mercoledì, marzo 07, 2007

La vendetta degli sconfitti da Erba a Baghdad

di Marco Bascetta - da il manifesto


Cosa hanno in comune gli sterminatori adolescenti di Colombine e gli attentatori suicidi palestinesi, i coniugi assassini di Erba e i Talebani in Afghanistan? Hans Magnus Enzensberger, uno dei più brillanti intellettuali tedeschi del dopoguerra, azzarda una sua risposta: si tratta in tutti questi casi, pur così diversi e distanti tra loro, di «perdenti radicali» (Il perdente radicale, Einaudi, pp. 79, euro 8). Soggetti, cioè, che le vicende di un mondo globalizzato o localizzato, ma sempre fondato su una competizione senza esclusione di colpi, hanno messo fuori gioco, sospinto ai margini, privato agli occhi degli altri, e soprattutto ai propri, di ogni valore.
Ma a differenza del fallito che si rassegna alla propria sorte, del vinto che «si prepara alla prossima tenzone», «il perdente radicale si ritrae in disparte, diventa invisibile, coltiva il suo fantasma, raduna le proprie energie e attende la sua ora». L'ora della resa dei conti. Lucidando le armi in una stanza da adolescente o affilando il coltello in un appartamento di periferia, dove i passi del vicino e i pianti del neonato alimentano una rabbia sconfinata e irrefrenabile. Il perdente radicale non si limita a soffrire la miseria della sua condizione, se ne domanda anche la ragione
, cerca il colpevole e immancabilmente lo trova. Che si tratti dei vicini che trascinano le sedie sul pavimento o dello strapotere di una grande paese, del complotto internazionale o degli zingari accampati sull'altro lato del viale. Certo, nel suo sordo rancore e nel suo desiderio di vendetta, è un caso singolo, una anomalia, ma una anomalia che la contemporaneità riproduce in serie, moltiplica a ritmo vertiginoso andando a infoltire a dismisura le file dei perdenti radicali. Cosa accade allora quando questa molteplicità di sconfitte singolari incontra una comunità pronta ad accoglierla, una patria delle frustrazioni e un collante ideologico in grado di sfruttarne la potenza distruttiva e
autodistruttiva, i due lati inscindibili del perdente radicale?


L'io ferito


Per un intellettuale tedesco il pensiero non può che correre all'«onta» del trattato di Versailles, alla frustrazione del 1919, alla «congiura giudaico-bolscevica» contro il popolo germanico e al nazionalsocialismo che, capitalizzando il sentimento della sconfitta, conduce ineluttabilmente la Germania intera verso la guerra di sterminio e l'autodistruzione. «Volete la guerra totale?», tuonava Goebbels nel suo famoso discorso allo Sportpalast nel 1943, e l'adunata oceanica gridava il suo immancabile «sì» alla corsa collettiva verso la catastrofe. Verranno poi signori della guerra e movimenti armati, al centro del mondo e alla sua periferia, più o meno affetti dal fanatismo e dalla perdita di realtà, pronti a raccogliere gli sconfitti della storia o della vita quotidiana. Anche se in molti casi non tutto e non sempre può essere imputato al paradigma del perdente radicale e al suo difetto di razionalità politica. L'ingiustizia e lo sfruttamento non possono essere ridotti a semplici fantasmi dell'io ferito e la violenza a spirito di vendetta.
Oggi, sostiene Enzensberger, tramontata la stagione delle utopie rivoluzionarie, vi è un solo movi
mento all'altezza dei tempi, capace di mobilitare questo dispositivo su scala globale e con l'ambizione di coinvolgere grandi masse distribuite in numerosi paesi. Si tratta dell'islamismo. Esso dispone di tutte le leve necessarie per trasformare la moltitudine di perdenti che la globalizzazione dissemina lungo il suo cammino in una forza politico-militare dirompente. Innanzi tutto dispone della «frustrazione araba», quel sentimento, circonfuso dal mito dell'età dell'oro, che vive il declino secolare di una civiltà, che si era affacciata, vincente e innovativa sulle rive del Mediterraneo all'epoca del califfato, come una intollerabile sconfitta inflitta ai «credenti» dalle schiere sterminate e sopraffattrici degli «infedeli», coloro che «non credono in nulla», rinnovata dal colonialismo e dallo scambio ineguale.

Dispone poi del paragone, drasticamente sfavorevole, tra le condizioni di vita nelle società arabe e quelle opulente dell'occidente.


Tolleranza revocata


Ma non solo, altre società, altri grandi paesi, già vittime della colonizzazione o di invasioni straniere, si pensi all'India, alla Cina, al sudest asiatico, presentano una dinamica di sviluppo senza paragoni con il mondo arabo. Né il nazionalismo, né il socialismo d'importazione, né le improbabili e mutile esperienze di democrazia parlamentare hanno saputo smuovere questa secolare stagnazione. La ricchezza del petrolio ha mantenuto le élites arabe nella pigra condizione del rentier e le masse in quella di clientele più o meno insoddisfatte. Le une e le altre inclini a ignorare i fattori endogeni di questo declino e a enfatizzare la potenza oppressiva del nemico (l'America, Israele, il materialismo ateo dell'Occidente). Qui sarebbe una intera società, o addirittura una intera civiltà, ad avere sviluppato il sentire del perdente radicale, tenuto insieme e potenziato da una religione strettamente intrecciata con il costume e la politica, di cui costituisce la fondazione stessa.
Tuttavia, argomenta Enzensberger, l'islamismo non può vincere la sua «guerra totale», ponendosi come obiettivo dichiarato il califfato planetario e la distruzione di tutti gli infedeli. E dunque finirà col volgere, come già il terzo Reich, la sua volontà di distruggere l'avversario in autodistruzione. Una intera civiltà starebbe dunque correndo verso il suicidio e l'autoannientamento, non senza imporre per lungo tempo e al mondo intero una condizione di insicurezza e di minaccia capace di revocare tolleranza, diritti e libertà anche nel cuore dell'occidente democratico. E, il destino singolare dell'attentatore suicida, di questa generale tragedia costituirebbe al tempo stesso il prodotto e la premessa, nonché il distillato più puro.

Il ragionamento è suggestivo e non privo di verità, tuttavia, privilegiando il livello delle mentalità e delle autorappresentazioni, non da conto della razionalità, sia pure una razionalità perversa, che aldilà di ogni roboante proclama, continua a misurare i mezzi con i fini. E se pure l'ideologia islamista dichiara una guerra santa planetaria e infiamma le masse con le sue visioni apocalittiche, non per questo non guarda a più concreti e perseguibili obiettivi (come gli equilibri politici nel mondo arabo, la difesa delle vecchie gerarchie dagli effetti della modernizzazione, o lo spazio di autonomia e di potere dell'immigrazione islamica nel mondo), per raggiungere i quali non disdegna astuzie e compromessi. Ma, se pure ci atteniamo all'impianto classicamente kulturgeschichtlich proposto da Enzensberger, c'è qualcosa che non quadra. La figura del perdente oscilla, si sottrae a una precisa delimitazione, ma soprattutto molti dei suoi connotati entrano a far parte in forma più o meno intensa e politicamente dirompente di soggetti che perdenti non sono affatto.

Rischia insomma di riguardare indistintamente tutti «perché il vincente definitivo non può esistere» o di lasciar fuori buona parte delle sorgenti, razionali e irrazionali, della violenza che pervade il nostro tempo. Essendo la violenza non una attività onanistica, ma una relazione. Così, l'argomentazione di Enzensberger coglie con acume ciò che alligna nel campo islamista, ma lascia in ombra ciò che accade dall'altra parte.


Il declino dell'Occidente


Su questo versante, abbandona, infatti, l'esame dell'autopercezione soggettiva, delle mentalità, degli stati d'animo e delle ideologie, denunciando invece i fattori oggettivi: il capitalismo, l'impero, la globalizzazione, la concorrenza, i rapporti di forza nel mercato, che moltiplicano vertiginosamente il numero di coloro che soccombono, la massa dei perdenti. Come se l'universo politico fosse diviso in un campo illuminato dal pensiero razionale, compresi i suoi aspetti malvagi e devastanti, e un altro campo, quello dei perdenti, dove l'irrazionalità autodistruttiva domina rappresentazioni e comportamenti. Tuttavia, l'Occidente è a sua volta afflitto da un senso di minaccia incombente che lo spinge alla ricerca di un collante ideologico, a scapito della molteplicità e della diversificazione che ne contraddistinguono la storia,nonché del suo celebrato razionalismo, fino ad invidiare al mondo islamico la potenza del suo integralismo.

Su questo punto il pontefice tedesco non teme di essere esplicito: di fronte alla forza assoluta della fede islamica, l'Occidente relativista, tollerante e incline a passare i «valori» al vaglio della democrazia è «perdente». Solo restaurando la certezza assoluta di un sistema di valori resistenti ad ogni compromesso esso potrà vincere la sfida. Solo il discorso identitario e il richiamo alle radici «cristiane» potrà rimuovere la fragilità che sottende la forza economica tecnologica e militare delle democrazie occidentali. Perdente l'Occidente si percepisce sul piano demografico, perdente nella ragionevole convinzione che non potrà salvaguardare all'infinito i suoi privilegi, la sua opulenza, il suo tenore di vita, tagliando fuori la maggior parte dell'umanità, perdente di fronte al flusso inarrestabile dell'immigrazione. E la minaccia si traduce in una chiamata alle armi, vede ovunque moltiplicarsi il numero dei nemici, taglia corto con le finezze garantiste della democrazia e dello stato di diritto.
Sul piano interno, l'allarme sociale, le dilaganti politiche securitarie, l'insofferenza per ogni accenno alle cause sociali della devianza e del crimine (la colpa starebbe tutta e solo nella volontà malvagia del criminale) inducono il cittadino occidentale a considerarsi vittima potenziale e bisognosa di protezione dall'incombere di una violenza pervasiva e indeterminata. E questa propensione a considerarsi, prima di ogni altra cosa, come una «vittima potenziale» potrebbe essere considerata, senza eccessive forzature, una sorta di sentire da «perdente preventivo». Per queste
ragioni, più del paradigma del perdente radicale evocato da Enzensberger, è un'altra categoria quella che mi sembra meglio tenere insieme le diverse forme contemporanee dell'inimicizia, nonché la dimensione individuale e quella collettiva: il «risentimento».


Lo spirito di vendetta


Il risentimento, non privo di una connotazione moraleggiante, prende di mira, come una colpa, l'altrui benessere, assimila ricchezza a corruzione. Coltiva lo «spirito di vendetta», elegge la propria condizione di disagio a unità di misura, considera la diversità (quando non riesca a plastificarla nell'ideologia del «politicamente corretto») come un affronto o una minaccia. E', come aveva ben visto Friedriech Nietzsche, il lato oscuro, sordido, maligno, del desiderio di uguaglianza, la malattia, tutta occidentale e «giudaico-cristiana», del socialismo e della democrazia. La pretesa di moralità del risentimento lo imparenta direttamente con le dottrine religiose e con tutto l'armamentario concettuale della «personalità autoritaria». Ma esso non scaturisce da una sconfitta, da una caduta. L'insofferenza, l'invidia, l'idea che altri godano di benefici immeritati, che qualcuno abbia violato il principio di prestazione o la sacra legge dello scambio di equivalenti sono più che sufficienti ad alimentarlo. L'immigrato, il collega «nullafacente», la gioventù chiassosa, l'ebreo, il ladruncolo, la prostituta, sono lì a insidiare il nostro modo di vita, a «toglierci qualcosa». Il risentimento penetra in modo capillare la politica contemporanea, attraversa oriente e occidente, permea la democrazia, viene chiamato a mobilitare gli uomini armati di cinture esplosive, così come i cittadini armati di scheda elettorale.

Funziona nella dimensione globale della guerra (dalla ex jugoslavia all'Iraq) così come nella microfisica della violenza privata. E'il risentimento che tiene insieme i coniugi assassini di Erba e i «martiri» di Al Qaeda, il razzismo della lega lombarda e l'antisemitismo arabo, Oriana Fallaci e gli ideologi dell'integralismo islamico, gli elettori di G. W Bush e quelli di Ahmadinejad, i teppisti dello stadio e i benpensanti della «tolleranza zero», i vincenti e i perdenti, i primi e gli ultimi. I poteri grandi che governano il mondo e quelli piccoli che ne governano pezzi, i pastori del gregge e gli strateghi del capitale, lo sanno bene e se ne servono a piene mani.

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