venerdì, dicembre 15, 2006

Passato che non vuol passare, futuro che non vuole aspettare.

Ho scovato con molto piacere nel blog MaterialiResistenti di Roberto Ciccarelli l'intervista a Homi Bhabha pubblicata alcuni giorni fa su Il manifesto, l'avevo letta con interesse e avevo proprio pensato che sarebbe stato un'ottima cosa riuscire a metterla su finoaquituttobene.
Homi Bhabha è direttore dello Humanities Center dell'università di Harvard, è una figura importante degli studi post-coloniali e, più in generale, degli studi culturali. Nato a Bombay nel 1949 da famiglia Parsi, ha studiato nella sua città e poi a Londra, Princeton, Chicago forgiando un'identità cosmopolita e che lo pone direttamente in confronto con i temi posti dagli studi post-coloniali.

Nei suoi lavori non si risparmiano critiche al multiculturalismo liberale ed a proposito nell'intervista dice:


Nell'accezione liberale prevalente il multiculturalismo si risolve in un pluralismo delle identità, che riproduce e alimenta senza alcuna consapevolezza filosofica la fissazione identitaria, e riproduce la logica uno-molti propria di tutta la tradizione occidentale. In sostanza, il multiculturalismo tratta le culture come fossero tanti stati sovrani. Il fatto è che invece la globalizzazione frantuma la logica dell'identità e quella, connessa, della sovranità. E nella globalizzazione non ci sono culture che si muovono compattamente l'una contro l'altra: ci sono legami e alleanze che si stringono trasversalmente su singole questioni, economiche, o di giustizia, o di voice. Quello che è all'opera nelle dinamiche globali non è un dispositivo di identità, ma di parzialità e ambivalenza, che dispiega una complessità che il multiculturalismo pluralista liberale non sa leggere.

Rispetto al nostro presente ed alla politica in questo tempo la sua opinione conferma all'intervistatrice (Ida Domijani) che la politica dominante è la politica della morte, che rappresenta però allo stesso tempo il rovescio della medaglia della politica della vita:

Una politica che è la negazione della politica. Io penso, con Hannah Arendt , che la politica sia costruzione della polis, llegame, interlocuzione, in-between, scommessa sulla nascita. Se la morte diventa moneta corrente della politica, che a batterla sia lo stato o una rete terrorista, si ribaltano le basi e il senso della politica. Se al tavolo della politica lo stato o attori non statali giocano al rialzo con le fish della morte, si entra nell'età del terrore e dell'errore, in cui il potere per un verso produce e alimenta il senso del pericolo, per l'altro rischia continuamente la fallacia nell'uso delle informazioni. Una situazione storicamente e moralmente molto compromessa, in cui collassano trasparenza e responsabilità.

tanatopolitica e biopolitica vanno assieme, diceva Derrida... e anche, e diversamente, Foucault: il passaggio dal potere di dare la morte e lasciar vivere al potere di far vivere e lasciare morire, che segna l'era biopolitica, lascia intatto un nocciolo di morte, una killing zone fatta di razzismo e esclusione. E' bene però individuare il salto e la specificità di ciò che accade oggi, sotto questo cosiddetto «scontro di civiltà» che rende molto cheap il valore della vita. Nell'Ottocento, la domanda del mondo ricco ai paesi poveri era: siete in grado di intraprendere la strada del progresso? Durante la guerra fredda la domanda delle democrazie occidentali al resto del mondo era: siete in grado di mettere l'individuo al di sopra della comunità? Oggi la domanda che governa il conflitto globale è se la cultura dell'altro gioca con la politica della morte, se la tollera, se la vuole: «la tua cultura vuole uccidermi?». E' quello che chiamo complesso securitario.

Nell'intervista poi emergono altre due passaggi fondamentali nel pensiero di Bhabha, innanzitutto l'invito a ripensare la globalizzazione non solo nel tempo presente e futuro ma anche come un processo che riguarda il passato, fino ad arrivare al tentativo di definire in maniera nuova il tempo globale come segue:

Il tempo globale è un tempo complesso e disgiunto, che tento di rappresentare con questa formula: un passato che rifiuta di passare, un futuro che rifiuta di aspettare. Sia il passato sia il futuro esercitano dunque una pressione sul presente e sulla nostra posizione etica nel presente. Agire eticamente richiede per un verso di scrivere la storia mai scritta del mondo globale, per l'altro di collocarsi nel futuro chiedendosi «come avrei dovuto agire oggi sapendo ciò che saprò domani». Credo che questo rapporto fra passato e futuro restituisca la temporalità della globalizzazione più di quella che David Harvey chiama «compressione spaziotemporale». Dobbiamo vedere lo spazio globale come uno spazio in transizione, intendendo la transizione come una prospettiva sul presente.

La seconda ed ultima questione affrontata nell'intervista e che vorrei qui riportare riguarda l'uso da parte di Bhabha di concetti presi "a prestito" dalla psicanalisi, quali ad esempio il concetto di ambivalenza che nel suo discorso va a sostituire il concetto hegelo-marxiano di contraddizione:

L'ambivalenza modifica il lessico politico in un luogo centrale, tradizionalmente occupato dalla categoria di contraddizione, che nello schema hegelo-marxiano si risolve sempre in una sintesi. Nell'ambivalenza invece non c'è sintesi, c'è solo il lavoro continuo dell'elaborazione e dell'interpretazione, in senso psicoanalitico. Questa svolta concettuale ha molto a che fare con il modo di pensare l'identità, la parzialità, le differenze, il multiculturalismo.

Per finire alcuni riferimenti: l'intervista completa a Homi Bhabha si trova su MaterialeResistente.

Altre info si possono consultare su Wikipedia, oppure sul sito dello Humanities Center dell'università di Harvard di cui è direttore.


In Italia ha pubblicato: I luoghi della cultura (Meltemi, 2001) e (a cura di) Nazione e narrazione, (Meltemi, 1997). Sul sito della casa editrice Meltemi interviste ed altro materiale.


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