martedì, giugno 12, 2007

Da Rostock a Roma?

di Benedetto Vecchi - da neurogreen

Il corteo contro la visita di Bush è stato un bel corteo che ha tutte le potenzialità di dare corso a quel movimento sotterraneo di presa di congedo dal centrosinistra per chiudere con quella retorica, suicida politicamente, sulla presenza di un governo amico che va criticato, ma
non fino al punto di metterlo in crisi. Il corteo di sabato non porta allo scoperto solo la crisi di Rifondazione, bensì accelera lo sfretolamento del centrosinistra tutto. La destra può anche guardare con soddisfazione l'evanescenza del partito democratico, la velleità della sinistra democratica e la lingua biforcuta di Rifondazione, ma è cosa certa che il prossimo edifico a cadere sarà proprio la Casa delle Libertà.

Ma torniamo al quesito iniziale. La vicinanza temporale con la contestazione al G8 di Rostock fa affermare che c'è continuità tra ciò che si è visto e letto sulle
giornate tedesche e la manifestazione di sabato scorso. La continuità che io vedo tra Rostock e Roma è il cambiamento della geografica politica, culturale, sociale del movimento. A mo' di premessa: il movimento no global è un'araba fenice che viene data per morta, per poi risorgere con modalità e caratteristiche però differenti. E' indubbia la sua crisi dopo l'inizio della guerra in Iraq che nel vecchio continente ha portato alla scomparsa o all'implosione di molte organizzazioni considerate determinanti alla sua crescita. Mi riferisco ad Attac o agli Confederation Paysenne in Francia, ma anche alle convulsioni che hanno segnato la breve stagione di Attac in Italia o il ritono alle compatibilità dettate dal sistema politico per l'Arci o la Cgil. Ma anche alla crisi dell'esperienza dei disobbedienti. Nel resto del mondo, visto che è un movimento globale, le dinamiche sono state diverse e vanno analizzate cercando di coniugare le specificità nazionali con un quadro mondiale in forte fibrillazione. Il movimento globale è tuttavia da considerare uno spazio di politicizzazione dei rapporti sociali che ha dinamiche, modi d'essere, stili di enunciazione, culture politiche, modelli organizzativi in perenne mutamento. Che nel vecchio continente la crisi delle organizzazioni stava cedendo il passo a qualcos'altro era nell'aria. Possiamo citare la contestazione al G8 in Svizzera, in Inghilterra, lo stesso forum sociale europeo di Atene, ma il dato politico che emerge da questi ultimi, difficili anni è inequivocabile: il movimento coltiva la sua autonomia come un bene comune da salvaguardare. Che poi questo ha significato una diversa articolazione della sua presenza nell'arena politica è un dato su cui riflettere attentamente. Per questo motivo, va discussa a fondo la lettura che alcune aree del movimento hanno dato della sua crisi, come fine e inizio di un nuovo ciclo. Continuo a pensare il movimento come uno spazio di politicizzazione dei rapporti sociali, senza per questo nascondere aporie e crisi che lo ha caratterizzato.
Questo movimento ha di fronte a sé un cambiamento radicale del neoliberismo che vede sì la sconfitta militare degli Stati uniti in Iraq, ma non sa proporre altra weltanshauung dei rapporti sociali. Basti solo ricordare le politiche enunciate dal G8 di Rostock sul libero commercio e sulla trasformazione dei beni comuni in materie prime di una accumulazione capitalistia che vede convivere brutale sfruttamento da accumulazione primitiva e retorica sulle classi creative. Né credo che un cambio nell'amministrazione statunitense coincida con una inversione di tendenza. Detto più esplicitamente. I democratici di Hilary Clinton o di Barack Obama punteranno sicuramente a un disimpegno militare degli Stati uniti dall'Iraq, ma dubito che punteranno a una deglobalizzazione dell'economia statunitense.
Come è noto, è stato Walten Bello, cioè un nostro compagno, che ha lanciato la parola d'ordine della deglobalizzazione. Per Bello, la deglobalizzazione coincide con la crescita di forti economie regionali sovranazionali che definiscono certo i criteri della propria interdipendenza all'interno però di una forte cornice intessuta di diritti sociali, del lavoro e civili e da una società civile organizzata che è promotore e protagonista del conflitto per modificare i rapporti di forza all'interno delle società nazionali. La sua è un aproposta "riformista", ma dubito che i democratici la possano far propria. Né credo che vogliano cercare consigli presso l'ex-ministro del lavoro dell'era Clinton Robert Reich, né presso Paul Krugman, due economisti che si sono caratterizzati per una critica a tratti feroce del neoliberismo. Reich, dal canto suo, propone la valorizzazione della cosiddetta economia dot.com coniugata con un welfare state di ascendenza europea, mentre Krugman propone un ritorno al keynesimo old fashion. In entrambi i casi, i democratici dovrebbero fare i conti con la distruzione delle capacità innovative dell'economia statunitense favorita dal neoliberismo.

Anche qui, serve chiarezza: il neoliberismo imbriglia l'innovazione negli Usa attraverso le leggi sulla proprietà intellettuale, ma "saccheggia" il sapere e la conoscenza nel resto del mondo all'interno di un circolo virtuoso che favorisce la diversità delle formazioni sociali. I democratici si apprestano sicuramente a togliere la presidenza ai neocon senza però avere nessuna idea su come far tornare leader gli Stati uniti. D'altronde siamo davvero oltre la distinzione tra sviluppo e sottosviluppo. E da questo punto di vista, la Cina è da considerare il futuro del capitalismo, con le sue capacità di modulare continuamente le gerarchie sociali e economiche al suo interno attraverso la commistione di neoliberismo selvaggio, zone d'eccellenza
in cui è cresciuta la cosiddetta classe creativa e un forte dirigismo politico dal segno autoritario. Se ha senso, come credo, parlare di impero più che agli Stati uniti dovremmo semmai guardare a quanto avviene tanto nelle regioni speciali cinesi che nei conflitti e le rivolte attorno la riforma della terra nel paese che fu di Mao. Per questo, non credo che i democratici statunitensi possano determinare una inversione di tendenza. La necessità di gurdare al contesto globale è data anche dalle dinamiche sociali e politiche che hanno terremotato l'America latina. Occorre però sfuggire alle sirene, mefitiche, di un termondismo che ragiona ancora sul lei motiv suicida del "nemico del tuo nemico è tuo amico".

Un marxista abbastanza tradizionale come Tariq Ali
ha scritto che il fondamentalismo islamico è cugino prossimo di quello dei teo-con statunitensi. Proporrei di essere più radicali: sono due fondamentalismi che confliggono sull'assetto di potere all'inteno del capitalismo globale. Sono cioè due modelli di governance dell'impero in conflitto tra loro. La resistenza irachena avrà pure messo in crisi la strategie della guerra permanente, ma credo che gli insorti iracheni siano le truppe d'assalto di un modello specifico per quanto velleitario di governance dell'impero.
E il movimento in Europa? Non so se è convincente quanto scrivono alcuni compagni sull'emersione di un'attitudine pink o di black resistance, vera novità emersa a Rostock che ha la forza di imprimere radicalità all'azione del movimento. E' certo che il "mare nero" come l'ha chiamato Alex Foti si è trovato a stretto contatto con l'attitudine pink e che il loro incontro ha inciso profondamente nelle mobilitazioni contro il G8. Ma ritengo che tanto la black resistance che i pink abbiano molto a che fare con quella crisi del neoliberismo di cui tutti vediamo le conseguenze senza riuscire a vedere quali siano i suoi punti di rottura. Inoltre, l'Europa che si sta profilando all'orizzonte non ha nulla a che vedere con quanti hanno considerato il processo costituente dell'Europa politica come uno spazio politico da attraversare, bensì come un dispositivo politico e normativo che punta a collocarla, da protagonista, in quella multilevel governance che sta prendendo forma sotto i nostri occhi. Mi sembra cioè che quello spazio politico mostri il volto arcigno di Sarkozy o di Merkel o di Prodi, cioè di una concezione del vecchio continenente come componente appunto di quel governo globale in via di ristrutturazione dopo la crisi, ormai irreversibile, di Wto, Fmi e Banca mondiale.
Uno sfondo che era presente anche nella manifestazione di Roma, inutile negarlo. Che il movimento abbia riaffermato la sua autonomia è stato il passaggio obbligato (la cura di un bene comune) per articolare un'agenda politica che tenga insieme dinamiche globali e contesto locale. C'è Vicenza, certo. C'è la Tav, certo. Ci sono le decine di comitati che esprimono il no a questo o quel tema. Anche questo è vero. Sono la colonna vertebrale del movimento? Su questo sarei molto cauto. Va ricordato che sono mobilitazioni che puntano a difendere questo o quel bene comune (l'acqua, la partecipazione popolare) o per contrastare l'uso capitalistico del territorio, ma solo in casi rari (la Tav, sicuramente) riescono a tessere la tela di una lettura che tenga insieme il locale e il globale. E tuttavia sono mobilitazioni del tutto afasiche su quella guerra a bassa intensità che il neoliberismo ha combattutto contro la "materia grigia" messa al lavoro. Più precisamente, la guerra combattuta contro la cooperazione sociale produttiva, contro la libertà di movimento della forza-lavoro. Una guerra segnata da precarietà e da inediti stati di sospensione del diritto che sono i cpt. E dunque una guerra condotta per riprendere il controllo su una cooperazione sociale produttiva riottosa alle gerarchie e al comando capitalistica che ha provocato però l'impoverimento proprio di quella forza-lavoro postfordista che ha costituito la base materiale del neoliberismo.
Da qui le tante forme di resistenza che hanno provocato quel mutamento della geografia sociale, politica e culturale del movimento. Forme di resistenza capaci di esprimere radicalità, ma anche di indisponibilità a svolgere un ordine del discorso che si misuri con la posta in gioco. Per brevità e semplificando: dalle banlieue a Rostock a Roma il filo rosso che lega l'insorgenza del movimento è allo stato attuale un netto: "avrei preferenza di no".

Da qui dobbiamo partire. Da qui, il discorso deve arricchirsi della presa di parola di noi tutti e di quelli che, magari, esprimono la loro radicalità in altre forme.

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