giovedì, ottobre 18, 2007

Le genealogie in ombra del knowledge worker

Benedetto Vecchi

Un libro che invita a pensare il conflitto di classe nel capitalismo contemporaneo dove la guerra contro la middle class è parte della campagna di annientamento politico del lavoro in tutte le sue determinazioni.

Dopo dieci anni dalla pubblicazione del volume collettivo sul lavoro autonomo di seconda generazione, Sergio Bologna torna sulla scena del delitto per continuare a sbrogliare la matassa sulle forme del lavoro contemporaneo. Non che se ne fosse mai di molto allontanato. A leggere i saggi contenuti ne Ceti medi senza futuro? scopriamo infatti una costante attenzione e riflessione attorno a questo tema che Sergio Bologna ha svolto all’interno del progetto di Luhmi, la libera università di Milano e del suo hinterland, della rivista di ispirazione fortiniana l’Ospite ingrato, oppure in riviste più «istituzionali», convegni, anche se ci sono scritti che portano la dicitura «memorizzato nel computer in data ....».

Va subito detto che Ceti medi senza futuro? è un libro ambizioso. Di fronte alle tesi prevalenti sul costante declino del lavoro autonomo, Bologna controbatte affermando che le statistiche non sono mai neutre e che occorre un lavoro di «decostruzione», evidenziando la concezione del lavoro che hanno alle spalle. Da qui la tensione polemica con autori, filoni di ricerca che alimentano la sociologia del lavoro mainstream, tanto nella variante apologetica della realtà contemporanea che in quella che trasuda nostalgia per il passato della occupazione a tempo indeterminato. I saggi che ricostruiscono la figura del knowledge worker, tra i più avvincenti del volume, vanno collocati proprio in questo lavoro di «decostruzione» ed esprimono un percorso d ricerca che ha privilegiato autori spesso rimossi nella discussione pubblica attuale, come quando ricostruisce il vivace dibattito nella Germania weimariana attorno ai «lavoratori intellettuali», vero buco nero nella sinistra tanto socialdemocratica che comunista di allora. Si parte, dunque, dai conflittuali anni Venti tedeschi per poi spostarsi, seguendo il flusso degli intellettuali in fuga dal nazismo, negli Stati Uniti, dove tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta il futuro guru del management Peter Druker parla del knowledge worker non come «classe generale», ma come «classe che guida lo sviluppo capitalistico».

Il dialogo con la differenza sessuale

E a chi sostiene che in questi anni c’è stata una diminuzione del lavoro autonomo di seconda generazione, l’autore risponde che non si possono conteggiare solo i contratti di collaborazione continuativa. Ai co.co.co o alle consulenti, va aggiunta quella moltitudine di piccole imprese cresciuta in questi dieci anni. Imprese davvero «atipiche», visto che spesso sono composte da un datore di lavoro e uno, due dipendenti. Per Bologna più che di impresa si deve infatti parlare di lavoro autonomo che ha caratteristiche che nulla hanno a che vedere con le professioni liberali tradizionali, né con il commercio al minuto, né con la figure del coltivatore diretto. È una forza-lavoro che garantisce il coordinamento della produzione capitalista diffusa nel territorio, vera interfaccia cognitiva tra i diversi nodi dell’impresa a rete capitalistica. Svolge infatti mansioni con un livello medio-alto di competenze tecnico-scientifiche, ma soprattutto deve far leva su capacità relazionali per creare il contesto in cui la cooperazione produttiva innovi tanto il processo lavorativo che il prodotto. Da qui il saggio, di felice equilibrio tra ricostruzione storica e analisi dei processi in atto, sulla logistica. Da qui il dialogo serrato che Sergio Bologna ha intrattenuto in questi anni con la Libreria delle donne di Milano, comunità intellettuale che ha prodotto molti materiali di riflessione sulla «femminilizzazione del lavoro». La proverbiale vis polemica dell’autore si scaglia contro anche coloro che parlano e scrivono di precarietà in termini di crescente pauperismo della forza-lavoro, ricordando le genealogie - la fuga al tramonto degli anni Settanta dal lavoro sotto padrone o l’espulsione dalla grande fabbrica in fase di ristrutturazione capitalistica - del lavoro autonomo di seconda generazione.

Nel lavoro autonomo di seconda generazione troviamo tuttavia quell’ambivalenza che ha sempre caratterizzato il rapporto che uomini e donne hanno avuto con il lavoro nel capitalismo. Da una parte, ricerca di autonomia, affermazione, critica dello sfruttamento; dall’altra le forme del comando capitalistico su di esso. In questa ambivalenza, il lavoro autonomo di seconda generazione rifiuta «il posto fisso», ma al tempo stesso sperimenta ciò che lo stesso autore non esista a chiamare sfruttamento capitalistico. Allungamento della giornata lavorativa; costante riduzione dei compensi; ricatti da parte del «committente», quasi sempre un’impresa tipicamente capitalistica, un prelievo fiscale articolato secondo una logica neoliberista in base alla quale il lavoratore autonomo è un imprenditore di se stesso: sono questi gli elementi che caratterizzano la costituzione materiale del lavoro autonomo di seconda generazione. E dunque: quali forme di organizzazione, di lotta il lavoratore autonomo così specificato deve dotarsi e mettere in campo per conseguire un sistema di diritti che gli è precluso?

Oltre l’estetica della rivolta

Bologna invita a guardare ad alcune esperienze statunitensi, in particolare alla union dei free lance di New York, di come si è costituita attraverso Internet, di come sia riuscita a raggiungere ad un accordo con le compagnie di assicurazione sull’assistenza sanitaria, per poi porre il problema «politico» sul rispetto del pagamento della prestazione lavorativa, sul diritto alla maternità per le donne. E allo stesso tempo, serve una coalizione con il precariato diffuso. Le pagine che l’autore dedica all’esperienza della MayDay sono dettate da un’urgenza politica, che non nasconde però le differenze. E se la MayDay innova l’«estetica della rivolta» e di dunque di comunicazione politica attorno alla precarietà, spesso le loro rivendicazioni, sostiene Bologna, hanno come orizzonte un certo tipo di precari (della grande distribuzione, ma anche della grandi imprese della logistica) ma non hanno nulla da dire ai lavoratori autonomi di seconda generazione. Una differenza non da poco, ma che, si potrebbe aggiungere, può diventare una ricchezza della coalizione se diviene parola pubblica, anzi presa di parola tanto del precariato diffuso che dei lavori autonomi di seconda generazione. Ma anche di quei salariati tradizionali che spesso svolgono una prestazione lavorativa che non è poi così lontana dai lavoratori autonomi di seconda generazione.

Guerra contro la middle class

Un libro denso, che si presta a molte chiavi di lettura. Sarebbe ingeneroso non ricordare i saggi dedicati all’operaismo, a Danilo Montaldi, a Bartok, a «musica e democrazia», piccoli gioielli di un fare storia che non si accontenta della storia ufficiale e che meriterebbero ben altro spazio. Un libro come si è detto ambizioso, in particolare quando sottolinea la necessità di una risposta politica quella che potremmo chiamare la campagna di annientamento contro la middle class operata dalle istituzioni del capitalismo neoliberista (stati nazionali e organismi sovranazionali, partiti conservatori e partiti progressisti). Ma più che solo contro la middle class, appare una campagna politica di annientamento contro il lavoro sans phrase. Dunque contro i tempo indeterminato, i precari, gli autonomi di seconda generazione. E se di coalizione si deve parlare va quindi riconosciuto che a differenza del passato non c’è più un settore strategico della forza-lavoro (l’operaio-massa dell’impresa fordista), né la «classe guida dello sviluppo» (il knowledge worker di Peter Drucker), né il precario, figura equiparata spesso al proletario ottocentesco, bensì il lavoro vivo in tutte le sue determinazioni. Sergio Bologna lancia però la proposta di una autorganizzazione del lavoro autonomo di seconda generazione. È la scommessa da raccogliere una volta letto il libro.

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