martedì, gennaio 30, 2007

Going to jail

Scuserete ancora una volta la lunghezza del pezzo che sto postando. Questa volta però penso che valga la pena farsi venire un pò di bruciore agli occhi e leggere per intero il testo che segue e che prende il titolo di "Going to jail": è un racconto di prima mano su una visita presso un carcere di Los Angeles, una visione parziale su un sistema carcerario molto vario e che per lo più noi conosciamo attraverso la rappresentazione che di questo dà il cinema o le serie televisive. Proprio per questa sua obbligata visione parziale il racconto ci propone le immagini -- quindi i muri, le sbarre, i volti, la luce, ecc. -- di uno, ed uno solo, spazio carcerario statunitense, proponendoci sopra a tutto una partecipazione umana ed empatica che contagia inevitabilmente il lettore.

Francesca, l'autrice, ha vissuto sei mesi a Los Angeles e si svolge da anni attività volontarie all'interno del carcere di Padova.

L’obiettivo della visita in carcere per i volontari di ACLU è verificare la situazione all’interno del carcere e incontrare i detenuti per chiedere quali problemi hanno o per aggiornarli sulla loro situazione se sono già stati presi in carico.


Seguo Mary, la responsabile del progetto carcere a Los Angeles in una visita alla Men
Central jail di LA: in jail sono reclusi i detenuti in attesa di giudizio, mentre quella nella prison quelli già condannati. Nel carcere in cui stimo andando noi ci sono quindi persone in attesa di giudizio, al momento più di quattromila.


Mentre ci avviciniamo Mary mi indica il nuovo penitenziario, le Twin Towers. È un edificio strano mi ricorda il tempio dei Mormoni o quello di Scientology. Resto colpita dal fatto che le uniche aperture nell’edificio sono non più grandi di un metro per trenta centimetri. Resto un po’ disorientata e chiedo a Mary, “le finestre?”. Lei mi indica appunto quelle fessure che proprio non mi sento di chiamare “finestre”. Mary guarda sorridendo
la mia espressione stupita e mi indica l’edificio dove ci stiamo recando noi, la Men Central Jail. Sono cubi di cemento sigillati, non una finestra, una fessura, un foro, una crepa in cui possa filtrare un raggio del sole meraviglioso della California, niente.


Aspettiamo in una stanza che un agente venga a prenderci per portarci nel carcere, c’è odore di mensa e ovunque brillano le stelle del Dipartimento dello Sceriffo, nella migliore tradiz
ione Western.


La procedura di ingresso nel carcere non è molto diversa da quella a cui sono abituata ai Due Palazzi, scambio di documenti, pass ed entriamo attraverso un cancello automatico sovrastato
da una grossa scritta “Make the difference”. Mentre mi chiedo cosa stia a significare questa scritta, ci passa di fianco un detenuto. Sì, indossa l’uniforme arancione vista nei film. È ammanettato e scortato da un agente, come, mi dicono, si usa per i detenuti della sezione di massima sicurezza, riconoscibili dalla divisa arancione. Prendiamo tutti una scala mobile per andare ai piani superiori.


Camminiamo lungo un corridoio, incrociando detenuti, infermieri e agenti. La maggior parte dei detenuti hanno uniformi blu, appartengono alla popolazione comune, ogni t
anto qualcuno in azzurro, in Italia lo chiameremmo “lavorante”. Gli agenti invece hanno divise sul marrone, con cucita qualche stella sulla camicia e ricamato il loro cognome. Alla cintura hanno manette e una radiolina. Non sono armati, ma hanno una grossa pila di ferro, che all’occorrenza…


I muri del corridoio sono decorati da murales, come il corridoio che alla Reclusione di Padova è frequentato soprattutto da esterni. A differenza delle riproduzioni di pittori famosi di Padova, qui i disegni celebrano i diversi Corpi dell’esercito americano, l’aviazione, la marina, ecc., rappresentati da facce di animali co
n sguardi minacciosi e incazzati e braccia umane eccessivamente muscolose. Sull’altro lato enormi stelle del Dipartimento dello Sceriffo, e visi di uomini e donne in uniforme e di un’intera famiglia che si stringe intorno al giovane padre soldato.

Passiamo velocemente dalla sala per le attività comuni vuota e ci avviamo verso un altro corridoio. Non so dove stiamo andando, credevo avremmo incontrato lì i detenuti.


Percorrendo il corridoio vedo che per terra c’è del nastro colorato che disegna delle corsie e ogni tanto c’è scritto “STOP”; i detenuti, camminando lungo i corridoi, devono stare attaccati ai muri, rispettando lo spazio interno alle corsie e i segnali di stop, aspettando il permesso a passare.


Mary mi fa segno di girare e sinistra, abbandoniamo il corridoio decorato e ci troviamo in un “posto”, pieno di corridoi, pochissimi muri, centinaia di sbarre. L’agente ci apre un cancello, ci fa passare mentre lui resta all’esterno.


Non capis
co bene dove siamo, o meglio, mi sembra improbabile che siamo dove credo. Il corridoio è molto stretto, da un lato un muro bianco, dall’altro una lunghissima fila di sbarre, una scena già vita in più di qualche film. Iniziamo a camminare, uomini che dormono, si lavano, giocano a carte o con un domino realizzato con matite e pezzi di carta, leggono, vanno in bagno, si lavano i denti o semplicemente “stanno”. Guardo per terra, mi sento a disagio, come un ospite non invitato. Qui l’assenza di finestre mi provoca un’angoscia immediata, l’unico spiraglio è la condotta dell’aria in ogni cella. Per il resto sono delle gabbie, dei cubi, delle scatole, in cui vivono fino a quattro persone in condizione subumane.


Ovunque domina un nauseabondo colore bianco. È tutto dannatamente bianco e la luce al neon peggiora le cose. Tra le poche eccezioni le divise blu, le scarpe in tela nera con la scritta bianca “L.A. County Jail” e le sbarre, tantissime sbarre, la cui vernice grigia scrostandosi ormai stanca, svela il precedente arancione brillante.


In ogni cella ci sono tre letti a castello, alcuni dei quali usati per appoggia
re cibi e oggetti; non ci sono materassi veri e propri, ma materassini spessi tre dita foderati da plastica pesante. Non ci sono cuscini, ognuno si ingegna con i pochi mezzi a disposizione (non hanno vestiti o divise di ricambio o coperte in più), solitamente con un asciugamano o arrotolando la parte superiore del materassino; ci sono lenzuola e quella che chiamano “coperta”, che in realtà è un copriletto di cotone spesso, che non ripara dal freddo del clima tutto speciale della California penitenziaria.


Ai muri qualche mensola che ospita qualche libro, pochi ritagli di giornale con qualche donna nemmeno troppo svestita, qualche scritta, ma generalmente muri lasciati bianchi. In fondo un lavandino e un water di acciaio. In qualche cella, vicino al water c’è un filo su cui un lenzuolo viene sacrificato come tenda nel tentativo di guadagnare un po’ di privacy. Vicino al water uno o due telefoni, non mi ricordo, da cui i detenuti possono chiamare a casa acquistando delle schede prepagate allo “spaccio” del carcere. Nessuno ha la tv, mi dice Mary che in jail non la puoi tenere, nelle prisons invece la puoi comprare.


Iniziamo dal fondo, carta e penna, Mary chiede come va
:
Hi guys, what’s goin’ on? How is everything?”. La maggior parte dei ragazzi è di origine latina o afroamericana, sembrano piuttosto giovani. Alcuni parlano veloce e in slang, non sempre capisco cosa dicono. Generalmente si lamentano del breve tempo che gli è concesso di stare sotto la doccia, dei telefoni che non funzionano e soprattutto reclamano visite mediche, dentistiche e farmaci che tardano ad arrivare. Qualcuno non ha il materasso, un altro non ha le lenzuola. Gli chiedo come sta, scrolla le spalle, mi risponde non troppo bene.


Subito un paio di detenuti mi mettono alla prova con un paio di battute, supero l’esame rispondendo a tono e scambiamo due parole, mi segno le cose di cui hanno bisogno, lenzuola e dentista. Attraverso le sbarre i detenuti allungano il braccio, in modo da permetterci di leggere il nome e il numero di matricola impresso sopra il braccialetto che indossano. Vicino al numero di matricola c’è un codice a barre. Quando i detenuti escono per andare da qualche parte l’agente gli passa un lettore ottico sul braccialetto, proprio come nel supermercato si fa con una scatola di pelati.


Mi aspettavo che ci prendessero d’assalto, riempiendoci di richieste e di reclami o almeno è quello che credo farei io se fossi in quelle condizioni e vedessi qualcuno di esterno passare per i corridoi. Invece no, se hanno bisogno di qualcosa lo spiegano, non chiedono più del tempo necessario a fare le loro richieste, ringraziano e salutano. Mi sembrano tristemente rassegnati.


Vedendo quelle persone condividere quello spazio così limitato e così squallido, mi chiedo cosa o chi devi diventare per sopravvivere lì dentro, non puoi rimanere lo stesso di prima e accettare di vivere in quel modo senza impazzire. Mi chiedo a quale livello di abbrutimento devi scendere per adeguarti e non soccombere. E mi chiedo allora, dopo che sei sopravvissuto a quell’inferno terrestre una volta, dopo che ti sei plasmato a quelle condizioni per resistere, cosa ti può spaventare ancora, cosa ti può mettere alla prova, una volta fuori quando il sole a cui non sei più abituato ti accecherà e quando la vista di tanti colori ti farà girare la testa? Mentre uscivamo dal corridoio sono queste le cose a cui pensavo.


Mary segnala agli agenti i detenuti che non hanno il materasso e le lenzuola e riporta i problemi riguardo alle docce, chiedendo di vedere il registro in cui sono annotate le presenza e i movimenti dei detenuti. L’agente lo consegna. I membri dell’ACLU hanno il diritto di accedere a questi documenti e gli agenti il dovere di mostrarli prontamente. Mary chiede come mai il tempo per le docce è di dieci minuti per tutto il piano, come risulta dal registro, concludendo che sembra che i detenuti abbiano ragione e le docce siano troppo corte. Gli agenti rispondono con apparente amichevolezza che dev’esserci un errore nel registro e Mary consiglia di compilarlo con maggiore attenzione la prossima volta.


Uscendo mi sento stordita. Nel corridoio ci sono delle panchine a cui sono fiss
ate delle catene e delle manette. Un detenuto è seduto e ha dei tremori così forti che la testa gli sbatte continuamente sul muro; un agente chiede ad un “lavorante” di mettergli qualcosa dietro la testa e gli appoggiano un asciugamano per attutire i colpi. Lo portano in via in barella.


Prendiamo l’ascensore, all’interno c’è scritto in grande che i detenuti devono stare rivolti verso la parte posteriore, fissando il muro e dando le spalle all’ingresso. Ci spostiamo su un altro piano dove ci sono i
detenuti in attesa di essere classificati o declassificati, generalmente appartengono alla massima sicurezza. Qui le celle sono diverse, il letto a castello divide la cella in due ed è costruito in modo che sia anche una specie di separè, e ciascun detenuto abita metà dello spazio. Anche qui sono visibili i water, ma non c’è il telefono, l’unico disponibile è nel corridoio quindi l’accesso dipende dall’agente. Anche qui i detenuti si lamentano delle condizioni igieniche, delle docce, dell’impossibilità di radersi e della presenza di topi. Un ragazzo rumeno chiede assistenza per la pratica per la declassificazione, vuole tornare nella “popolazione comune” ma non sa come fare. Qui le celle mi sembrano ancora più buie.


Uscendo l’agente che ci accompagna, un signore piuttosto anziano, mi chiede “ti piace “casa” nostra?”. Gli dico che la cosa che immediatamente ho trovato più terribile è l’assenza di finestre. Lui mi spiega che prima c’erano ma poi le hanno tolte perché i detenuti lanciavano di sotto delle cose e altre persone (non ho capito chi) lanciavano oggetti di sopra, addirittura una pistola. Ho risposto C’mon, non ci credo che non sono riusciti a trovare un’altra soluzione che renderebbe la vita migliore anche a chi ci lavora. Non risponde e la mia in effetti non era una domanda.


Passiamo dall’ennesimo corridoio, non ho idea di dove siamo, una fila di detenuti addossati al muro aspetta di andare ad un processo; in un altro corridoio una ventina di detenuti sono seduti per terra, con la faccia rivolta verso il muro e un agente li chiama ad alta voce uno alla volta.


Prima di andare nella sezione ospedaliera, passiamo dalla sala riservata ai colloqui con gli avvocati. La mia espressione riflessa sul vetro della porta mi conferma che è proprio così, sto vedendo bene, come nelle migliori tradizioni dei film polizieschi i detenuti parlano attraverso un telefono da dietro uno spesso vetro. Mi giro a guardare Mary, che mi fa cenno con la testa come a dire “già…”. Mi giro verso l’agente con la stessa espressione e lui mi spiega che fino all’anno scorso il vetro era alto solo qualche decina di centimetri, ma ora l’hanno alzato fino al soffitto per evitare che si scambino droga. Chiedo conferma, chi? I detenuti e gli avvocati? Sì, mi dice, è già successo e quindi abbiamo alzato i vetri. Accidenti, dopo aver murato le finestre un altro miglioramento! ma tengo per me questo commento. Davvero pensavo che non esistesse più questa prassi, sono incredula. Prima ancora che una domanda davvero idiota esca dalla mia bocca (e cioè come mai prendano queste misure precauzionali con gli avvocati e non con le famiglie), mi si para davanti la risposta più ovvia. Certamente le stesse misure valgono anche per le famiglie: file di detenuti davanti a file di mogli e bambini, separati da un vetro comunicano con attraverso il telefono. L’ambiente non è rumoroso, oppure sono solo io che non sento rumori. Mary mi guarda, ma non è meravigliata della espressione attonita.


Dopo un veloce giro in infermeria in cui Mary si accerta che alcuni detenuti abbiano ricevuto i medicinali, passiamo nelle celle di chi è nella sezione ospedaliera. I detenuti hanno divise marroni e le celle sono stanze senza sbarre, con porte pesanti e uno spioncino. L’arredo è austero come nelle altre sezioni, letto, lavandino e water, anzi qui nemmeno un tavolino.


Ho la testa pesante, questa discesa agli inferi mi ha saturato. Mary vuole accertarsi che nella sezione transito non ci siano problemi. L’agente apre una pesante porta di ferro ed entriamo in una grande stanza con una ventina di letti a castello, quasi tutti occupati. Alcuni dormono, altri si lavano, per fortuna nessuno sta usando uno dei water nella stanza, la maggior parte non fa niente. Mi mantengo vicino alla porta: un agente con fare provocatorio, mi dice, avanti, almeno vai a dire ciao. Non sono intimorita sinceramente, ma ho ancora quella sensazione di pudore e imbarazzo dell’imporre la mia presenza nello spazio di qualcun altro. Entro, chiacchiero con qualcuno, un ragazzo russo di dice di aver origini italiane e allunga il braccio per farmi leggere il cognome italiano sul braccialetto. Mi mostra poi il succo all’arancia che gli fornisce il carcere, mi viene in mente che altri se n’erano lamentati. Mi fa notare che nella lista degli ingredienti non c’è traccia di arancia.


Un altro ragazzo mi fa notare un altro particolare inquietante: non ci sono orologi, da nessuna parte, i detenuti non sono autorizzati ad avere orologi e non essendoci finestre da nessuna parte non è possibile regolarsi con la luce del sole. Perché anche riservarsi la possibilità di controllare il tempo?


Chiedo all’agente ogni quanto i detenuti possono andare fuori e mi risponde una volta alla settimana per tre ore, possono andare sul tetto a fare esercizi. Mary mi spiega che solitamente gli agenti li fanno a uscire alle sei di mattina, motivo per cui non tutti vanno.


Sono passate circa due ore e mezza credo, andiamo, pass, carta d’identità e via. Fuori un sole accecante su un cielo più azzurro di sempre.


Francesca


1 commento:

Lilli ha detto...

ho trovato questa breve intervista con Angela Davis in cui parla di un suo nuovo libro sul sistema carcerario
www.blackademics.org
November 2006 Interview Angela Davis.htm
sembra interessante!