martedì, gennaio 30, 2007

Going to jail

Scuserete ancora una volta la lunghezza del pezzo che sto postando. Questa volta però penso che valga la pena farsi venire un pò di bruciore agli occhi e leggere per intero il testo che segue e che prende il titolo di "Going to jail": è un racconto di prima mano su una visita presso un carcere di Los Angeles, una visione parziale su un sistema carcerario molto vario e che per lo più noi conosciamo attraverso la rappresentazione che di questo dà il cinema o le serie televisive. Proprio per questa sua obbligata visione parziale il racconto ci propone le immagini -- quindi i muri, le sbarre, i volti, la luce, ecc. -- di uno, ed uno solo, spazio carcerario statunitense, proponendoci sopra a tutto una partecipazione umana ed empatica che contagia inevitabilmente il lettore.

Francesca, l'autrice, ha vissuto sei mesi a Los Angeles e si svolge da anni attività volontarie all'interno del carcere di Padova.

L’obiettivo della visita in carcere per i volontari di ACLU è verificare la situazione all’interno del carcere e incontrare i detenuti per chiedere quali problemi hanno o per aggiornarli sulla loro situazione se sono già stati presi in carico.


Seguo Mary, la responsabile del progetto carcere a Los Angeles in una visita alla Men
Central jail di LA: in jail sono reclusi i detenuti in attesa di giudizio, mentre quella nella prison quelli già condannati. Nel carcere in cui stimo andando noi ci sono quindi persone in attesa di giudizio, al momento più di quattromila.


Mentre ci avviciniamo Mary mi indica il nuovo penitenziario, le Twin Towers. È un edificio strano mi ricorda il tempio dei Mormoni o quello di Scientology. Resto colpita dal fatto che le uniche aperture nell’edificio sono non più grandi di un metro per trenta centimetri. Resto un po’ disorientata e chiedo a Mary, “le finestre?”. Lei mi indica appunto quelle fessure che proprio non mi sento di chiamare “finestre”. Mary guarda sorridendo
la mia espressione stupita e mi indica l’edificio dove ci stiamo recando noi, la Men Central Jail. Sono cubi di cemento sigillati, non una finestra, una fessura, un foro, una crepa in cui possa filtrare un raggio del sole meraviglioso della California, niente.


Aspettiamo in una stanza che un agente venga a prenderci per portarci nel carcere, c’è odore di mensa e ovunque brillano le stelle del Dipartimento dello Sceriffo, nella migliore tradiz
ione Western.


La procedura di ingresso nel carcere non è molto diversa da quella a cui sono abituata ai Due Palazzi, scambio di documenti, pass ed entriamo attraverso un cancello automatico sovrastato
da una grossa scritta “Make the difference”. Mentre mi chiedo cosa stia a significare questa scritta, ci passa di fianco un detenuto. Sì, indossa l’uniforme arancione vista nei film. È ammanettato e scortato da un agente, come, mi dicono, si usa per i detenuti della sezione di massima sicurezza, riconoscibili dalla divisa arancione. Prendiamo tutti una scala mobile per andare ai piani superiori.


Camminiamo lungo un corridoio, incrociando detenuti, infermieri e agenti. La maggior parte dei detenuti hanno uniformi blu, appartengono alla popolazione comune, ogni t
anto qualcuno in azzurro, in Italia lo chiameremmo “lavorante”. Gli agenti invece hanno divise sul marrone, con cucita qualche stella sulla camicia e ricamato il loro cognome. Alla cintura hanno manette e una radiolina. Non sono armati, ma hanno una grossa pila di ferro, che all’occorrenza…


I muri del corridoio sono decorati da murales, come il corridoio che alla Reclusione di Padova è frequentato soprattutto da esterni. A differenza delle riproduzioni di pittori famosi di Padova, qui i disegni celebrano i diversi Corpi dell’esercito americano, l’aviazione, la marina, ecc., rappresentati da facce di animali co
n sguardi minacciosi e incazzati e braccia umane eccessivamente muscolose. Sull’altro lato enormi stelle del Dipartimento dello Sceriffo, e visi di uomini e donne in uniforme e di un’intera famiglia che si stringe intorno al giovane padre soldato.

Passiamo velocemente dalla sala per le attività comuni vuota e ci avviamo verso un altro corridoio. Non so dove stiamo andando, credevo avremmo incontrato lì i detenuti.


Percorrendo il corridoio vedo che per terra c’è del nastro colorato che disegna delle corsie e ogni tanto c’è scritto “STOP”; i detenuti, camminando lungo i corridoi, devono stare attaccati ai muri, rispettando lo spazio interno alle corsie e i segnali di stop, aspettando il permesso a passare.


Mary mi fa segno di girare e sinistra, abbandoniamo il corridoio decorato e ci troviamo in un “posto”, pieno di corridoi, pochissimi muri, centinaia di sbarre. L’agente ci apre un cancello, ci fa passare mentre lui resta all’esterno.


Non capis
co bene dove siamo, o meglio, mi sembra improbabile che siamo dove credo. Il corridoio è molto stretto, da un lato un muro bianco, dall’altro una lunghissima fila di sbarre, una scena già vita in più di qualche film. Iniziamo a camminare, uomini che dormono, si lavano, giocano a carte o con un domino realizzato con matite e pezzi di carta, leggono, vanno in bagno, si lavano i denti o semplicemente “stanno”. Guardo per terra, mi sento a disagio, come un ospite non invitato. Qui l’assenza di finestre mi provoca un’angoscia immediata, l’unico spiraglio è la condotta dell’aria in ogni cella. Per il resto sono delle gabbie, dei cubi, delle scatole, in cui vivono fino a quattro persone in condizione subumane.


Ovunque domina un nauseabondo colore bianco. È tutto dannatamente bianco e la luce al neon peggiora le cose. Tra le poche eccezioni le divise blu, le scarpe in tela nera con la scritta bianca “L.A. County Jail” e le sbarre, tantissime sbarre, la cui vernice grigia scrostandosi ormai stanca, svela il precedente arancione brillante.


In ogni cella ci sono tre letti a castello, alcuni dei quali usati per appoggia
re cibi e oggetti; non ci sono materassi veri e propri, ma materassini spessi tre dita foderati da plastica pesante. Non ci sono cuscini, ognuno si ingegna con i pochi mezzi a disposizione (non hanno vestiti o divise di ricambio o coperte in più), solitamente con un asciugamano o arrotolando la parte superiore del materassino; ci sono lenzuola e quella che chiamano “coperta”, che in realtà è un copriletto di cotone spesso, che non ripara dal freddo del clima tutto speciale della California penitenziaria.


Ai muri qualche mensola che ospita qualche libro, pochi ritagli di giornale con qualche donna nemmeno troppo svestita, qualche scritta, ma generalmente muri lasciati bianchi. In fondo un lavandino e un water di acciaio. In qualche cella, vicino al water c’è un filo su cui un lenzuolo viene sacrificato come tenda nel tentativo di guadagnare un po’ di privacy. Vicino al water uno o due telefoni, non mi ricordo, da cui i detenuti possono chiamare a casa acquistando delle schede prepagate allo “spaccio” del carcere. Nessuno ha la tv, mi dice Mary che in jail non la puoi tenere, nelle prisons invece la puoi comprare.


Iniziamo dal fondo, carta e penna, Mary chiede come va
:
Hi guys, what’s goin’ on? How is everything?”. La maggior parte dei ragazzi è di origine latina o afroamericana, sembrano piuttosto giovani. Alcuni parlano veloce e in slang, non sempre capisco cosa dicono. Generalmente si lamentano del breve tempo che gli è concesso di stare sotto la doccia, dei telefoni che non funzionano e soprattutto reclamano visite mediche, dentistiche e farmaci che tardano ad arrivare. Qualcuno non ha il materasso, un altro non ha le lenzuola. Gli chiedo come sta, scrolla le spalle, mi risponde non troppo bene.


Subito un paio di detenuti mi mettono alla prova con un paio di battute, supero l’esame rispondendo a tono e scambiamo due parole, mi segno le cose di cui hanno bisogno, lenzuola e dentista. Attraverso le sbarre i detenuti allungano il braccio, in modo da permetterci di leggere il nome e il numero di matricola impresso sopra il braccialetto che indossano. Vicino al numero di matricola c’è un codice a barre. Quando i detenuti escono per andare da qualche parte l’agente gli passa un lettore ottico sul braccialetto, proprio come nel supermercato si fa con una scatola di pelati.


Mi aspettavo che ci prendessero d’assalto, riempiendoci di richieste e di reclami o almeno è quello che credo farei io se fossi in quelle condizioni e vedessi qualcuno di esterno passare per i corridoi. Invece no, se hanno bisogno di qualcosa lo spiegano, non chiedono più del tempo necessario a fare le loro richieste, ringraziano e salutano. Mi sembrano tristemente rassegnati.


Vedendo quelle persone condividere quello spazio così limitato e così squallido, mi chiedo cosa o chi devi diventare per sopravvivere lì dentro, non puoi rimanere lo stesso di prima e accettare di vivere in quel modo senza impazzire. Mi chiedo a quale livello di abbrutimento devi scendere per adeguarti e non soccombere. E mi chiedo allora, dopo che sei sopravvissuto a quell’inferno terrestre una volta, dopo che ti sei plasmato a quelle condizioni per resistere, cosa ti può spaventare ancora, cosa ti può mettere alla prova, una volta fuori quando il sole a cui non sei più abituato ti accecherà e quando la vista di tanti colori ti farà girare la testa? Mentre uscivamo dal corridoio sono queste le cose a cui pensavo.


Mary segnala agli agenti i detenuti che non hanno il materasso e le lenzuola e riporta i problemi riguardo alle docce, chiedendo di vedere il registro in cui sono annotate le presenza e i movimenti dei detenuti. L’agente lo consegna. I membri dell’ACLU hanno il diritto di accedere a questi documenti e gli agenti il dovere di mostrarli prontamente. Mary chiede come mai il tempo per le docce è di dieci minuti per tutto il piano, come risulta dal registro, concludendo che sembra che i detenuti abbiano ragione e le docce siano troppo corte. Gli agenti rispondono con apparente amichevolezza che dev’esserci un errore nel registro e Mary consiglia di compilarlo con maggiore attenzione la prossima volta.


Uscendo mi sento stordita. Nel corridoio ci sono delle panchine a cui sono fiss
ate delle catene e delle manette. Un detenuto è seduto e ha dei tremori così forti che la testa gli sbatte continuamente sul muro; un agente chiede ad un “lavorante” di mettergli qualcosa dietro la testa e gli appoggiano un asciugamano per attutire i colpi. Lo portano in via in barella.


Prendiamo l’ascensore, all’interno c’è scritto in grande che i detenuti devono stare rivolti verso la parte posteriore, fissando il muro e dando le spalle all’ingresso. Ci spostiamo su un altro piano dove ci sono i
detenuti in attesa di essere classificati o declassificati, generalmente appartengono alla massima sicurezza. Qui le celle sono diverse, il letto a castello divide la cella in due ed è costruito in modo che sia anche una specie di separè, e ciascun detenuto abita metà dello spazio. Anche qui sono visibili i water, ma non c’è il telefono, l’unico disponibile è nel corridoio quindi l’accesso dipende dall’agente. Anche qui i detenuti si lamentano delle condizioni igieniche, delle docce, dell’impossibilità di radersi e della presenza di topi. Un ragazzo rumeno chiede assistenza per la pratica per la declassificazione, vuole tornare nella “popolazione comune” ma non sa come fare. Qui le celle mi sembrano ancora più buie.


Uscendo l’agente che ci accompagna, un signore piuttosto anziano, mi chiede “ti piace “casa” nostra?”. Gli dico che la cosa che immediatamente ho trovato più terribile è l’assenza di finestre. Lui mi spiega che prima c’erano ma poi le hanno tolte perché i detenuti lanciavano di sotto delle cose e altre persone (non ho capito chi) lanciavano oggetti di sopra, addirittura una pistola. Ho risposto C’mon, non ci credo che non sono riusciti a trovare un’altra soluzione che renderebbe la vita migliore anche a chi ci lavora. Non risponde e la mia in effetti non era una domanda.


Passiamo dall’ennesimo corridoio, non ho idea di dove siamo, una fila di detenuti addossati al muro aspetta di andare ad un processo; in un altro corridoio una ventina di detenuti sono seduti per terra, con la faccia rivolta verso il muro e un agente li chiama ad alta voce uno alla volta.


Prima di andare nella sezione ospedaliera, passiamo dalla sala riservata ai colloqui con gli avvocati. La mia espressione riflessa sul vetro della porta mi conferma che è proprio così, sto vedendo bene, come nelle migliori tradizioni dei film polizieschi i detenuti parlano attraverso un telefono da dietro uno spesso vetro. Mi giro a guardare Mary, che mi fa cenno con la testa come a dire “già…”. Mi giro verso l’agente con la stessa espressione e lui mi spiega che fino all’anno scorso il vetro era alto solo qualche decina di centimetri, ma ora l’hanno alzato fino al soffitto per evitare che si scambino droga. Chiedo conferma, chi? I detenuti e gli avvocati? Sì, mi dice, è già successo e quindi abbiamo alzato i vetri. Accidenti, dopo aver murato le finestre un altro miglioramento! ma tengo per me questo commento. Davvero pensavo che non esistesse più questa prassi, sono incredula. Prima ancora che una domanda davvero idiota esca dalla mia bocca (e cioè come mai prendano queste misure precauzionali con gli avvocati e non con le famiglie), mi si para davanti la risposta più ovvia. Certamente le stesse misure valgono anche per le famiglie: file di detenuti davanti a file di mogli e bambini, separati da un vetro comunicano con attraverso il telefono. L’ambiente non è rumoroso, oppure sono solo io che non sento rumori. Mary mi guarda, ma non è meravigliata della espressione attonita.


Dopo un veloce giro in infermeria in cui Mary si accerta che alcuni detenuti abbiano ricevuto i medicinali, passiamo nelle celle di chi è nella sezione ospedaliera. I detenuti hanno divise marroni e le celle sono stanze senza sbarre, con porte pesanti e uno spioncino. L’arredo è austero come nelle altre sezioni, letto, lavandino e water, anzi qui nemmeno un tavolino.


Ho la testa pesante, questa discesa agli inferi mi ha saturato. Mary vuole accertarsi che nella sezione transito non ci siano problemi. L’agente apre una pesante porta di ferro ed entriamo in una grande stanza con una ventina di letti a castello, quasi tutti occupati. Alcuni dormono, altri si lavano, per fortuna nessuno sta usando uno dei water nella stanza, la maggior parte non fa niente. Mi mantengo vicino alla porta: un agente con fare provocatorio, mi dice, avanti, almeno vai a dire ciao. Non sono intimorita sinceramente, ma ho ancora quella sensazione di pudore e imbarazzo dell’imporre la mia presenza nello spazio di qualcun altro. Entro, chiacchiero con qualcuno, un ragazzo russo di dice di aver origini italiane e allunga il braccio per farmi leggere il cognome italiano sul braccialetto. Mi mostra poi il succo all’arancia che gli fornisce il carcere, mi viene in mente che altri se n’erano lamentati. Mi fa notare che nella lista degli ingredienti non c’è traccia di arancia.


Un altro ragazzo mi fa notare un altro particolare inquietante: non ci sono orologi, da nessuna parte, i detenuti non sono autorizzati ad avere orologi e non essendoci finestre da nessuna parte non è possibile regolarsi con la luce del sole. Perché anche riservarsi la possibilità di controllare il tempo?


Chiedo all’agente ogni quanto i detenuti possono andare fuori e mi risponde una volta alla settimana per tre ore, possono andare sul tetto a fare esercizi. Mary mi spiega che solitamente gli agenti li fanno a uscire alle sei di mattina, motivo per cui non tutti vanno.


Sono passate circa due ore e mezza credo, andiamo, pass, carta d’identità e via. Fuori un sole accecante su un cielo più azzurro di sempre.


Francesca


venerdì, gennaio 26, 2007

Alla vs destra i libri che ho sul comodino

Ho pensato di inserire nella pagina di finoaquituttobene una lista dei libri che ho in giro per casa in un dato periodo, una lista che quindi sarà dinamica e in cui si mischiano senza nessuna barriera titoli che vanno dalla narrativa alla saggistica, dai testi accademici a quelli che potremmo definire "di dibattito".

Mi raccomando, non è da intendersi come "consigli alla lettura", anche perché certi libri mi finiscono per le mani per associazioni e connessioni che nella mia testa sembrano avere un senso ma che all'esterno possono apparire assurde, cosa che in alcuni casi a posteriori appare anche a me, libri che poi - apparentemente? - non mi portano da nessuna parte, che certo non intendo consigliare come se tutto ciò che mi capita tra le mani fosse oro.

D'altro canto, come in passato, se avrò libri che vorrò consigliarvi, o di cui mi presterò a fare un pò di lancio promozionale, gli dedicherò un post.

Negazionismo: legge assurda, inutile, controproducente

di Valerio Evangelisti (da Carmillaonline)
immagine tratta da thedisegnlabboston

Apprendo dai giornali che presto, su iniziativa del ministro Mastella, sarà reato passibile di detenzione negare la Shoah, e cioè lo sterminio intenzionale degli ebrei da parte del Terzo Reich. Così ci conformeremmo alle legislazioni di altri paesi europei, tipo Francia, Austria e Germania. Potremo finalmente mandare in galera i “negazionisti” (che si definiscono “revisionisti”, nel tentativo di agganciarsi a Nolte o a De Felice) locali.
Mai, secondo me, legge più assurda, idiota e pericolosa – sì, pericolosa! – fu concepita. Fa il paio con la Legge Mancino, che tentò di vietare in via giuridica le organizzazioni di estrema destra. Oggi esse proliferano, agganciate al centrodestra. Non è da profeti immaginare una proliferazione ulteriore, quando lo stesso bando riguarderà le idee.

Togliere per legge la parola di bocca ai “negazionisti” dell’Olocausto è superfluo. Sarebbe più utile contrastarne le tesi. Esiste un’ampia letteratura che al “negazionismo” ha reso la vita difficile. Da Valentina Pisanty, L’irritante questione delle camere a gas, Bompiani, 1998, a Valérie Igoune, Histoire du négationnisme en France, Seuil, Paris, 2000. Senza scordare il negazionista precursore, e tra tutti il più ambiguo, Paul Rassinier: Nadine Fresco, Fabrication d’un antisémite, Seuil, Paris, 1999.
Non bastava questo? A cosa ci servirà sbattere in galera i dissidenti?

David Irving ha fatto i suoi mesi di prigione, in una delle tante carceri europee. Ciò forse lo ha spaventato, forse no. Non sembra affatto pentito. E’ più logico tenerlo dentro e trasformarlo in martire, in attesa di un pentimento che non viene, o è più razionale cercare di demolire le sue tesi? Può uno Stato fare propria un’interpretazione storiografica, e imporla per legge? Se la risposta è sì, la piantino i sedicenti “liberali” di criticare l’ex sistema sovietico, o il cubano, o il cinese, o il vietnamita. La logica che li ispira è la medesima.

Il “negazionismo” è una fanfaluca e va distrutto. Però è preliminare conoscerlo. E magari non dimenticare le prime vittime che finirono nei campi di sterminio nazisti: i comunisti, i socialisti, gli zingari, persino i Testimoni di Geova. Dubito che il ministro Mastella sia vicino a qualcuno di costoro. Senza sperarci molto, auspico che Mastella rinunci alla sua legge balorda. Renderebbe perseguibile persino un antinegazionista di ferro come Pierre Vidal-Naquet. Il suo libro Assassini della memoria si apre con un ridimensionamento del numero delle vittime ebraiche dell’Olocausto, che certo non furono i classici “sei milioni”. Se Vidal-Naquet dimezza la cifra, non sta dicendo che la Shoah non ci sia stata. Eppure, se la legge voluta da Mastella passerà, esiste il rischio concreto che chiunque tenti analogo ricalcolo vada in prigione.

Va poi considerato che, tramite Internet, ciò che non si può leggere in un luogo è perfettamente leggibile in un altro. Il più noto sito negazionista internazionale, sorto in Francia, dopo il divieto prospera sui server di altri paesi e qualsiasi cittadino francese ha la possibilità di leggerne i materiali. E non si può dire che in Francia o in Germania il negazionismo sia scomparso, una volta messo fuori legge.

La messa al bando dei negazionisti non farà sparire questi ultimi. Il rischio è che li moltiplichi. E’ poi curioso che l’attuale governo, desideroso di un ingresso della Turchia nell’Unione Europea, ignori che si tratta di uno Stato a sua volta negazionista, che colpisce duramente chi osi ricordare il massacro della popolazione armena. Qui vediamo all’opera la solita politica occidentale dei due pesi e delle due misure. In questo caso, forse cedendo a pressioni israeliane o filoisraeliane, finisce per riconoscere un solo genocidio nella storia, e per ignorare tutti gli altri. Posizione dagli esiti tragici nel caso del Ruanda. Proprio la mancata definizione di “genocidio” nei riguardi della strage dei Tutsi ad opera degli Hutu, da parte dell’ONU, contribuì a ritardare un intervento internazionale che avrebbe potuto salvare un milione di vite.

Si colpisca l’antisemitismo, se necessario (e a patto di non chiamare “antisemita” ogni critica alle politiche del governo di Israele: si veda il bel libro di Norman Finkelstein Beyond Chutzpah). Però, per favore, non si ricorra al bavaglio e alla galera, che finiranno per rafforzare ciò che si vuole reprimere. Di revisionismi, in giro, ce ne sono già troppi. Sarebbe stupido conferire, al più sordido fra i tanti, la palma del martirio e la derivante onorabilità.

Di seguito riproduco l’intelligente intervento sul tema di 200 tra i maggiori storici italiani:

Noi storici contro la legge che punisce chi nega la Shoah Il Ministro della Giustizia Mastella, secondo quanto anticipato dai media, proporrà un disegno di legge che dovrebbe prevedere la condanna, e anche la reclusione, per chi neghi l'esistenza storica della Shoah. Il governo Prodi dovrebbe presentare questo progetto di legge il giorno della memoria. Come storici e come cittadini siamo sinceramente preoccupati che si cerchi di affrontare e risolvere un problema culturale e sociale certamente rilevante (il negazionismo e il suo possibile diffondersi soprattutto tra i giovani) attraverso la pratica giudiziaria e la minaccia di reclusione e condanna. Proprio negli ultimi tempi, il negazionismo è stato troppo spesso al centro dell'attenzione dei media, moltiplicandone inevitabilmente e in modo controproducente l'eco. Sostituire a una necessaria battaglia culturale, a una pratica educativa, e alla tensione morale necessarie per fare diventare coscienza comune e consapevolezza etica introiettata la verità storica della Shoah, una soluzione basata sulla minaccia della legge, ci sembra particolarmente pericoloso per diversi ordini di motivi:
1) si offre ai negazionisti, com'è già avvenuto, la possibilità di ergersi a difensori della libertà d'espressione, le cui posizioni ci si rifiuterebbe di contestare e smontare sanzionandole penalmente;
2) si stabilisce una verità di Stato in fatto di passato storico, che rischia di delegittimare quella stessa verità storica, invece di ottenere il risultato opposto sperato. Ogni verità imposta dall'autorità statale (l'«antifascismo» nella Ddr, il socialismo nei regimi comunisti, il negazionismo del genocidio armeno in Turchia, l'inesistenza di piazza Tiananmen in Cina) non può che minare la fiducia nel libero confronto di posizioni e nella libera ricerca storiografica e intellettuale;
3) si accentua l'idea, assai discussa anche tra gli storici, della «unicità della Shoah», non in quanto evento singolare, ma in quanto incommensurabile e non confrontabile con ogni altri evento storico, ponendolo di fatto al di fuori della storia o al vertice di una presunta classifica dei mali assoluti del mondo contemporaneo.

L'Italia, che ha ancora tanti silenzi e tante omissioni sul proprio passato coloniale, dovrebbe impegnarsi a favorire con ogni mezzo che la storia recente e i suoi crimini tornino a far parte della coscienza collettiva, attraverso le più diverse iniziative e campagne educative. La strada della verità storica di Stato non ci sembra utile per contrastare fenomeni, molto spesso collegati a dichiarazioni negazioniste (e certamente pericolosi e gravi), di incitazione alla violenza, all'odio razziale, all'apologia di reati ripugnanti e offensivi per l'umanità; per i quali esistono già, nel nostro ordinamento, articoli di legge sufficienti a perseguire i comportamenti criminali che si dovessero manifestare su questo terreno.

È la società civile, attraverso una costante battaglia culturale, etica e politica, che può creare gli unici anticorpi capaci di estirpare o almeno ridimensionare ed emarginare le posizioni negazioniste. Che lo Stato aiuti la società civile, senza sostituirsi ad essa con una legge che rischia di essere inutile o, peggio, controproducente.

Marcello Flores, Università di Siena, Simon Levis Sullam, Università di California, Berkeley Enzo Traverso, Università de Picardie Jules Verne David Bidussa, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli Bruno Bongiovanni, Università di Torino Simona Colarizi, Università di Roma La Sapienza Gustavo Corni, Università di Trento Alberto De Bernardi, Università di Bologna Tommaso Detti, Università di Siena Anna Rossi Doria, Università di Roma Tor Vergata Maria Ferretti, Università della Tuscia Umberto Gentiloni, Università di Teramo Paul Ginsborg, Università di Firenze Carlo Ginzburg, Scuola Normale Superiore, Pisa Giovanni Gozzini, Università di Siena Andrea Graziosi, Università di Napoli Federico II Mario Isnenghi, Università di Venezia Fabio Levi, Università di Torino Giovanni Levi, Università di Venezia Sergio Luzzatto, Università di Torino Paolo Macry, Università di Napoli Federico II Giovanni Miccoli, Università di Trieste Claudio Pavone, storico Paolo Pezzino, Università di Pisa Alessandro Portelli, Università di Roma La Sapienza Gabriele Ranzato, Università di Pisa Raffaele Romanelli, Università di Roma La Sapienza Mariuccia Salvati, Università di Bologna Stuart Woolf, Istituto Universitario Europeo, Firenze.

venerdì, gennaio 19, 2007

Etichette e implementazione

Come potete vedere oggi mi sono perso a sistemare le "etichette" su un tot di post andando a ritroso fino all'inizio di dicembre 2006. E' un esercizio in parte divertente ma anche difficile perché mi obbliga a costruire degli insiemi che non sempre sono omogenei... così ho pensato di fare di questo limite una virtù e di utilizzare le "etichette" in maniera non solo elastica, ma anche introducendone, strappandone, fondendone... insomma, un altro passo avanti sulla strada dello skizoblogger.

Oltre a questo sottolineo en passant che questa smania di etichettare in realtà non mi è venuta spontaneamente, ma è stata sollecitata dalla nuova interfaccia di blogspot e dalle nuove funzioni rese disponibili: ho iniziato a redigere finoaquituttobene e quindi non posso tirarmi indietro quando vengono implementati gli strumenti a disposizione.
La mia piccola riflessione a proposito deriva dal senso di sorpresa che ogni tanto mi coglie nel registrare la velocità con si evolvono gli strumenti di comunicazione telematica, quali quelli diposnibili per la realizzazione/gestione di un blog. E non intendo fare pubblicità a blogspot dicendo questo, infatti non dubito che gli altri fornitori dei medesimi servizi offrano ai loro utenti grosso modo le stesse possibilità.

Usabilità
è il concetto che rende brevemente la mission di tutti i fornitori di servizi in Rete, la regola aurea della comunicazione telematica, inseguendo "l'efficacia, l'efficienza e la soddisfazione con le quali determinati utenti raggiungono determinati obiettivi in determinati contesti" [da qui]. Alcuni anni fa venne pubblicato un libro di Jakob Nielsen dal titolo Web Usability, in cui appunto trova origine il concetto di usabilità, in cui l'autore sostiene che i siti Web debbono essere chiari e coerenti, devono permettere una navigazione semplice ed efficace, devono mantenere quello che promettono ed evitare ogni tipo di ambiguità e di ridondanza del messaggio.
La stessa cosa, alcuni anni dopo, ha certamente contagiato ogni ambito del web, anche se pare che questa filosofia sia andata a definire più l'evoluzione dell'interfaccia, visto la proliferazione e l'esplosione dei contenuti.
Ma al concetto di usabilità si rivolge presto una critica, in cui si accentua una rappresentazione della Rete in cui "Internet non è un medium che deve sacrificare ogni cosa alla creazione di opportunità economiche ma una sfera di creazione nella quale si pongono delle domande estetiche, delle ricerche di significato, cioè della comunicazione vera, e non prestampata a uso e consumo di commercianti e di utenti conformisti".

Insomma, anche se mi sono un pò perso, spero di avervi almeno intrigato con gli accenni a questo dibattito. Mentre io rimango un pò sconcertato ad immaginarmi il futuro della Rete e dei suoi utenti.

giovedì, gennaio 18, 2007

I pirati di Sealand ed il regno del p2p -- da Zone-H.it

Un altro progetto anticonformista in puro “Stile Pirata” è stato recentemente presentato dalla crew di Piratebay.org, popolare sito dedicato al tracking dei file di BitTorrent.

L'organizzazione ha espresso l'intenzione di comprare Sealand, un' ex piattaforma navale britannica situata a circa 10 Km al largo della costa di Suffolk (Inghilterra), definita come una “micronazione” fuori dalla giurisdizione del Regno Unito e di qualsiasi altro paese.

Sealand è in realtà considerata come un principato, uno stato indipendente che lo scorso anno ha rischiato di sparire a causa di un incendio. Adesso l'erede del principe autoproclamato, Michael Bates, ha deciso di mettere in vendita il regno ed i “Pirati” hanno considerato questa occasione come un'opportunità per creare il primo paese dove il file sharing sarebbe completamente legale ed il P2P non avrebbe nessuna restrizione.


[scritto da R. Preatoni]

Anche a Vicenza sarà dűra!

A sentire gli ultimi pronunciamenti del Presidente del Consiglio Prodi la costruzione della nuova base militare U.S.A. a Vicenza parrebbe cosa fatta. E le responsabilità non sono e non hanno - a sua detta - mai riguardato il Governo.

Ormai su tutti i giornali da diversi giorni, in primo luogo per le affollate iniziative di protesta contro la nuova base, queste ultime uscite di Prodi hanno rappresentato una secchiata in faccia proprio per le tante persone coinvolte nelle proteste contro la base, anche se le voci che vengono da Vicenza raccontano di una loro determinazione non doma e consapevole, tanto che nessuno aveva mai dato per semplice questa vertenza che vede un giro d'affari e di investimenti attorno alla costruzione della base con cifre da capogiro.


Quella che è sembrata una vera e propria "sollevazione di popolo" coincisa con la manifestazione nazionale a dicembre - in una città cattolica, industriale, destrosa come Vicenza - è infatti maturata con la necessaria calma di un lavoro in cui uno degli obiettivi era coinvolgere ed allargare i partecipanti a questo movimento, in quello che è stato anche un tentativo di replicare il modello Val di Susa (pur con tutte le differenze contestuali): insomma, anche a Vicenza tutti sono convinti che sarà dűra! ed intanto continuano a crederci e a lottare.


Per tenersi aggiornati su ciò che succede vi segnalo i seguenti link:


www.altravicenza.it

www.globalproject.info

lunedì, gennaio 15, 2007

A4RE -- Act for Radical Europe: manifesto for a transnational sociopolitical movement

PREMISE: WAR IS RAGING, DYSTOPIA IS LOOMING

The early 21st century is dark and barbaric, as war, inequality, irrationality, xenophobia, and ecological collapse spread unchecked over the planet, and over our troubled region of the world, Europe, governed by the EU and the nation-states, i.e. by the present (dis)Union of euro and non-euro states, of old and new member countries.

Bushism and political islamism are reshaping world politics, India and China are reshaping the global economy. South America has broken free of the Monroe Doctrine, but political Europe is in shambles: the french-dutch no has left it shaken and hollow at its core, while rising social conflict and disillusion are questioning its sustainability as a political entity, traversed by powerful capital
and migration flows (the former set free in the Single Market, the latter differentially discriminated and persecuted), and conservatively governed by a neoliberal technocracy and national governments sharing feeble if not negative legitimacy.

The old Spinelli-inspired and Monnet-initiated federalist project of catholic/socialist orientation has become a spent force in the 21st century, but a new European cosmopolitanism of radically democratic orientation must take its place, with horizontal federalism, social action, green politics and gay rights at its core. Strong-armed nationalists and right-wing populists are present
dangers in many countries of Europe, while either the socialdemocratic or the communist left are generally unable to find new solutions to the gigantic challenges posed by geopolitical and economic instability, the full spread of networking and digitalization, climate change and environmental damage, accelerating biotechnological innovation and its societal consequences.

SOCIAL STATES OF EUROPE

Over the last 20 years, precarity and inequality have broken the christian/social democratic political bargain of the postwar period -- rising incomes for employees and rising power for their unions in
exchange for acceptance of capitalist system-- on which modern Europe was founded, and left in its wake the rise of immense corporate and private wealth next to escalating exclusion and social angst. Acting for radical Europe means mobilizing decisively against social inequality, labor precarization and the arrogance of the elites and their privileges, as millions have recently done in France and Denmark.

The limitations against freedom of expression online and on the streets are on the increase, in a climate of state-induced fear and paranoia inviting ever more draconian securitarian regimes:
libertarian principles in information and communication must be constantly asserted online and offline and freedom of movement and protest constantly practiced and defended. Queer activism is rising, but gender rights are under unprecedented threat by reactionary catholic and muslim clerical establishments. In spite of the achievements of feminism, women are still intimidated, abused and
killed in native and immigrant families, and discriminated in the public sphere and at the workplace. The persecution of immigrants and refugees at the gates of and within Europe is a burning shame for all demoradicals of Europe: transnational solidarity and transethnic alliances are moral duties for an enlarged idea of Europe which includes also people once subjected to rapacious European imperial rule.

Europe's multiethnic youth is economically discriminated and increasingly alienated. The European younger generation is caught between unemployment and labor precarization, and unattainable basic social goods (home, higher education, welfare). Gerontocracy of the elites and consequent privileges for the rentier classes are killing Europe 's future by unfairly burdening European young families and excluding the creative class from economic and political decisions.

Financial and corporate power is still formidable in Europe, and tenaciously defended by monetarist Trichet and freemarketeer Barroso, but has lost the aura of credibility and indeed invincibility it had in the 1990s, thanks to the manifold pressures of the antiglobalization movement. The global movement for social and environmental justice which developed in Europe with the huge protests at Prague, Goteborg, Genoa, peaked on Feb 15, 2003 with the truly giant demonstrations against the invasion of Irak in Europe's major cities, but has been declining since, although new, less ideological, social movements seem to have taken the relay over the course of 2006.

THE IDEA OF RADICAL EUROPE

In an age of intellectual obscurantism and global dimming, we want to go back to the radical spirit of the Enlightenment and the radical birth of democracy. In Europe, through the centuries, the very idea of political philosophy and thus the form the state should take has been decisively shaped and altered by collective action and social conflict. Our idea of radical Europe takes inspiration from the great moments in Europe's history of democratic mobilization and social liberation, which we summarize here below.

The French Revolution, as interpreted by a girondist like Thomas Paine or a jacobin like Gracchus Babeuf and his follower, the sworn enemy of the Holy Alliance Filippo Buonarroti; the Chartist movement pushing for universal suffrage in England and the rise of trade unionism; revolutionary 1848 and the idea of a non-dynastic Young Europe; 1870 and the communards' brave experiment with self-governing urban democracy of elected officials; the 1890-1920 period that saw great
hopes and major defeats for the radical democratic left in a Continent torn by general strikes, rocked by women's suffrage movement, sucked dry by the ghastly trenches, traumatized by revolutions and counterevolutions, with the socialist second international and revolutionary syndicalism holding the scene before the Great War, replaced after 1917 by the more sectarian communist third international and revolutionary leninism (which soon turned into totalitarian stalinism); 1936 was the year of the social and electoral victory of the french popular front and of franco's aggression against the republican, socialist and anarchist spanish popular front; it was
the year when european and international fascism unleashed genocidal war in Europe and Asia: only a global popular front could manage to finally defeat nazis and fascists in 1945, after immense suffering and civil wars of liberation. From the ashes of fascist defeat and the horrors of total war, the political idea of Europe first emerged out of European resistance movements, whose ideas where distilled in the Ventotene Manifesto for a federal and peaceful Europe. As Hannah
Arendt wrote in the 1940s on the Partisan Review:

"The underground movements…were the immediate product of the collapse first of the national state, which was replaced by quisling governments and second of nationalism itself as the driving force of nations. Those who emerged to wage war fought against fascism and nothing else. (But) all these movements at once found a positive political slogan which plainly indicated the non-national though very popular slogan which was simply EUROPE."

After the war, European economic, and then political, institutions started to consolidate. 1956 was the decisive starting point, since it proclaimed the end of European imperialism and the birth of European federalism after Suez, revealed Stalin's crimes, thus unleashing Eastern Europe's democratic anti-Soviet rebellion. In 1968, simultaneously, Paris, Rome, Berlin, Prague rebelled, setting off the explosion of identity politics in the 70s (hippies, students, women, gays, punks, oppressed ethnic groups and peoples), and ultimately defeating the two-bloc partition of Europe with the 1989 democratic uprising in Berlin, prepared by the antinuclear movements of that
decade. The Fall of the Wall led to the implosion of Russian communism and its geopolitical bloc and thus prepared the scene for the launch for the Single Currency in Western Europe and enlargement to the east for the whole of the EU.

We are proud inheritors of the history of radical Europe. We have absorbed Europe's traditions of democratic politics and critical philosophy. We are descendants of the secular approach to reason and nature, of all the strands in socialist thinking and progressive politics that have invariably opposed all forms of authoritarianism and totalitarianism. We are the children of ecological and
post-patriarchal Europe and it is from this radical heritage that we want to build a shared rad-dem political culture that can make people experience meaning and purpose back again in their lives and environments.

We declare ourselves radical europeans. We want to fight to assert the fundamental human, civil, social, gender, information rights of the multitudes living in or coming to Europe. We will work toward a rebirth of the European project on principles of radical democratic participation: from intellectual dissent to social protest, from civil disobedience to labor picketing, from consumer boycott to media campaigning. We declare nationalism and fundamentalism our foes and
enemies. We denounce political neoconservatism and economic neoliberalism as untenable and immoral philosophies and ways of government. We are fierce enemies of private monopoly in technology and knowledge industries and enraged by unprecedented levels of economic concentration in all sectors of the economy. Nevertheless, we are not unqualified anticapitalists. We strenuosly oppose the economic interests that are accomplices in the reactionary and ecodestructive turn the world has taken, but not the market and private enterprise as such, which in our view can either have progressive or regressive effects according to the periodically shifting balance of social andideological forces among capital and labor, state and society. More
strategically, we think the magnitude of the historical challenge before us --staving off environmental and social disaster-- is such, and the risk of a malignant social mutations and political bifurcations so great, that we cannot afford not to speak to and enlist, not only the creative and service classes we intend to give voice and articulation first and foremost, but also the middle-classes and the enlightened sectors of capitalism.

We are not a political party and we are not a union, although some of our members could run for office or be union delegates. We intend to be a Pan-European association giving expression to a demoradical social and political movement. We want to go beyond anarchist spontaneity and communist nostalgia. Horizontalism and egalitarianism are not sectarian totems, but ideals than need to be transformed into common practice and legal protection. On the other hand, queer,
ecologist, cyber subjectivities need to find a larger social and political horizon to truly challenge established state power. In this respect, we naturally look onto the European Greens and the European Left as the political forces that need to be prodded to come up with demoradical solutions to the current historical impasse. But our social action and political advocacy will be free of any reverence with respect to parties or unions, and totally independent in its intellectual elaborations.

We are the generation the tore down Berlin's wall and went illegal when Thatcher, Wojtyla and Reagan tried to restore family values (for Deng, it was party values). We are the harbingers of the Internet revolution and market globalization. We are the low-cost generation, still dominated by cold-war elites who would rather turn Europe into a giant Switzerland, where shady dictators and
mafia bosses can safely put their money and immigrants, even those born in Europe, are excluded
from citizenship. Against the liberal-democratic, or worse national-democratic, policies for Europe that promote inequality and subservience to US militarism, we propose a new radical-democratic
horizon for Europe capable of creating a new political culture and social landscape. We proclaim ourselves wobbly and queer, peace-loving, tree-hugging and computer-savvy, democratically active radicals of Europe.

WHAT'S NEEDED TO BUILD RADICAL EUROPE:
A SOCIO-POLITICAL ORGANIZATION USING ALL POSSIBLE RESOURCES&TACTICS TO ENFORCE THE RADICAL DEMOCRATIC VALUES OF POLITICAL AND CULTURAL FREEDOM, AND SOCIAL AND ECOLOGICAL JUSTICE ACROSS EUROPE!

OUR BASIC AIMS
To create a peer-to-peer radical and ecological democracy in Europe.
To affirm the secular, feminist, solidaristic identity of Europe.
To open the borders of Europe to all cultures and peoples.
To promote stronger European political integration and horizontal federalism and regionalism around these values.
To render the Commission an expression of the European Parliament, accountable to and petitionable by the European public.
To drastically reform the statutes and policies of the European Central Bank.
To levy a European corporate tax and a European carbon tax to endow the EU with autonomous fiscal resources.
To returntto keynesian, expansionary fiscal and monetary policies, thus abrogating the stability pact and its provisions.
To promote pan-European referenda on constitutional issues, EU directives and legislation.
To reform the European Court, so that it can be directly addressed in lieu of national justice in case of the violation of European fundamental rights.
To promote a new global trade system, in alliance with the progressive forces in South America and India.
To get Europe out of NATO, so that it can projects its international weight in favor of just peace and international justice, such as the protection of people from genocide.
To protest against all human rights violations, and promote solidarity with democratic movements facing repression worldwide.
To expand the role for public health, public education, public space.
To protect immigrants from persecution and discrimination.
To secure a European basic income as the keystone a truly European welfare system.
To set a European minimum wage, defend unionization rights and the right to strike, as the only re-equalizing forces on the European labor market today.
To ensure freedom of expression and communication and protect the free exchange of knowledge.
To ensure neurochemical freedom and the legalization of THC.
To assert gay, lesbian, bisexual and transgender rights, and the rights of all unmarried couplesb to family life and social benefits.
To work toward greener, bike-oriented and kid-friendly cities, by adopting alternatives to fossil fuels and the internal combustion engine in private and public tranportation.
To promote informed and democratic discussion around science and technology, in order to build a strong demoradical position on bioethics and other scientific issues affecting society.
To decrease the material, i.e energy, content of consumption and wealth as the only viable way to survive as a cosmopolitan, digital civilization on a planet with limited land and water resources and fast-heating atmosphere and oceans.

THE ARCHITECTURE OF ACT 4 RADICAL EUROPE ( A4RE)

To achieve these aims, Act for Radical Europe (A4RE) is a federal, transnational, umbrella organization operating at the urban and European levels, taking the form of a card-carrying, fee-charging European association composed of 4 autonomous but networked branches, coordinated by electronically electable and removable delegates to be drawn from the association's constituency. Any city in Europe and the Mediterranean can join A4RE: it will be considered a hub, if features the any or some of the following 4 departments, and a hub if if hosts
them all. Hubs and subhubs contribute federal delegates and resources to A4RE for its actions of political and social pressures at the Europen level, while networking autonomously on metropolitan and transnational projects of their choosing.

Here are A4RE 's initial four deparments/subnetworks.

THE PRECARIOUS SYNDICATE: a social advocacy and media subvertising group assisting temp workers and part-timers, pink collars and networkers, in their struggles against governments and corporations.
Also provides legal counseling and political lobbying against precarity at the Union and state levels.

EUROPEAN FUNDAMENTAL RIGHTS GROUP: a civic and legal advocacy group defeding, before the courts and public opinion, the right to protest and civil disobedience, the rights of first-generation Europeans and migrants, queer and women's rights, the cyber rights of free spech on the Web and the cell phone.

ECOACTIVE CONSPIRACY: a network of direct action collectives practicing urban ecology, permaculture, barefoot economics, guerrilla gardening, environmental hacks and protests, and the like.

PINK PUNK HACKS YOUR THINK TANK: a hub of intellectual discussion and social science research around demoradical europe: movements, subcultures, conflicts, policies, borders, cartographies and realities of power, geopolitics,transnational alliances, creative+service class, and other politically relevant issues and questions.

giovedì, gennaio 11, 2007

Haymarket, Chicago

L'11 dicembre 1887 a Chicago si tenne l'impiccagione di quattro uomini accusati di essere i mandanti "morali" della bomba esplosa il 1° maggio dell'anno precedente in Haymarket Square.

Imputati assieme a loro altri tre uomini che videro la pena capitale commutata in ergastolo ed un ottavo uomo che si suicidò in carcere pochi giorni prima dell'esecuzione.

Una delle tante vicende storiche in cui la violenza padronale e poliziesca ebbero la meglio su di un fetale movimento operaio, un movimento che - negli Stati Uniti d'America - fra mille distinguo aveva individuato nella richiesta delle 8 ore di lavoro quotidiano il minimo comune denominatore su cui costruire un ampia campagna di mobilitazione.

Tanto che quel Primo maggio 1886 ed i fatti lì accaduti assurgeranno poi a simbolo di ogni battaglia del movimento operaio storico in tutto il mondo.

La vicenda viene egregiamente raccontata da un importante storico americano (
Martin Duberman), in un romanzo pubblicato da poco in Italia che oltre alla vicenda specifica tratteggia da una parte l'evoluzione personale e politica dei due protagonisti, dall'altra narra il contesto storico ed il clima degli Stati Uniti appena fuori dalla guerra civile e dalla Rivoluzione americana.
I protagonisti sono Albert e Lucy Parsons, coppia trasferita a Chicago dal Texas dove il loro rapporto era impossibile da mantenere e costruire, infatti la carnagione scura e i tratti somatici accentuati di Lucy erano sufficienti perché venisse etichettata come "negra" ed i matrimoni "misti" - Albert era "americano puro" - non solo non erano ben visti, ma addirittura erano ancora vietati in molti stati dell'Unione.

Due personaggi che la scrittura di Martin Duberman rende vivi e empaticamente irresistibili, in cui a mio avviso troneggia il personaggio di Lucy: proprio perché donna e considerata "negra" infatti la sua adesione alle idee anarchiche pare la logica e normale conseguenza alla discriminazione diffusa, tanto che la sua battaglia principale sarà all'interno del campo delle organizzazioni operaie per dare accesso e parola alle donne ed agli afroamericani.

Un libro che vale la pena leggere, anche solo perché ci fa respirare per un attimo l'aria di un'umanità che si sta facendo soggetto, in un processo complesso e al tempo segnato dall'ingenuità, ricomponendo le tante divisioni (la nazionalità d'origine, la lingua, ecc.) che facevano di uomini e donne che condividevano la medesima sorte dei singoli dispersi e inermi.

Se Albert è il personaggio che ci permette poi di accompagnare fin sul patibolo i quattro innocenti condannati, Lucy ci viene presentata come la rappresentazione stessa del riscatto che fra amarezze e perdite insopportabili continuerà le sue battaglie fino alla morte in tarda età.

La vita di Lucy dopo il 1887 non viene raccontato nel libro, ma quando si arriva all'ultima pagina e tutto pare chiudersi sul patibolo e con il marchio della morte è la storia futura di Lucy - e del grande movimento operaio americano - appena citati che ti permettono di riprendere a tirare il fiato.

Sui fatti di Haymarket Square:

http://dwardmac.pitzer.edu/Anarchist_Archives/haymarket/Haymarket.html

http://memory.loc.gov/ammem/award98/ichihtml/hayhome.html

http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=592

Su Lucy Parsons:

http://www.lucyparsonsproject.org/

http://www.lucyparsons.org/

Su Albert Parsons:

http://dwardmac.pitzer.edu/Anarchist_archives/bright/aparsons/parsons.html

http://en.wikipedia.org/wiki/Albert_Parsons

mercoledì, gennaio 10, 2007

Che cosa è l'operaismo?


A trenta anni dalla prima edizione de Operai e capitale di Mario Tronti - che è divenuto uno dei classici dell'operaismo italiano - è stata da poco pubblicata un nuova edizione (DeriveApprodi). Per chi volesse farsi un "ripassino" senza prendere in mano il testo originale - cosa che comunque varrebbe la pena fare, anche solo per calarsi un attimo nella prosa e nell'analisi di quegli anni - segnalo la newsletter del Centro per la Riforma dello Stato dedicata appunto a Mario Tronti.
Si può trovare qui.
Ma per un assaggio pubblico direttamente di seguito la relazione di Tronti alla conferenza tenuta al convegno internazionale "Historical Materialism 2006. New Directions in Marxist Theory", Londra 8-10 dicembre 2006.

E' un testo forte ed evocativo, come fu l'operaismo.


Intanto, che cos’è “operaismo”.
E’ un’esperienza che ha cercato di unire
pensiero e pratica della politica,
in un ambito determinato, quello della fabbrica moderna.
Alla ricerca di un soggetto forte, la classe operaia,
in grado di contestare e di mettere in crisi
il meccanismo della produzione capitalistica.

Sottolineo il carattere di esperienza.
Si trattava di giovani forze intellettuali
che si incontravano con le nuove leve operaie,
introdotte soprattutto nelle grandi fabbriche
dalla fase taylorista e fordista dell’industria capitalistica.
Quello che era avvenuto negli anni Trenta in Usa
avveniva negli anni Sessanta in Italia.

Il contesto storico era proprio quello degli
anni Sessanta del Novecento.
In Italia, c’è in quel periodo il decollo
di un capitalismo avanzato,
il passaggio da una società agricolo-industriale
a una società industriale-agricola,
con uno spostamento migratorio di forza-lavoro
dal sud contadino al nord industriale.

Si disse: neocapitalismo.
Produzione di massa-consumi di massa
modernizzazione sociale con welfare State
modernizzazione politica con governi di centro-sinistra,
democristiani più socialisti
mutamento di costume, di mentalità, di comportamento.
Si andava verso il ’68
Che in Italia sarà ‘68-’69,
contestazione giovanile più autunno caldo degli operai,
quando ci fu un forte cambiamento del rapporto di forza
tra operai e capitale,
con il salario che andò a incidere direttamente sul profitto.

E questo poté avvenire, anche perché c’era stato l’operaismo,
con il richiamo alla centralità della fabbrica,
alla centralità operaia, nel rapporto sociale generale.
L’operaismo è dunque stata un’esperienza politica
che ha contato storicamente,
cioè in una situazione storica determinata.

Si trattava di dare una nuova forma, teorica e pratica,
alla contraddizione fondamentale.
Questa veniva individuata all’interno stesso del rapporto di capitale,
quindi nel rapporto di produzione,
quindi in quello che chiamavamo

“il concetto scientifico di fabbrica”.
Qui l’operaio, collettivo, aveva potenzialmente,
se lottava, se organizzava le sue lotte,
una sorta di sovranità sulla produzione.
Era, o meglio, poteva diventare,
un soggetto rivoluzionario.

La figura centrale era l’operaio di linea,
l’operaio alla catena di montaggio,
nell’organizzazione fordista del processo produttivo
e nell’organizzazione taylorista del processo lavorativo.
Qui l’alienazione del lavoratore toccava il suo livello massimo.
L’operaio non solo non amava, ma odiava il suo lavoro.
Il rifiuto del lavoro diventava un’arma mortale contro il capitale.
La forza-lavoro, in quanto parte interna del capitale,
capitale variabile distinto dal capitale costante,
facendosi autonoma, si sottraeva alla funzione
di lavoro produttivo, impiantando una minaccia
nel cuore del rapporto capitalistico di produzione.

La lotta contro il lavoro riassume il senso dell’eresia operaista
Sì, l’operaismo è un’eresia del movimento operaio.
Bisogna considerarlo rigorosamente dentro
la grande storia del movimento operaio, non fuori, mai fuori.
Una delle tante esperienze, uno dei tanti tentativi,
una delle tante fughe in avanti, una delle tante generose rivolte
e una delle tante gloriose sconfitte.

Noi, seguendo l’indicazione di Marx, che studiava
le leggi di movimento della società capitalistica,
andavamo a studiare le leggi di movimento del lavoro operaio.
Le lotte operaie hanno sempre spinto in avanti
lo sviluppo capitalistico, hanno costretto il capitale
all’innovazione, al salto tecnologico, al mutamento sociale.
La classe operaia non è classe generale.
Così l’hanno voluta rappresentare i partiti
della Seconda e della Terza Internazionale.
Era giusta la frase di Marx:
il proletariato, emancipando se stesso, emanciperà tutta l’umanità.
Questo processo è già avvenuto, limitato al solo Occidente.
Se emancipazione è progresso, modernizzazione,
benessere, democrazia,
tutto questo c’è, ma tutto questo è servito
a una grande rivoluzione conservatrice,
a un processo di stabilizzazione del sistema capitalistico,
che oggi, com’era nella sua vocazione originaria,
assume la dimensione dello spazio-mondo,
ordine mondiale di dominio che scende dall’alto dell’Impero,
ma sale anche dal basso,
introiettato in una mentalità borghese maggioritaria.

I sistemi politici democratici sono oggi
la tribuna del libero assenso a una servitù volontaria.

L’operaismo,
cioè la rivendicazione della centralità operaia
nella lotta di classe,
si è scontrato con il problema del politico.

In mezzo, tra operai e capitale,
io ho trovato la politica:
nella forma delle istituzioni, lo Stato,
nella forma delle organizzazioni, il partito,
nella forma delle azioni, tattica e strategia.

Il capitalismo moderno non sarebbe mai nato
senza la politica moderna.
Hobbes e Locke
vengono prima di Smith e Ricardo.

Non ci sarebbe stata accumulazione originaria di capitale
senza accentramento statale delle monarchie assolute.
La storia d’Inghilterra insegna.
La prima rivoluzione inglese,
quella brutta della dittatura di Cromwell,
e quella bella, gloriosa, del Bill of Rights,
corrispondono alle due fasi dettate da Machiavelli:
sono due cose diverse
la conquista del potere e la gestione del potere,
per la prima ci vuole la forza, per la seconda ci vuole il consenso.
Il capitalismo libero-concorrenziale ha avuto bisogno
dello Stato liberale,
il capitalismo del welfare ha avuto bisogno
dello Stato democratico.
Poi, attraverso la soluzione, provvisoria,
del totalitarismo, fascista e nazista,
la sintesi della democrazia liberale
ha stabilizzato il dominio della produzione capitalistica.

E adesso siamo nella fase della esportazione del modello
a livello mondo.
Non tutto funziona secondo i piani del capitale.
La cosa oggi più interessante politicamente

è il mondo.
La “grande trasformazione”, per usare l’espressione di Polanyi, riguarda lo spostamento del baricentro mondiale
da Occidente a Oriente.

I nostri paesi, europei, al loro interno,
lasciano scarsi motivi di interesse.
E’ difficile appassionarsi alla politica con i Blair e con i Prodi.

Ma il capitalismo è un ordine,
e oggi, come aveva previsto Marx, un ordine mondiale,
che continuamente rivoluziona se stesso.
E’ qui il punto di interesse.

Guardate la rivoluzione che ha portato nel mondo del lavoro.
Per rispondere alla minaccia della centralità operaia
ha deciso di abbattere la centralità dell’industria,
e ha abbandonato, o ha rivoluzionato, quella società industriale,
che era stata la ragione e lo strumento
della sua nascita e del suo sviluppo.

Quando l’isola di montaggio sostituisce
la linea, la catena, di montaggio
nella grande fabbrica automatizzata
e si entra nella fase postfordista,
tutto il resto del lavoro cambia,
nel classico passaggio dalla fabbrica alla società.

La domanda di oggi:
esiste ancora la classe operaia?
La classe operaia come soggetto centrale della critica al capitalismo.
Non quindi come oggetto sociologico
ma come soggetto politico.
E le trasformazioni del lavoro,
e della figura del lavoratore,
dall’industria ai servizi,
dal lavoro dipendente al lavoro autonomo,
dalla sicurezza alla precarietà,
dal rifiuto del lavoro alla mancanza di lavoro,
tutto questo che cosa comporta politicamente?
E’ di questo che dobbiamo discutere.

L’operaismo è stato il contrario dello spontaneismo.
E l’opposto del riformismo.

Più vicino, quindi, al movimento comunista delle origini
che alle socialdemocrazie classiche e contemporanee.
Ha coniugato di nuovo, in modo creativo,
Marx con Lenin.

Mi chiedo, se nelle condizioni trasformate del lavoro di oggi,

  • frantumazione, dispersione, individualizzazione, precarizzazione -
    delle figure di lavoratori
    si possa tornare a coniugare qui e ora
    analisi del capitalismo e organizzazione delle forze alternative.
    E non ho una risposta.

So per certo che
non si dà lotta vera, seria, in grado di fare conquiste,
senza organizzazione.
Non si dà conflitto sociale capace di battere l’avversario di classe
senza forza politica.

Questo è quello che abbiamo imparato dal passato.

Se i nuovi movimenti non raccolgono l’eredità
della grande storia del movimento operaio,
per portarla avanti in forme nuove,
per essi non c’è futuro.

Nuove pratiche, nuove idee,
ma dentro una storia lunga.

Guardate. Ai capitalisti
fa paura la storia degli operai,
non fa paura la politica delle sinistre.
La prima l’hanno spedita tra i demoni dell’inferno,
la seconda l’hanno accolta nei palazzi di governo.

E ai capitalisti bisogna fare paura.
E’ ora che un altro spettro
cominci ad aggirarsi,
non solo in Europa, ma nel mondo.
Lo spirito, risorto,
del comunismo.

lunedì, gennaio 08, 2007

2007 da paura...

Rientriamo in baracca e ricominciamo dunque.

In primis con l'augurio a tutti quelli che passano da queste parti di uno splendido anno 2007... e poi un augurio anche allo stesso finoaquituttobene che vede arrivare a mille i contatti dalla sua nascita ad oggi.

L'anno è cominciato proseguendo il mite inverno che aveva chiuso il 2006, le montagne sono spelate e senza traccia di neve (vera!), gli orsi del trentino non sono andati per questo in letargo - o lo hanno interrotto - e negli ultimi giorni si sono fatti notare ai bordi delle piste di sci. Che sia un inverno caldo lo avevamo capito, ma purtroppo questi segnali, assieme ad altri provenienti da altre latitudini, sembrano ancora una volta sbatterci in faccia una realtà in cui la catastrofe è già in corso, in cui le grida "al lupo, al lupo" che qualche volta e probabilmente sempre più sentiremo rimbalzare di media in media non saranno sufficienti a cambiare uno stato di cose che non si è prodotto istantaneamente ma lungo tutta l'epoca dell'industrializzazione.

E tutto sommato le voci dei media mainstream a proposito dei segnali della catastrofe ecologica in corso mostrano subito una tensione tutta strumentale al problema: infatti si tratta sempre di capire quali danni economici provocheranno i mutamenti climatici.

Ed allora se ad 800 Km dal Polo Nord nell'agosto del 2005 si staccò un iceberg di 66 Km quadrati la notizia diviene tale solo in questi giorni, non tanto perché le analisi del caso solo da poco hanno confermato che la causa dello staccamento è il surriscaldamento globale ma perché "ora c'è apprensione per quest'isola impazzita, perché con la prossima estate potrebbe iniziare a vagare per il Mare di Beaufort dove vi sono molti di pozzi di gas e greggio e numerose petroliere in transito. E contro questo monumentale iceberg, caso in cui si dirigesse contro una base di tal genere, si potrebbe fare ben poco. Nell'estate del 2006, l'isola di ghiaccio si è mossa per circa 50 km in un'area libera da impianti petroliferi e dove non passa alcuna nave, ma il problema potrebbe diventare serio per la prossima estate. E far scattare l'allarme" (da
Repubblica).

Comunque, buon 2007 da paura a tutti.