbliche nell’indifferenza generale, tanto che nessuno, è bene ripeterlo, ha manifestato la minima reazione al servizio di Report. Forse reagirà la magistratura, visto che il servizio evidenziava la commissione di parecchi reati, ma anche quando questa dovesse intervenire potrà solo colpire le singole situazioni; colpire relativamente, visto che gran parte dei suddetti reati sono compresi nel recente provvedimento di indulto. Un pessimo stato di cose accettato da tutti gli affluenti alla classe dominante, questo è bene sottolinearlo anche a costo di deprimersi.

Non è solo
la politica che non reagisce a questi scandali, ma anche l’imprenditoria nostrana, che su queste storture del sistema ha lucrato guadagni immensi negli ultimi anni si segnala per la sua connivenza. Connivenza rafforzata da fior di intellettuali che fanno da megafono alle più colossali sciocchezze mentre ignorano la tragica situazione che pervade il piano della realtà. Non meno schifo dei sindacati suscitano infatti i grilli parlanti che dai quotidiani di Confindustria catechizzano le folle e raccolgono il plauso di fior di “riformisti” e politici organici alla melma. Pensate al Povero Ichino e alle sue tirate contro i dipendenti pubblici fannulloni, o ancora al Geniale Giavazzi che suggerisce di risolvere i problemi dell’università pubblica facendola pagare ai genitori degli sventurati che ancora hanno il coraggio di provare a darsi un’istruzione imboccando le porte di un girone dantesco fatto di baronie, offerte didattiche inconsistenti e deliri burocratici, comunque molto costosi. Pensate a quante volte avete sentito parlare di competitività dai nostri imprenditori nonostante in Germania, ad esempio, il costo del lavoro del lavoro sia più alto, così come maggiore è il famoso “cuneo fiscale”, mentre i prezzi al consumo sono più bassi e di conseguenza il potere d’acquisto per i lavoratori è maggiore.

Infine unite a queste considerazioni quella per la quale le imprese tedesche sono molto più competitive di quelle italiane e quella sulla finanziaria che, riducendo il “cuneo fiscale”, ha destinato gli spiccioli ai lavoratori e la maggior parte dei soldi alle imprese che negli ultimi hanno fatto il record di utili, evitato di pagare molte tasse grazie ai condoni e ad artifici simili, mentre le retribuzioni e le tutele per i lavoratori sono scese in picchiata fin sotto la soglia minima necessaria alla sopravvivenza.

Pensate alla classe parlante italiana e al rapporto tra le fantasie che diffonde e la situazione reale nel nostro paese; pensateci, traete le vostre conclusioni e chiedetevi se per caso dalla caduta del muro di Berlino non esista una new wave per la quale si è deciso di aprire il famoso ombrello di Cipputi senza estrarlo dal suo ripostiglio d’elezione. Quale che sia la risposta che vi darete, ricordatevi di questa riflessione quando vedrete Sir Montezemolo sproloquiare da uno dei tanti palchi che ha a disposizione, o qualche astuto politico parlare di sacrifici necessari per il bene del paese. Forse allora vi verrà in mente che stanno parlando di un paese nel quale a voi è stato negato il diritto di cittadinanza.

di Mazzetta [dalla lista neurogreen]

martedì, novembre 14, 2006

MyCreativity


Forse alcuni dei lettori del blog già conoscono l'istituto di ricerca che viene qui di seguito brevemente segnalato. Si tratta dell'Insitute of Network Cultures di Amsterdam che così si presenta:

"The Institute of Network Cultures (INC), set up in June 2004, caters to research, meetings and (online) initiatives in the area of Internet and new media. The INC functions as a framework within which a variety of studies, publications and meetings can be realised. As indicated by its name, the INC is also active in setting up and maintaining networks. Not only does it facilitate, but also initiate and produce its projects. Its goal is to create an open organisational form with a strong focus on content, within which ideas (emanating from both individuals and institutions) can be given an institutional context at an early stage."



L'occasione per conoscerlo l'ho avuta da un messaggio di Matteo Pasquinelli (già giro Rekombinant) che segnala la conferenza organizzato dall'istituto il 16-17-18 novembre e dal titolo MyCreativity. Il bersaglio della conferenza sono le creative industries, ma c'è spazio per varie riflessioni fra cui la oramai obbligata declinazione delle questioni nello spazio economico cinese. Ed ancora un parallelo creatività/precarietà ed un ampio spazio dedicato all'Europa ed al suo ruolo - passato, presente e futuro - rispetto alle creative industries.


Matteo Pasquinelli parteciperà a più tavoli di discussione ma qui vorrei segnalarvi il suo contributo dal titolo Prototypes of Conflict within Cognitive Capitalism che pone una delle questioni - a mio avviso - centrali nella critica al capitalismo cognitivo, ossia il concetto di valore e il superamento della sua definizione anche nella teoria marxiana.

lunedì, novembre 13, 2006

Cartografieinerba è in corsa!

Volevo riferirvi qui sul blog che il Festival Cartografieinerba è iniziato da una settimana e ci sta dando delle soddisfazioni, magari non in termini quantitativi ma certamente qualitativamente alti. Passati già alcuni appuntamenti, mi sembra doveroso segnalarvi le rimanenti date in cui sono organizzati gli eventi...


- Giovedì 16 novembre ore 21

Mappatura della metropoli e geografia sociale
Incontro con l'archivio Primo Moroni e libreria Calusca (Milano)
La trasformazione della metropoli Milano nel '900
a partire dai lavori di Primo Moroni

- Sabato 18 novembre ore 14.30

BICICLETTATA!
Ritrovo in Piazza Pasi, poi andremo alla scoperta
di luoghi dimenticati e nascosti della nostra città
arrivo al CSA Bruno, piazzale ex-Zuffo, per merenda e aperitivi con l'orso contro lo sgombero!

- Giovedi 23 novembre ore 21

ECOLOGIA ACTIVA
Culture, subculture, tassonomie, cartografie di ecologismo grassroots nel mondo
Incontro con Alex Foti (Neurogreen)

mercoledì, novembre 08, 2006

"54" negli USA, più un omaggio

Riporto qui il commento dei Wu Ming sull'andamento del romanzo 54 negli Stati Uniti, è uno dei miei romanzi preferiti e c'è da stare a vedere se questa volta gli statunitensi lo "capiranno" o se farà la fine di Q, che risultò incompreso.
In 54 si teorizza e si sviluppa appieno il concetto per cui lo stile è un'arte marziale, in particolare attraverso i personaggi di Cary Grant, del maresciallo Tito e del giovane Piérre...

"Soltanto un breve cenno, ché su uno dei prossimi Giap ricapitoleremo l'intera questione.
Per i critici americani, "54" è un autentico rompicapo, un enigma racchiuso in un sogghigno. Le recensioni, ostili o favorevoli che siano, sono perturbate, stranite.
Cionondimeno, per "Kirkus Reviews" il romanzo è uno dei "Best of 2006". Il prossimo numero della rivista conterrà un articolo e una mini-intervista a noialtri. Attendiamo di vederlo, poi faremo un resoconto completo alla comunità dei giapsters."

La citazione che segue è invece un omaggio allo stile, dalla bocca di Tito:

"Accadde cinque anni fa. Kardelj, che quella sera aveva cenato con me, sosteneva l'esigenza di fare il punto sulla teoria leninista in Jugoslavia e respingere le accuse di «trotzkismo» partite da Mosca. Dal fondo del corridoio lo specchio ci spiava, i doppelgängeren seguivano le nostre mosse, forse pronti a rimproverarci. Eccoci, ben nutriti e agghindati, cosí diversi dai giorni della konspiracija. Era solo vanità a dettarci la presa di posizione che ci consegnava alla Storia? Scoprimmo (a notte alta è inevitabile) che gli specchi hanno qualcosa di mostruoso. Kardelj disse che lo specchio è una macchina infernale, perché separa l'individuo dalla comunità, stimolandone il narcisismo piccolo borghese. Io replicai: - E come li curi i tuoi baffi, chinandoti sulle pozzanghere? - e aggiunsi che, al contrario, lo specchio congiunge l'individuo alla comunità, e il suo ingresso nelle case dei proletari ha cementato l'orgoglio di classe, quel senso del decoro sbattuto in faccia ai padroni, «Noi non siamo nulla, e vogliamo essere tutto! Possiamo essere, e siamo, piú eleganti di voi!» È grazie a quel decoro, a quella fierezza, che si è vinta la guerra."


Ed in fine da YouTube il
tema del lavoro degli Yo Yo Mundi sullo stesso 54, sonorizzazione e immagini...


martedì, novembre 07, 2006

Decrescita sì, decrescita no...

In questi giorni sulla mailing list di neurogreen si è aperto un thread - per me molto interessante - sul tema della decrescita. Tutto ha preso il via da una e-mail che in tono un pò polemico chiedeva alla lista: "non inizierete anche voi ad appassionarvi alla decrescita! lasciamola ai cattocomunisti, a carta, ai maussiani... alla neodestracomunitarista..."
Una lunga serie di risposte e controrisposte ha tracciato una riflessione che ha messo a nudo quelle questioni che l'uso del concetto di decrescita lascia aperte, soprattutto se si centra la propria analisi sul capitalismo cognitivo. Insomma, lo sviluppo di questo thread ha messo in evidenza ed ha incontrato le remore che io stesso percepivo nel mio pensiero ma che non riuscivo a mettere completamente a fuoco sulla decrescita.

Giusto per fare il punto: il concetto di decrescita è stato introdotto da Latouche, ed in effetti la stessa costruzione della parola, la sua semantica, richiama e rimanda con forza a dimensioni di penuria, di miseria... allo stesso modo è innegabile che questo concetto abbia negli ultimi anni favorito una riflessione vera sulla sostenibilità del sistema economico attuale, soprattutto attraverso la critica del PIL quale unica misura dei livelli di crescita (visione economicistica).

La critica principale che si rivolge alla decrescita è questo rimando diretto ad una dimensione di penuria, mentre il capitalismo cognitivo ci proietta verso dimensioni in cui la norma è l'eccedenza, in cui le risorse fondamentali per la produzione di ricchezza - conoscenza, linguaggio, informazione - non sono soggetti a scarsità.
Il concetto di decrescita deve essere dunque accantonato perché "immette gia' in un'ottica dialettica, col rischio concreto di condividere i presupposti di cio' a cui pretenderebbe invece di opporsi", rischiando inoltre "di ingenerare una confusione semantica tra decrescita e scarsita'" (gallizio)?

Ed ancora perché "le nozioni hanno una loro storia ed un loro originario significato difficile da ribaltare: quella di decrescita nasce con Latouche e il miserabilsimo terzomondista di Lemonde diplomatique; che sneso ha cercare di rivitalizzarla? La scuola della decrescita non sa neppure che cosa è il general intellect o la produzione immateriale. Usiano altri termini, sopratutto se chiediamo reddito e nuovi diritti. (Bronzini)"

Secondo Magius la risposta alla domanda non è necessariamente affermativa, sta a noi verificare ed evitare un'interpretazione della decrescita che non ci piace: "Decrescita della produzione materiale e crescita della produzione immateriale? La decrescita come utopia senile di Bifo non è necessariamente stasi energetica, morte della creazione. E' appunto una ricombinazione."

E allo stesso tempo fare della decrescita qualcosa che ci piace, a partire dalla convinzione che la decrescita è in primo luogo un meme, che così è definito su Wikypedia: Un meme è un'unità di informazione che è in grado di replicarsi da una mente o un supporto simbolico di memoria - per esempio un libro - ad un'altra mente o supporto. In termini più specifici, un meme è un'unità auto-propagantesi di evoluzione culturale, analoga a ciò che il gene è per la genetica. La parola è stata coniata da Richard Dawkins nel suo controverso libro Il gene egoista. Un meme può essere parte di un'idea, una lingua, una melodia, una forma, un'abilità, un valore morale o estetico; può essere in genere qualsiasi cosa può essere comunemente imparata e trasmessa ad altri come un'unità. Lo studio dei modelli evoluzionistici del trasferimento dell'informazione prende il nome di memetica.Una sintesi di ciò che ci piace è descritta nell'intervento di Andrea Fumagalli che scrive:

"Una ricombinazione tra l'utilizzo delle risorse (finite) per la produzione materiale e la possibilità di
sviluppare produzione immateriale, non soggetta a scarsità. La conoscenza, nuova leva
dell'accumulazione capitalistica, è infatti un bene non rivale, ovvero che più circola (viene
consumato) più si diffonde in un processo cumulativo, e come tale non può essere soggetto allo
scambio dei diritti di proprietà. La conoscenza non è nè proprietà pubblica, nè proprietà privata,
è un bene comune, in grado (entro determinate condizoni) di rigenerarsi continuamente (come
l'energia solare). La conoscenza quindi non può essere scarsa, vive artificialmente resa scarsa
con l'implementazione dei diritti di proprietà intellettuale. Con il Sole e la Conoscenza, non c'è
decrescita.
Se aggiungiamo la Socialità e le Relazioni Umane, abbiamo una triade di partenza che
presuppone una nuova società libera."

L'ultimo punto lo segna Tulio Liuzza che propone la seguente analisi, molto interessante ed
evocativa:

"Preferisco fare leva su termini composti dal prefisso "eco" che deriva dal greco "oikos", "casa".
Il concetto di casa secondo me già contiene in sé tutte le potenzialità della decrescita senza
trascinarsi le sue connotazioni pauperistiche. La casa infatti ha dei limiti. D'altronde anche l'economia è scienza del limite e in origine era scienza della casa (oikonomia), pertinenza della
donna nella società greca in cui gli uomini si occupavando della politica (il governo della polis),
la sfera del pubblico, mentre alla donna spettava la casa (oikos, appunto), il privato. Ma la casa è anche il luogo in cui si producono eccedenze: relazioni, condivisione (dividere insieme) di cibo (il "mangiare insieme" era già una proprietà fondentale dell'essere amici, compagni nel senso di dividere la pagnotta) e di affettività. In un certo sensola casa sembra essere metafora dello stesso linguaggio e quindi della produzione immateriale, intrinsecamente eccedente. Si parte da un lumero limitato di elementi (stoviglie, mobili, cibo, e così via) per produrre in maniera illimitata (affetti, relazioni). La casa, però, lungi dall'esserci consegnata immutabile, è un campo di battaglia. La sfida oggi è quella di riprogettarla e farla divenire coestensiva alla polis stessa andando oltre la tradizionale distinzione tra privato (oikos, femminile) e pubblico (polis, maschile) per dar vita a un'"ecopolitica" (oikopolis, queer)."

Abbandonare dunque il termine decrescita, recuperarne ciò che si ritiene irrinunciabile per un'azione politica nel secolo attuale, per la costruzione di un soggetto che faccia allo stesso modo riferimento all'ecoattivismo, al pensiero ecologico e alla rivendicazione d'accesso all'eccedenza che ci viene espropriata, sotto forma di diritto al reddito e gestione comune dei beni primari nel capitalismo cognitivo.