sabato, ottobre 25, 2008

martedì, ottobre 14, 2008

David Foster Wallace: noi dobbiamo essere i genitori

"Review of Contemporary Fiction", estate 1993

Questi ultimi anni dell'era postmoderna mi sono sembrati un po' come quando sei alle superiori e i tuoi genitori partono e tu organizzi una festa. Chiami tutti i tuoi amici e metti su questo selvaggio, disgustoso, favoloso party, e per un po' va benissimo, è sfrenato e liberatorio, l'autorità parentale se ne è andata, è spodestata, il gatto è via e i topi gozzovigliano nel dionisiaco. Ma poi il tempo passa e il party si fa sempre più chiassoso, e le droghe finiscono, e nessuno ha soldi per comprarne altre, e le cose cominciano a rompersi o rovesciarsi, e ci sono bruciature di sigaretta sul sofà, e tu sei il padrone di casa, è anche casa tua, così, pian piano, cominci a desiderare che i tuoi genitori tornino e ristabiliscano un po' di ordine, cazzo...

Non è una similitudine perfetta, ma è come mi sento, è come sento la mia generazione di scrittori e intellettuali o qualunque cosa siano, sento che sono le tre del mattino e il sofà è bruciacchiato e qualcuno ha vomitato nel portaombrelli e noi vorremmo che la baldoria finisse. L'opera di parricidio compiuta dai fondatori del postmoderno è stata importante, ma il parricidio genera orfani, e nessuna baldoria può compensare il fatto che gli scrittori della mia età sono stati orfani letterari negli anni della loro formazione. Stiamo sperando che i genitori tornino, e chiaramente questa voglia ci mette a disagio, voglio dire: c'è qualcosa che non va in noi? Cosa siamo, delle mezze seghe? Non sarà che abbiamo bisogno di autorità e paletti? E poi arriva il disagio più acuto, quando lentamente ci rendiamo conto che in realtà i genitori non torneranno più - e che noi dovremo essere i genitori.


venerdì, settembre 19, 2008

mercoledì, settembre 10, 2008

Il brevetto del nuovo capitale - Parte I

di Marcello Cini
da il manifesto - 09 settembre 2008

Condivido tuttora, nonostante l'attuale diaspora della sinistra, la domanda che Claudio Fava aveva posto a Chianciano con chiarezza: «Abbiamo paura di impegnarci nella costruzione di una sinistra che sappia finalmente elaborare le culture del comunismo e del socialismo per proporne una sintesi originale? Qualcuno di noi è così miope da vivere questa sfida culturale e politica, che forse prenderà il tempo e lo spazio di una generazione, come un tradimento ai sacri luoghi delle nostre identità? O pensiamo davvero che tra dieci o vent'anni ci saranno ancora, in questo paese, una sinistra cosiddetta 'socialdemocratica' e una sinistra cosiddetta 'comunista', ciascuna gelosa custode delle proprie liturgie e della propria storia? Un nuovo soggetto politico di sinistra non soffocato dall'ornamento dei propri aggettivi è solo una favola ce ci raccontiamo o è realmente una sfida che ci mette tutti (tutti!) in discussione?». Penso ancora che il dibattito su come iniziare a costruire gli strumenti che possono contrastare l'offensiva travolgente che il capitalismo del XXI˚ secolo sta portando avanti contro i popoli della Terra dovrebbe avere la priorità. Temo invece che l'obiettivo della ricostruzione di una sinistra senza aggettivi non sia ancora percepito nella sua urgenza. Certo non si potrà affrontarlo finché ognuno intende presentarsi all'appuntamento con la pretesa di usare la propria cassetta di attrezzi ereditata dal bisnonno. Proverò in questo testo- diviso in due parti - a elencare alcune differenze, secondo me essenziali, tra il capitalismo del XX˚ e quello del XXI˚ secolo sulle quali bisognerebbe costruire questo discorso comune.

Profitto «intangibile»
La prima differenza investe il modo di produzione della ricchezza. Essa è rappresentata dalla tendenza, suffragata da fatti sotto gli occhi di tutti, a fondare sempre più la formazione del profitto nel processo di accumulazione del capitale sulla produzione di merci non tangibili (non solo conoscenza, informazione, saperi, formazione, ma anche comunicazione, intrattenimento e addirittura modelli di vita). Non voglio dire che la produzione di merci materiali sia diventata inessenziale o quantitativamente secondaria, ma insisto che la produzione delle merci necessarie al soddisfacimento dei bisogni crescenti della popolazione umana è sempre più impregnata in ogni suo interstizio e resa concretamente possibile da una sempre maggiore e indispensabile componente non tangibile di conoscenza. L'obiettivo principale del capitalismo odierno è dunque di negare la differenza sostanziale tra la natura dei beni materiali e quella dei beni immateriali, nascondendo la proprietà fondamentale di questi ultimi che, contrariamente a ciò che accade per i beni materiali, è quella di poter essere goduti da parte di un «consumatore» lasciando intatta la possibilità che innumerevoli altri facciano altrettanto. Il «consumatore» dunque in realtà non «consuma» il bene di cui fruisce che può continuare a essere a disposizione di tutti. La differenza non investe soltanto la fase del «consumo», ma anche quella della produzione. Mentre per l'operaio della fabbrica di merci materiali (nelle sue fasi successive dal fordismo al toyotismo) la categoria marxiana di lavoro astratto, misurabile quantitativamente, rappresentava tutto sommato la sostanza del rapporto capitale lavoro (e comunque stava alla base dell'analisi di Sraffa sulla «produzione di merci a mezzo di merci»), per il lavoratore della fabbrica delle parole (folgorante a questo proposito il film di Virzì sulla vita degli operatori dei call-center che vale più di tanti corposi saggi) la categoria della qualità caratterizza inevitabilmente il lavoro di ogni individuo. La differenza é sostanziale. Nel primo caso gli operai si sentivano oggettivamente e soggettivamente uguali, e dunque solidali tra loro. Si contrapponevano al capitale attraverso sindacati e partiti di classe. Nel secondo ogni lavoratore compete con gli altri con tutti i mezzi per sopravvivere. L'individualismo e la solitudine sono la regola. Questo spiega tante cose: in primo luogo la vittoria di Berlusconi. Il discorso andrebbe approfondito, e io non sono in grado di farlo: mi stupisce però che chi dovrebbe saperne più di me non lo faccia.

La Terra al collasso
La seconda differenza fondamentale è la scoperta dei limiti fisici dell'ecosistema terrestre. Sono rimaste inascoltate, e addirittura accusate di terrorismo intellettuale, fino a due o tre anni fa le grida d'allarme (che risalgono agli anni 70) dei primi ambientalisti, intesi a richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica mondiale sui sintomi dell'incipiente degrado che avrebbe investito il pianeta, nonostante che esse siano state via via rafforzate per trent'anni da fatti incontrovertibili e da analisi rigorose. Soltanto da un paio d'anni gli scienziati dell'IPCC (l'organismo delle Nazioni Unite per lo studio del cambiamento climatico) sono arrivari alla conclusione - ormai finalmente condivisa dalla maggior parte della comunità scientifica internazionale e fatta propria anche dai maggiori esponenti politici della Comunità Europea - che interventi concreti massicci e urgenti sono necessari per contrastare l'aumento dell'effetto serra e della temperatura globale del pianeta e impedire le sue conseguenze devastanti. Conseguenze del resto previste e quantificate nel notissimo rapporto redatto dal principale consulente economico di Tony Blair, Nicholas Stern, nel quale si prevede che, se si continua a non intraprendere alcuna azione significativa per ridurre l'emissione di CO2 nell'atmosfera, i danni del riscaldamento globale potranno arrivare nel giro di dieci, al massimo venti anni, a un tasso annuo tra il 5% e il 20% del Pil globale. Una cifra da confrontare con una spesa attorno all'uno per cento in misure preventive da iniziare subito. Non insisterei su questo argomento che è ormai ben noto, se non fosse per l'incomprensione da parte della tradizione comunista di questo processo, incomprensione che costituisce purtroppo una pesante palla al piede della sinistra.

La scienza «a servizio»
La terza differenza riguarda la scienza. Nell'immaginario collettivo la scienza ha assunto un peso enorme, carico da un lato di aspettative, e dall'altro di paure. Per capirne l'origine occorre rendersi conto che anch'essa ha subito un profondo mutamento. Esso consiste nel suo passaggio dal modello galileiano e newtoniano di conoscenza delle proprietà e della struttura della materia inerte, fondato sulla ricerca delle leggi generali e immutabili della natura che ne sarebbero la causa prima, al modello di conoscenza delle proprietà della materia vivente e della mente umana fondato sul riconoscimento dell'unicità di ogni processo nel quadro dei principi dell'evoluzione darwiniana e dell'autorganizzazione dei sistemi complessi. Non c'è più dunque una scala gerarchica di attività separate e distinte che vede al vertice una scienza «pura» come scoperta disinteressata e autonoma delle leggi generali della natura, dalla quale nasce una tecnologia che ne applica i risultati per creare oggetti destinati a fini utili, e a sua volta li consegna all'economia perché investa le risorse necessarie a immetterli nel modo più efficiente e profittevole sul mercato. Queste tre fasi si intrecciano strettamente tra loro. Molti scienziati seri e disinteressati, impegnati in un lavoro di ricerca «di base», che non si pone l'obiettivo immediato di ottenere risultati da immettere sul mercato, negano che questa svolta sia così radicale e sostanziale, e auspicano comunque che la barriera tra scienza e tecnologia venga ripristinata e rafforzata. Secondo me si tratta di una illusoria aspirazione a tornare ai bei tempi passati, che ignora il carattere irreversibile della trasformazione che ha investito il tessuto sociale negli ultimi due o tre decenni. Una trasformazione che non solo deriva dalla differenza epistemologica tra la scienza delle leggi e le scienze dei processi alla quale ho appena accennato, ma che ha anche una causa precisa: la deliberazione della Corte suprema degli Stati uniti del 1980 sulla brevettabilità degli organismi geneticamente modificati. Da quel momento in poi si brevetta tutto: qualsiasi pezzo di materia vivente e qualunque idea venga partorita da una mente umana.

«Lecito» e «illecito»
Oltre alla differenza sul piano epistemologico che abbiamo appena discusso, si è prodotta con il passaggio dalle scienze della materia inerte a quelle della vita e della mente una differenza radicale sul piano dell'etica professionale degli scienziati, e più in generale dell'etica pubblica. Una cosa è infatti manipolare, controllare, forgiare un oggetto fatto di materia inerte e altra cosa è compiere le stesse operazioni su un organismo vivente o addirittura sull'uomo. Lo sgretolamento della barriera tra fatti e valori sta accendendo un conflitto per l'egemonia nella società fra chi ritiene che soltanto perseguendo un crescente dominio razionale sui fatti e sulle relazioni che li connettono sia possibile affrontare i problemi della vita umana e della convivenza sociale e chi pretende di essere depositario e amministratore di valori assoluti di origine trascendente in grado di regolamentare ogni aspetto dei comportamenti umani. Ma la scoperta che inevitabilmente la scienza si trova ad avere a che fare con giudizi di valore porta la religione ad appropriarsi del diritto di decidere in merito con la scusa che la religione ha il monopolio della morale. Sappiamo tutti che questa è la pretesa del papa Benedetto XVI. E' una intrusione indebita, come hanno ampiamente dimostrato pensatori come Jurgen Habermas, Hans Jonas, e giuristi come Gustavo Zagrebelski. Deve essere tuttavia ben chiaro che la battaglia per l'autonomia della scienza contro l'ingerenza dei dogmi religiosi non può essere condotta in nome di una astratta scienza galileiana che ignora l'intreccio tra conoscenza e valori che caratterizza oggi le scienze della vita e della mente. Se si pretende che in tre secoli la scienza non sia cambiata si perde in partenza. Se invece si riconosce che l'intreccio fra conoscenza e valori è nelle cose, diventa legittimo, anzi necessario, rifiutarsi di «ritagliarne» i temi, come si dice oggi, «eticamente sensibili» per cederne la competenza a un unico soggetto esterno, per di più autoritario per natura, come il capo della Chiesa cattolica. La formazione del consenso sul lecito e l'illecito deve invece coinvolgere, nelle forme da costruire insieme, una molteplicità di soggetti, aperti al dialogo e al confronto reciproco, portatori di tradizioni culturali, istanze sociali, esperienze del passato e progetti per il futuro in grado di presentare punti di vista diversi diffusi, ma ignorati dai meccanismi di decisione attualmente adottati senza discussione, con affrettata arroganza e incoscienza dai detentori dei poteri e degli interessi più forti.

Foto di Jennerally [Digital Network] con licenza Creative Commons da flickr

Joyce Lussu



Joyce Lussu su Wikipedia

La controriforma del lavoro in 16 punti. E siamo solo all'inizio...

da Chainworkers 3.0

Passata la bufera degli show televisivi del Ministro della Funzione Pubblica Brunetta, rimangono in campo le leggi che andranno a regolare la vita dei lavoratori.
Il decreto Brunetta (D.l. 112 del 24.6.2008) è legge dalla fine di agosto e i suoi effetti cominciano a farsi sentire proprio in questi primi giorni di rientro dalle ferie.
Nonostante l'enorme esposizione del Ministro sui giornali, gli articoli sui quali si snoda la legge sono poco conosciuti, anche tra gli stessi lavoratori.
La punizione dei 'fannulloni', come li ha etichettati per mesi sul Corriere della Sera Ichino, professore di Diritto del Lavoro all'Università Statale di Milano, per anni esponente di spicco della Fiom Cgil, si è trasformata in una serie di regole che svelano in che direzione va il mondo del lavoro.
Non stiamo parlando solo dei lavoratori statali e degli enti locali ma di tutti i lavoratori, perché come più volte dichiarato da CGIL CISL e UIL, tra gli obiettivi della prossima riforma contrattuale, c'è quello di arrivare a una parificazione di trattamento tra lavoratori privati e pubblici.
E anche perché tra le tante 'bacchettate' ai fannulloni, scappa qualche 'bastonata' anche a tutti gli altri. Così per gradire e per tastare il terreno.

1. Reperibilità continua
La prima delle novità riguarda la malattia dei lavoratori statali. D'ora in poi l'orario in cui si è obbligati a stare in casa cambia. Fino a due mesi fa la reperibilità era obbligatoria dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19. Ora chi è malato, magari con un braccio ingessato, sarà costretto a stare in casa dalle 8 alle 12 e dalle 13 alle 20 tutti i giorni festivi inclusi. Nulla è stato fatto per impedire che medici disonesti producano certificati falsi a chi malato non è, la scelta è stata quella di colpire tutti indiscriminatamente. Generalizzando il teorema più in voga del momento: lavoratori pubblici=fannulloni.

2. Decurtazione dello stipendio in malattia
D'ora in poi chi si ammala nei primi 10 giorni di assenza si vedrà decurtare lo stipendio. E' il primo attacco al diritto di malattia, istituito da Benito Mussolini durante il ventennio per alcune categorie di lavoratori e poi esteso a tutti gli assunti a partire dagli anni Sessanta. Le decurtazioni riguardano la parte di salario accessorio come le indennità, che si aggiunge a quella fissa. Peccato che negli ultimi 15 anni molti degli aumenti economici dei contratti riguardano proprio questa parte di salario. Chi si ammala se la vedrà togliere. Anche se ha fatto 10 giorni di malattia negli ultimi cinque anni. Per categorie come gli infermieri, i vigili urbani e la Polizia, la riduzione sarà rilevante visto che una buona parte dello stipendio è compresa nelle voci di indennità.

3. Discrezionalità del part time per lavoratrici madri

Altra chicca è quella che vedrà il blocco dei part time per lavoratrici madri in molti uffici pubblici. La richiesta del part-time o di soluzioni orarie più favorevoli per la cura dei figli un tempo concessa in automatico, in presenza di percentuali che lo consentivano, è diventata discrezionale. Sarà il dirigente a decidere se concedere quello che nelle dichiarazioni pre-elettorali e nei bla-bla dei politici è la promessa più ricorrente: facilitare la vita alle famiglie. Aiutare la donna a conciliare lavoro e cura dei figli.

4. Obbligo per le amministrazioni di pagare malattia e maternità
A partire dal 1° gennaio 2009, le imprese dello Stato, degli enti pubblici e degli enti locali privatizzate e a capitale misto sono tenute a versare, secondo la normativa vigente la contribuzione per maternità, la contribuzione per malattia per gli operai. Facile prevedere quale sarà il risultato di questa norma, visto che già oggi la maternità è vista come la più grande sciagura che possa capitare a un ufficio del personale. Che un diritto fondamentale come questo sia messo in discussione anche dallo stato, lascia intravedere gli effetti di questa norma di legge.

5. Prima di 3 anni, licenziare i precari

Poco o nessun risalto invece è stato dato alle norme che limitano le assunzioni di interinali, tempi determinati, co.co.co., consulenti etc. per un periodo inferiore ai 3 anni. Chi ha fatto delle cause di lavoro sa benissimo che è spesso quello il limite temporale entro il quale i giudici obbligano l'azienda ad assumere a tempo indeterminato. Grazie ai processi molti precari sono stati stabilizzati per legge, una pratica che si è diffusa nel settore pubblico visto che le pubbliche amministrazioni hanno approfittato come fossero aziende private del precariato diffuso. D'ora in poi invece, si prospetta una condizione di precarietà senza via di scampo e con licenziamento incorporato, proprio in quelle istituzioni che dovrebbero 'controllare' e limitare il fenomeno.

6. Tempo determinato? Ordinaria attività

L'art 21 della legge allarga le possibilità che già oggi godono le aziende di assumere lavoratori a tempo determinato. Fino ad ora erano permesse per esigenze tecniche, produttive, organizzative o sostitutive dell'azienda. In pratica per ogni esigenza. Visto che nei Tribunali del Lavoro molti giudici interpellati in cause intentate dai precari ritenevano che questi svolgessero un'attività uguale ai colleghi assunti a tempo indeterminato, ecco che la legge usa quelle parole che cambiano le carte intavola: d'ora in poi le aziende potranno assumere a tempo determinato lavoratori per esigenze 'riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro'.

7. Blocco delle cause di lavoro
Il testo di legge dice testualmente che: 'Con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione, e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle norme sul lavoro a tempo determinato, il datore è tenuto unicamente a indennizzare il prestatore di lavoro con un'idennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 e un massimo di sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto'. Chiunque abbia fatto una causa a un'azienda sa che questa norma toglie al lavoratore l'unica possibilità di essere risarcito adeguatamente. Solo il rischio di dover assumere a tempo indeterminato per ordine del giudice, piega e non sempre gli interessi delle aziende. Un indennizzo di due mesi e mezzo di mensilità, che per molti precari significano meno di 2500 euro, vuol dire non riuscire nemmeno a pagare un avvocato che ti difenda.

8. Straordinari pericolosi
Per il settore privato, in assenza di specifiche disposizioni nei contratti collettivi nazionali le deroghe al normale orario di lavoro settimanale (40 ore) possono essere stabilite nei contratti collettivi territoriali o aziendali stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale
Anche qui la legge prevede di eliminare le sanzioni in caso di reiterate violazioni del superamento dell'orario, del riposo giornaliero e settimanale, eliminando anche le considerazioni riguardo al rischio di infortunio.

9. Responsabilità dei dirigenti

Per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria.
Il ricorso a contratti di collaborazione coordinata e continuativa per lo svolgimento di funzioni ordinarie o l'utilizzo dei collaboratori come lavoratori subordinati è causa di responsabilità amministrativa per il dirigente che ha stipulato i contratti.

10. Riduzione permessi sindacali
Al fine di valorizzare le professionalità interne alle amministrazioni e di pervenire a riduzioni di spesa, con decreto del ministro per la Pubblica amministrazione e l'innovazione, è disposta una razionalizzazione e progressiva riduzione dei distacchi, delle aspettative e dei permessi sindacali

11. Sei precario e fai causa? Tieni l'elemosina

Per rispondere a esigenze temporanee ed eccezionali le amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale. Non è possibile ricorrere alla somministrazione di lavoro per l'esercizio di funzioni direttive e dirigenziali. Al fine di evitare abusi nell'utilizzo del lavoro flessibile, le amministrazioni, non possono ricorrere all'utilizzo del medesimo lavoratore con più tipologie contrattuali per periodi di servizio superiori al triennio nell'arco dell'ultimo quinquennio. In ogni caso, la violazione di disposizioni riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno Le amministrazioni hanno l'obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave. I dirigenti che operano in violazione delle disposizioni del presente articolo sono responsabili anche ai sensi dell'articolo 21 del presente decreto. Di tali violazioni si terrà conto in sede di valutazione dell'operato del dirigente.

12. Processi di lavoro: 60 giorni per la sentenza
Il primo comma dell'articolo 429 del Codice di procedura civile è sostituito dal seguente: «Nell'udienza il giudice, esaurita la discussione orale e udite le conclusioni delle parti, pronuncia sentenza con cui definisce il giudizio dando lettura del dispositivo e della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. In caso di particolare complessità della controversia, il giudice fissa nel dispositivo un termine, non superiore a sessanta giorni, per il deposito della sentenza».

13. Licenziamenti mascherati nella scuola
Si procede, altresì, alla revisione dei criteri e dei parametri previsti per la definizione delle dotazioni organiche del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (Ata), in modo da conseguire, nel triennio 2009-2011 una riduzione complessiva del 17 per cento della consistenza numerica della dotazione organica determinata per l'anno scolastico 2007/2008.

14. Aumenti e scatti di anzianità? Rinviati per i lavoratori pubblici
Con effetto dal 1º gennaio 2009per i lavoratori pubblici la maturazione dell'aumento biennale o della classe di stipendio, nei limiti del 2,5 per cento, prevista dai rispettivi ordinamenti è differita, una tantum, per un periodo di dodici mesi, alla scadenza del quale è attribuito il corrispondente valore economico maturato. Il periodo di dodici mesi di differimento è utile anche ai fini della maturazione delle ulteriori successive classi di stipendio o degli ulteriori aumenti biennali.

15. Meno soldi per gli infortunati sul lavoro

A decorrere dal 1º gennaio 2009 nei confronti dei dipendenti pubblici ai quali sia stata riconosciuta un'infermità da causa di servizio è esclusa l'attribuzione di qualsiasi trattamento economico aggiuntivo previsto da norme di legge o pattizie.

16. Precari: personale anche per il bilancio

Il trucchetto con il quale molte società mascherano costo del lavoro, e lavoratori, sta nell'inserirli in altri capitoli di bilancio. Non in quello relativo al personale ma nelle spese accessorie, o nelle spese per materiali. Ecco il motivo per cui, ad esempio, gli esuberi dichiarati ad Alitalia sono 'solo' di 7500. Tutti gli altri lavoratori, migliaia di precari, non risultano nel personale. I precari sono fantasmi. Il decreto 'Brunetta' dichiara che: 'costituiscono spese di personale anche quelle sostenute per i rapporti di collaborazione continuata e continuativa, per la somministrazione di lavoro, nonché per tutti i soggetti a vario titolo utilizzati, senza estinzione del rapporto di pubblico impiego. Quindi o i precari spariranno dalle amministrazioni, ed è impossibile, oppure verranno nascosti in qualche altra piega legislativa. Sempre più fantasmi e difficili da quantificare. L'unico dubbio che rimane è: dopo co.co.co, interinali, co.co.pro e partite IVA a unico committente quale altro nome verrà dato ai precari?

Thanx to Stefo

Foto di Xiaming [Worker Revolution], con licenza Creative Commons da flickr

venerdì, agosto 29, 2008

[RK] Il debito

di Bifo - da rekombinant

Sull'Herald del 2 agosto un articolo di David Brooks intitolato "Missing Dean Acheson".
Sottotitolo: "Il nostro nuovo mondo pluralistico ha dato origine a una globosclerosi, incapacità di risolvere un problema dopo l'altro."
Il tema è quello della impossibilità di decidere. Brooks ricorda con nostalgia i bei tempi in cui il gruppo dirigente americano prendeva decisioni sulla base dei suoi interessi e li imponeva senza tante storie, con le buone o con le cattive (generalmente con le cattive) a tutto il mondo dominato.
A partire dagli anni '40 il potere è stato fortemente concentrato nelle mani della classe dirigente occidentale, ma oggi il potere è disperso. "La dispersione dovrebbe in teoria essere una buona cosa, scrive Brooks, ma in pratica multipolarità significa potere di veto sull'azione collettiva. In pratica questo nuovo mondo pluralistico ha dato origine alla globosclerosi, incapacità di risolvere un problema dopo l'altro."
Poi il caro David viene al punto che più lo addolora: "Questa settimana per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, un tentativo di liberalizzare il mercato globale è fallito. Il Doha round ha subito un collasso perché il governo indiano non voleva offendere i piccoli contadini in previsione delle prossime elezioni."
A David Brooks dei piccoli contadini indiani non gliene può fregare di meno. Il suo problema è la fine della capacità di decisione economica da parte delle grandi potenze occidentali.
In effetti, nel corso dell'estate 2008 abbiamo avuto tre segnali impressionanti della fine della decisione politica, della fine del globalismo e della fine dell'egemonia occidentale. Il G8, il WTO, ed infine la NATO sono entrati in una sorta di paralisi.

All'inizio di luglio c'è stato il summit G8 di Hokkaido. Posti di fronte alla necessità di decidere qualcosa a proposito di processi che avanzano con velocità impressionante e distruggono il futuro del pianeta e dell'umanità (cambiamento climatico, crisi alimentare, crisi finanziaria) i capi delle potenze mondiali hanno fatto come suol dirsi scena muta. Dovevano decidere qualcosa sul cambiamento climatico. La risoluzione finale relativa al cambiamento climatico dichiara semplicemente che nel 2050 le emissioni inquinanti saranno la metà di quelle attuali. Questo è quello che hanno stabilito i "Grandi". Come accadrà questo dimezzamento? Nessuno lo sa, nessuno lo ha detto. Ma tanto chi se ne frega, nel 2050 saremo tutti morti (probabilmente a causa del cambiamento climatico) quindi nessuno potrà recriminare.

Alla fine del mese di luglio c'è stato l'incontro di Ginevra del Doha Round del World trade organisation, dove è definitivamente fallito l'accordo sulla liberalizzazione del commercio internazionale - che per gli occidentali significa libertà di penetrazione nei mercati altrui e difesa protezionistica dei mercati propri. Il WTO, l'organismo contro cui ci battemmo a Seattle nel 1999, quando il movimento no-global venne alla luce del sole, sembra defunto, non certo per la forza dei movimenti di contestazione, ma a causa dell'emergere di contrasti d'interesse inconciliabili, per il rifiuto che le nuove potenze economiche oppongono al globalismo a senso unico occidentale.

Poi c'è stata la guerra in Georgia. La lunga onda dell'89 è finita, ora rifluisce.
La Nato non ha potuto difendere in nessuna maniera il suo alleato georgiano, dimostrando che la presidenza Bush ha portato il sistema militare americano all'impotenza.
E l'Unione europea si trova ormai spaccata in due: da una parte coloro che per timore dell'aggressività russa vogliono puntare le armi contro Mosca, e dall'altra coloro che per timore della potenza energetica russa vorrebbero trovare un compromesso.

Sullo sfondo, mentre i vertici globali falliscono uno dopo l'altro, la guerra euroasiatica tende a saldarsi in un fronte variegato nel quale l'occidente perde tutte le battaglie. La battaglia iraqena è ormai perduta da anni, la battaglia afghana sta diventando un inferno.
La battaglia iraniana volge a favore dell'oltranzismo nazional-islamista di Ahmadinejad e Khamenei, e la bomba sciita si delinea all'orizzonte mediorientale come una minaccia sempre meno immaginaria. La battaglia libanese diventa ogni giorno più pericolosa per Israele, con il saldarsi di un fronte Siria-Hezbollah.
E per finire, più spaventosa di tutte, la battaglia pakistana sta rivelandosi un rovescio per gli americani. Il generale protetto dalla Casa Bianca deve andarsene, e Ahmad Gul, l'uomo forte dell'esercito, dichiara che il principale nemico del paese sono gli Stati Uniti d'America (e l'India dove la mettiamo?). Ah... dimenticavo: Kim Iong Il ha appena comunicato che la Corea del Nord riprende la produzione della bomba nonostante i mezzi accordi otenuti dall'amministrazione Bush qualche emse fa. Il clan Bush è riuscito in un capolavoro impensabile: la più grande potenza del mondo si è messa progressivamente in condizione di minorità militare e di paralisi politica. Com'è potuto accadere?

Occorre una nuova descrizione del mondo. Quelle di cui disponiamo non valgono più.
Fino al 1989 disponevamo di una descrizione del mondo che si era formata nel secondo dopoguerra, e delineava il futuro sulla base dell'opposizione tra capitalismo e socialismo.
Nel 1989 quella descrizione bipolare venne sostituita con una descrizione unipolare, fondata sull'egemonia della NATO e sul predominio di un nuovo modello di espansione capitalista.
Per un ventennio l'egemonia militare ha messo l'occidente in una posizione di predominio, che permetteva alla popolazione americana di indebitarsi illimitatamente, di mantenere un tenore di vita largamente superiore alla forza produttiva americana, e di consumare le risorse senza alcuna considerazione per il futuro del pianeta né per la sopravvivenza della specie umana.

L'undici settembre del 2001, con un'azione di eccezionale efficacia strategica, qualcuno (poco mi importa qui sapere chi) ha spinto la più grande potenza militare di tutti i tempi a compiere una serie di azioni completamente insensate, autodistruttive, di cui sette anni dopo, si misurano a pieno gli effetti. Dopo 911 il presidente degli Stati Uniti, che qualche mese prima non conosceva il nome del presidente golpista del Pakistan, decideva di lanciare una guerra poi un'altra guerra, senza considerarne le implicazioni geopolitiche, culturali, religiose, militari. Io non so se questo sia dovuto all'ignoranza sbalorditiva del gruppo dirigente americano, o al cinismo di gruppi economici come la Halliburton la Bechtel la Texaco ecc che hanno considerato più importante il loro interesse economico immediato che la disfatta strategica del loro paese (non lo so nè qui mi interessa, per quanto si tratti di una questione appassionante). Mi limito a constatare l'evidenza: le guerre euroasiatiche scatenate dagli anglo-americani si sono risolte in una successione di sconfitte strategiche irrimediabili. L'egemonia militare dell'occidente è finita. Per sempre, credo.

Ma la sconfitta militare sta provocando una crisi di credibilità che ha risvolti finanziari ed economici. Il popolo americano ha potuto appropriarsi delle ricchezze del pianeta grazie all'(apparente) superiorità militare della NATO. Ora, dopo la disfatta strategica dell'occidente nel continente euroasiatico, il gioco è scoperto. L'occidente non dispone più della sua forza di ricatto. Ora il pianeta gli presenta il conto. Temo che sarà salato. Non si può più contare sul debito illimitato.

Il 15 agosto è uscito sulla Repubblica un articolo di Nouriel Roubini, professore alla Stern school della New York University. Titolo: "La tempesta perfetta".
Il quadro che descrive Roubini è quello di una recessione generalizzata, profonda, e di lungo periodo. Questo non è così grave, di recessioni ne abbiamo viste tante nel corso del novecento, prima o poi se ne esce. Il problema è che stavolta la recessione coincide con la fine del predominio occidentale sul pianeta.
L'occidente può accettare un ridimensionamento, che significa prima di tutto una riduzione del consumo energetico, e del consumo in generale? Gli americani accetteranno di rinunciare al privilegio economico e finanziario di cui hanno goduto negli ultimi venti anni? Saranno capaci di farlo?

Dopo il crollo del sistema di credito immobiliare, si sta aprendo il problema delle carte di credito. Dopo la bolla dei mutui sulla casa, è sul punto di esplodere anche la bolla dell'indebitamento privato . Mi pare che qui ci sia un nucleo essenziale della crisi finanziaria che si sta trasformando in recessione di lungo periodo: la fine della possibilità di indebitarsi indefinitamente puntando una rivoltella alla tempia del creditore. Ora il creditore ha scoperto che la rivoltella è scarica.
Accetterà l'occidente, accetterà il popolo americano di pagare il suo debito?
Il debito. Ciò che dobbiamo agli altri.
Oppure sceglierà di usare l'arma estrema, la violenza impensabile, per riaffermare il proprio diritto di depredare il futuro di tutti? Il pericolo che si delinea all'orizzonte è senza precedenti. Non è vero che sia tornata la guerra fredda. Magari.
La Guerra fredda era fredda perché gli americani non avevano l'acqua alla gola e perché l'Unione sovietica era un sistema totalitario, ma il gruppo dirigente del PCUS aveva una logica politica diversa da quella della mafia e del KGB coalizzati.

Foto di Marcio Eugenio [Small houses], con licenza Creative Commons da flickr

lunedì, agosto 25, 2008

Turbolence No. 4: 'Who can save us from the future?'

Today, the very act of thinking about the future has become a problem. What both capitalism and ‘really existing socialism’ had in common was the belief in a future where infinite happiness would spring from the infinite expansion of production: sacrifices made in the present could always be justified in terms of a brighter future. And now? The socialist future has been dead since the fall of the Berlin wall.

After that we seemed to live in a world where only the capitalist future existed (even when it was under attack). But now this future, too, is having its obituaries composed, and impending doom is the talk of the town. The ‘crisis of the future’ – that is, of our capacity to think about the future – is born out of these twin deaths: today it is easier to imagine the end of the world than the end of capitalism.


With this in mind we’ve assembled a collection of articles that, in different ways, speak to us about futures. As much as we didn’t want people’s ten-point programmes when, in June 2007 we asked ‘What would it mean to win?’, our interest here has nothing to do with futurology. There are no grand predictions. No imminent victory, because comfort-zone wishful thinking is the last thing anyone needs now; but no apocalyptic doom either. Neither are there any forward-view mirrors where capitalism recuperates everything and always gets the last laugh. We must have the modesty to recognise that the future is unknown, not because today is the end of everything or the beginning of everything else, but because today is where we are. What we do, what is done to us, and what we do with what is done to us, are what decide the way the dice will go. This requires the patient and attentive work of identifying openings, directions, tendencies, potentials, possibilities – all of which are things that amount to nothing if not acted upon – and of finding out new ways in which to think about the future.

Contents

Introduction: Present Tense, Future Conditional by Turbulence
Today I See the Future by Turbulence
1968 and Doors to New Worlds by John Holloway
Starvation Politics: From Ancient Egypt to the Present by George Caffentzis
Six Impossible Things Before Breakfast by The Free Association
Global Capitalism: Futures and Options by Christian Frings
The Measure of a Monster: Capital, Class, Competition and Finance by David Harvie Et tu Bertinotti? by Sandro Mezzadra, with an Introduction by Keir Milburn and Ben Trott
There is No Room for Futurology; History Will Decide by Felix Guattari, with an Introduction by Rodrigo Nunes and Ben Trott
This is Not My First Apocalypse by Fabian Frenzel and Octavia Raitt
The Movement is Dead, Long Live the Movement! by Tadzio Mueller
Network Politics for the 21st Century by Harry Halpin and Kay Summer


PDF available here.

To get hold of a copy, click here.

Inside art work by Octavia Raitt. Cover art by Kristyna Baczynski.

domenica, agosto 17, 2008

1971, Holland: Foucault vs Chomsky






Vedi anche sullo stesso dibattito Della natura umana in finoaquituttobene

martedì, agosto 12, 2008

Milano sotto l'expo

di Marco Philopat
da il manifesto - 9 agosto 2008

C'era una volta la Darsena, il porto milanese dove centinaia di barconi rifornivano giornalmente i cittadini con materie prime, viveri e manufatti. La Darsena era il fulcro di una fitta rete di canali che collegavano la città al bacino del lago Maggiore, attraverso il Ticino e il Naviglio Grande, e a quello del lago di Como con l'Adda e il canale della Martesana. In questo slargo acquatico artificiale costruito durante la dominazione spagnola, confluivano anche le acque di ben 19 fiumi o torrenti, tra cui l'Olona, il Seveso e il Lambro, che ancora oggi scorrono nel sottosuolo milanese. Un sistema di trasporto unico al mondo. A metà dell'Ottocento la Darsena era uno dei più funzionali e capienti porti italiani. 85.000 mila tonnellate di merci per 8300 imbarcazioni all'anno. La zona circostante, il quartiere Ticinese, era il centro degli scambi commerciali e culturali di Milano e per secoli il punto di approdo di milioni di bifolchi che tentavano la fortuna in città. I bifolchi, uomini grezzi che coltivavano la terra, erano naturalmente odiati dalla ricca e opulenta borghesia meneghina, e non trovando molto spazio all'interno delle mura spagnole concentravano le loro relazioni sociali attorno alla Darsena. Qui nel corso dei secoli si sono susseguiti i clochard più bizzarri, ogni genere di artista, dal più blasonato al fallito totale e i più orgogliosi rappresentanti della Ligera, la piccola mala locale con i suoi traffici facilitati dai numerosi passaggi sconosciuti nelle case forate tra il naviglio Grande e quello Pavese. Infatti secondo alcune leggende il quartiere era chiamato dei furmagiatt non solo per le tante botteghe per la produzione del formaggio, ma anche per i buchi nelle case dove poter trasportare e contrabbandare la merce.

Il Ticinese era anche un pullulare di poeti da strapazzo, ubriaconi visionari, attivisti politici e sobillatori anarchici. Le sorti di tale ciurma rispecchiavano gli alti e i bassi delle diverse fasi storiche della città e dei capricci dei suoi dominatori. Spagnoli, austriaci, il brevissimo periodo di esaltazione rivoluzionaria con i francesi e la restaurazione austriaca. Poi i carbonari, le Cinque Giornate, i garibaldini, i moti di piazza del 1898, la cosiddetta protesta dello stomaco e la strage di Bava Beccaris. Quella volta, i cannoni del generale spararono ai rivoltosi uccidendone più di settecento. Dopodiché nei dintorni della Darsena, nonostante guerre e crisi economiche, si respirò una certa aria di libertà fino agli anni di Mussolini, quando a quella marmaglia di bifolchi fu proibito di girare impunita lungo i canali dell'Amsterdam padana. Nell'ottobre del 1926 fu approvato il piano regolatore in cui era prevista la copertura dei navigli, che avvenne nel 1929. Da quel momento la Darsena e il suo popolo si accontentarono di fare scorrere le acque e i suoi tumulti nel triangolo delimitato dal naviglio Grande e da quello Pavese. Triangolo urbano che rimaneva di basilare importanza sociale, perché il suo vertice era situato alle Colonne di San Lorenzo, a due passi da Piazza del Duomo, mentre le sue lunghe braccia navigabili raggiungevano le periferie dell'estremo hinterland a sud ovest, da Baggio a Rozzano. Un percorso diretto dall'inferno periferico al paradiso del salotto cittadino. I bombardamenti della Seconda guerra mondiale sfiorarono il Ticinese che, anche se sfiancato dal terribile Ventennio, trovò la forza per coniare l'intramontabile ritornello ribelle di «ciao, bella, ciao». La parola d'ordine con cui i partigiani si facevano riconoscere dalla Dosolina dei navigli, l'ex bifolca della Valtellina, ex puttana per amore, esperta in contrabbando prima e in seguito in smazzo d'armi per i Gap...

Nel dopoguerra in Darsena rimasero le chiatte che trasportavano ghiaia e sabbia per la ricostruzione. Nessuno toccò più il microclima del Ticinese, almeno fino al termine degli anni settanta in cui, proprio in questo triangolo di mappa milanese, si concentrò un numero di sedi politiche extraparlamentari senza paragoni. Quasi 40 tra collettivi, comitati, redazioni, librerie e cooperative. Ma sappiamo come sono andate le cose nel decennio successivo, il riflusso guidato dai craxiani portò troppi ex operai a cimentarsi come bottegai del divertimento nel futuro luna park notturno lombardo. A quei tempi anch'io abitavo alla base periferica del triangolo, siccome non c'erano i mezzi prendevo la bicicletta, scavallavo un paio di ponti sul naviglio e alla fine dei conti facevo veloce ad arrivare in Darsena. Ricordo che cominciai ad appassionarmi al quartiere non solo per la presenza della Libreria Calusca e degli anarchici di via Conchetta che si stavano trasferendo in via Torricelli, ma anche grazie ad alcuni amici di Corsico, altro paese alla base del triangolo, che tenevano viva la mitologica epoca dei furmagiatt con i taxisti inesperti. Cioè si facevano portare davanti a un portone sul naviglio Grande. «Vado su a prendere i soldi dalla mamma» dicevano all'autista, poi ripercorrendo gli stessi buchi dei contrabbandieri e carbonari si ritrovavano in pochi passi dall'altra parte, sul naviglio Pavese e se non bastava sul Corso San Gottardo o ancora più in là, sulla ormai lontana via Pietro Custodi. Nella primavera del 1988 anarchici, comunisti, punk, cyberpunk, tifosi del Milan, motociclisti, artistoidi e clochard residenti allargarono la vecchia sede libertaria di via Conchetta inglobando nell'occupazione l'adiacente ristorante abbandonato, dove qualche anno prima andava a cenare il vertice del partito socialista. Nacque così, con vista sulla chiusa della conchetta, lungo il naviglio Pavese, il centro sociale autogestito Cox 18. In Darsena non si faceva più niente se non la fiera di Senigallia ogni sabato, tuttavia intorno ai mille locali che stavano trasformando la tipica cultura del dialogo tra le diversità in semplice cultura del profitto, vennero effettuate diverse occupazioni di centri sociali e case sfitte. Via Gola, lo Squott, la casa delle donne di via Gorizia, via Lagrange, via Torricelli e più avanti l'Orso.

Ancora una volta i bifolchi s'erano ritagliati dello spazio e un po' di ossigeno in quartiere.
Gli anni zero del duemila hanno portato la grande siccità. Al posto di capire l'ineguagliabile e storico laboratorio umano che si annida in Ticinese, gli amministratori cittadini hanno deciso di costruire un bel parcheggione al posto della Darsena e distruggere così uno dei più significativi siti della genialità e dell'efficienza milanese. Ma dalle viscere della terra sono spuntati fuori importanti reperti archeologici, così i lavori si sono bloccati... Se vi capita di fare un giro da quelle parti noterete una grande area abbandonata, sporca e maleodorante come una fogna a cielo aperto. Rovi, ortiche e ammassi di terra zozza nascondono le mura del 1600 rinvenute durante gli scavi per il parcheggio. Un cantiere bloccato da anni che si sta trasformando in una discarica in pieno centro città. Uno schifo tremendo.
«La Darsena è ferma all'archeologia, mura spagnole e conca di Leonardo. Ultimi segni del tempo: topi e punkabbestia. Il cantiere dei box è bloccato da un anno e mezzo, Comune e impresa non sono d'accordo su soldi e piani dell'autosilo (due o tre?)». Così scriveva Armando Stella sulle pagine del Corsera il 4 luglio scorso. A cosa si riferiva il giornalista quando parlava di topi è abbastanza chiaro, ma cosa intendeva a proposito dei punkabbestia? Oltre allo sclerotico stile conformista della borghesia nostrana nel definire i bifolchi d'ogni d'epoca al pari dei sorci, il giornalista tentava, malgrado l'impostazione, di denunciare lo sfacelo in atto presentando così il degrado in cui è caduta l'area dell'ex Darsena. Se avesse parlato con quei punkabbestia, avrebbe capito che sono gli stessi che occupano e gestiscono l'Approdo Caronte, le porte dell'inferno... Uno spazio piccolissimo appoggiato su ciò che rimane degli antichi moli della Darsena, e che tra l'altro rappresenta l'unico ostacolo al tunnel dell'orrore sub-umano che potrebbe scatenarsi da un momento all'altro in quel comatoso cantiere posizionato esattamente nel centro della movida milanesotta.

L'Approdo Caronte nasce circa otto anni fa, ma non si tratta di un'occupazione vera e propria, piuttosto di una normale entrata in un minuscolo pertugio urbano dimenticato dal dio denaro. È il casotto degli attrezzi del porto che fu, dove si depositavano martelli, corde, vanghe, scope e secchi di vernice. Sono tre mura addossate all'argine sud della Darsena, quello sulla via Gorizia. Un casotto che racchiude una stanza di quattro metri per dieci, al massimo dodici... La strada, che poi è un ponte sull'imbocco del naviglio Grande, corre ben al disopra del suo tetto catramato, per raggiungerlo è necessario scendere una scala diroccata in pietra, oppure utilizzare quella di ferro a pioli che porta sul tetto piatto a da lì scavalcare il muro di cemento per accedere al marciapiede della carreggiata. All'interno c'è una pedana che fa da palco con due grandi casse acustiche ai lati. All'entrata una tavola in legno per il bar restringe la stanza. Da tre anni, un gruppo di giovani con attitudine punk organizza concerti di hardcore con band da tutta Europa, ma anche mostre, serate letterarie e feste quasi tutte le sere, l'ingresso è sempre gratuito e il bere, comprato al discount, costa un quarto di come lo vende qualsiasi altro locale limitrofo. Soprattutto durante il week end, il posto e tutto l'antico molo circostante si riempiono di gente ben diversa da quella che cammina sopra le loro teste lungo la patinata viale Gorizia. Sul ponte si aggirano i giovani belli, ricchi e professionalmente inseriti sfoggiando lo stirato look dello show-room più in del momento. Su dieci giovani solo uno è l'altolocato, gli altri nove s'atteggiano tali ma in realtà sono bifolchi. Spremuti come limoni acerbi dall'industria pubblicitaria e dal suo enorme indotto, guadagnano bene, ma sono totalmente inconsapevoli di ciò che gli accadrà dopo i 35 anni, quando quell'unico altolocato gli scoreggerà in faccia.

Sotto il ponte, all'Approdo Caronte, i reietti, gli emarginati, ma anche tutti coloro che non sopportano più questa moda dell'apparire ciò che non si potrà mai essere... Bifolchi orgogliosi di esserlo... Infatti quando li vado a trovare due di loro, un ragazzo e una ragazza sui vent'anni, mi accolgono con grande disponibilità e la prima cosa che mi dicono è la loro provenienza: Corsico, il paese al bordo del solito triangolo... Lui mi racconta che una volta frequentavano i centri sociali, quello di via Gola e l'Orso, ma poi li hanno sgomberati e comunque non si sentivano troppo bene, preferivano provare una loro strada... «Siamo aperti a qualsiasi proposta che chiunque ci viene a fare. Insieme alla gente dei centri sociali abbiamo fatto il murales per Dax qui di fianco, poi ce l'hanno cancellato, l'abbiamo rifatto e ricancellato... Adesso non ci mettiamo più storie così direttamente politiche così ci lasciano fare, tanto qui non ci scende mai nessuno, è un posto di merda, un cesso... Va... Va com'è messa 'sta fogna...» Mi fa segno giù dai bordi dei moli, dove una volta scorreva l'acqua della Darsena... «Adesso è meglio, perché la settimana scorsa con i nostri amici senegalesi l'abbiamo ripulita un po', altrimenti non ti puoi immaginare lo schifo... Noi organizziamo soprattutto concerti hardcore, ma anche quell'ambiente si sta montando la testa, parlano sempre di musica. Al Caronte dobbiamo affrontare un sacco di problemi, i problemi della strada, perché qui ci viene di tutto...» «Sì, non è facile» interviene lei... «Tante volte non riesci a far rimanere calma la gente... Siamo un po' la carta moschicida per ogni caso umano che non ci sta più dentro là sopra...» «E il rapporto con i migranti come lo vivete?» le chiedo. «Per fortuna che ci sono! Con loro andiamo d'accordo, figurati che quando cuciniamo il barbecue abbiamo abolito la carne di maiale, così ci sono un sacco di sere che mangiamo tutti insieme intorno al fuoco... Poi due mesi fa, laggiù, c'era la vecchia baracca in latta del cantiere che era diventata la tana per un casino di scoppiati. Un pomeriggio con i magrebini e i senegalesi lo abbiamo raso al suolo a picconate... Ora va un po' meglio...» «Devo dirti» continua lei «che non si sta poi così male, qui sotto... Siamo ai bordi della Darsena, è bellissimo! Sono dei matti se ci fanno veramente il parcheggio...»

Quando esco dal Caronte percorro il molo e salgo le scale diroccate. Prima di raggiungere via Gorizia alzo lo sguardo sull'enorme cartello pubblicitario, 20 per 15, piazzato in mezzo limite del cantiere. Da una parte, quella davanti che vedono tutti, è sempre occupata dalle grandi multinazionali dell'intrattenimento o della moda, ora c'è la pubblicità del concerto di Madonna. Dall'altra parte, quella alle spalle del cantiere che vedono solo i frequentatori del Caronte, il Comune di Milano si è sprecato. Ha attaccato una foto seppiata con la scritta: «La Darsena porto commerciale di Milano - com'era negli anni 60 e 70». Nella foto si vede il porto ancora in piena attività, con le chiatte e i serbatoi di metallo per la ghiaia addossati alla via D'Annunzio... Ora tutto è cambiato e fa ancora più tristezza vedere come si è ridotta la Darsena. Però qualcosa è rimasto intatto. In basso a sinistra della foto, noto che il casotto degli attrezzi è lo stesso, posizionato nello stesso identico posto. E' l'Approdo Caronte, l'unica cosa sopravvissuta a questa Milano da Expo.

Ps. Mentre rileggevo l'articolo mi ha telefonato la ragazza che avevo intervistato. «Stamattina abbiamo trovato un foglio che ci avverte che il nostro spazio sarà abbattuto...». «Ma è firmato dal Comune?». «No, sembra quello della ditta che fa i lavori...» Per topi, bifolchi e punkabbestia è inutile sprecare carta bollata... L'ordine è stato eseguito la mattina del 4 agosto, l'Approdo Caronte non è sopravvissuto alla Milano da Expo.

Foto di mellowiz [Hanging out to dry], con licenza Creative Commons da flickr

giovedì, agosto 07, 2008

Millennio desiderante - Proposte per un pensiero politico postmoderno

di Benedetto Vecchi
da il manifesto - 6 agosto 2007

Viviamo in un mondo che ha conosciuto una radicale mutamento delle forme di vita, dei modi di produzione e delle forme politiche e di governo. Viviamo cioè in un'epoca postmoderna, che occorre interpretare per potere trasformare, mettendo a dura critica le categorie della modernità capitalista. È questo uno dei temi ricorrenti della Fabbrica di porcellana (Feltrinelli, pp. 156, euro 16, traduzione di Marcello Tarì), un volume che raccoglie dieci lezioni tenute da Toni Negri al Collège International de Philosophie di Parigi tra il 2004 e il 2005 e che costituiscono al tempo stesso una messa a fuoco dei nodi teorici emersi nella discussione attorno ai noti Impero e Moltitudine (entrambi pubblicati negli anni scorsi da Rizzoli), i due volumi scritti da Negri assieme a Michael Hardt. Ma la fabbrica di porcellana è da intendere anche come un deposito di materiali da sviluppare ulteriormente in un lavoro di ricerca più organico di quanto possa essere un ciclo seminariale. Eppure è proprio questo carattere «provvisorio», seminariale, dialogico che rende questo libro un utile strumento per comprendere meglio il laboratorio culturale di Toni Negri.

Un mondo unificato

In primo luogo la scelta della lezione come forma di socializzazione dei materiali teorici costringe l'autore a una continua precisazione dei concetti presentati. Così, l'illustrazione dell'impero deve tener presente delle critiche a cui è stato sottoposto tale concetto e anche degli eventi che hanno segnato il presente. L'attentato alle Torri gemelle e la strategia della guerra preventiva attuata dall'amministrazione statunitense diventano due momenti che cambiano il corso della storia, nel senso che più che rallentare il processo di costruzione dell'impero, l'accelerano, modificando tuttavia la sua traiettoria. Allo stesso modo le prove di guerra bassa intensità contro il movimento no-global, che ha avuto il suo apice a Genova nel 2001, non bloccano lo smottamento politico in America latina, continente che Negri guarda con attenzione per quel rapporto di condizionamento e di autonomia che i movimenti sociali hanno stabilito con i «governi amici». Infine, la perdurante recessione economica non coincide con la fine della globalizzazione neoliberista: semmai ne mette in evidenza come le situazioni di crisi abbiano sempre il carattere costituente di un nuovo ordine economico e politico. Ed è per questo motivo che l'autore non nega che continuino a vigere i rapporti di sfruttamento, appropriazione delle risorse, di creazione di nuovi mercati tipico dell'imperialismo. E tuttavia Negri sostiene che, a differenza del passato imperialista, nell'impero viene a scomparire la distinzione tra mondo capitalista e società non capitaliste. L'impero è dunque una realtà unificata caratterizzata dal capitalismo globale che, come in un work in progress, modifica incessantemente le gerarchie di poteri e una nuova divisione internazionale del lavoro al suo interno. Emerge così una lettura meno lineare dello sviluppo capitalistico. Individuare la tendenza in atto non significa quindi chiudere gli occhi sulle contraddizioni, le aporie, le controtendenza che caratterizzano i processi storici.

La tendenza dell'impero è sostenuta tuttavia non solo dalle logiche interne al capitale, ma anche da quella costellazione di singolarità, di forme di vita definita da Negri, è ormai noto, come moltitudine. Anche in questo caso, l'autore chiarisce che la discontinuità operata con la tradizione marxiana sulle classi sociali non va interpretata come una negazione dei rapporti di sfruttamento che qualificano il capitalismo contemporaneo. La moltitudine diviene quindi il termine per indicare tutte le figure lavorative presenti nella realtà contemporanea che ha come elemento dominante il lavoro cognitivo. Ma più che parlare di elemento dominante, credo sia più aderente parlare di una pluralità di forme lavorative accomunate tuttavia dalla centralità della dimensione relazionale, dialogica, della messa in comune del sapere e della conoscenza in quanto fattori innovativi del processo lavorativo: fattore strategico, quest'ultimo del capitalismo contemporaneo. La forza-lavoro deve cioè alimentare quella macchina dell'innovazione che è la cooperazione produttiva.

È però partendo da una torsione della categoria marxiana di lavoro vivo che Negri risponde alla critiche che i filosofi francesi Etienne Balibar e Pierre Macherey hanno rivolto al concetto di moltitudine. Il primo ha espresso il dubbio che la moltitudine possa essere presentata come forza antisistemica, mentre Macherey ha sostenuto che la moltitudine difficilmente possa passare all'azione proprio per quella resistenza che presenta a manifestarsi come soggetto collettivo. Negri sostiene invece che la moltitudine è lavoro vivo che esprime resistenza al capitalismo cognitivo. Da qui le lezioni dedicate al «politico», che spaziano da una rilettura critica del pensiero di Max Weber, Carl Schmitt, Lenin, Michael Foucalt e Gilles Deleuze.

La democrazia assoluta
Vengono così introdotti e approfonditi i temi del biopotere, della biopolitica e della governance, con interessanti incursioni negli studi postcoloniali, intesi in questo volume come griglia analitica con cui analizzare proprio i processo di «soggettivazione politica» della moltitudine. E se il biopotere è inteso come strategie di governo della vita da parte del potere costituito attraverso strategie di governance, la biopolitica diviene l'orizzonte in cui collocare l'azione della moltitudine nel suo processo di defezione e esodo dal potere costituito.
Un libro, dunque, che presente tutti i temi della riflessione di Toni Negri negli ultimi anni. E che ha l'indubbio pregio nel carattere seminariale che lo contraddistingue. La lezione che problematizza meglio di altre le tesi del filoso italiano è quella che porta il titolo «Dal diritto di resistenza al potere costituente». È noto che il diritto di resistenza è elemento fondante del pensiero politico moderno. Ma Negri non è un democratico liberale. La sua prospettiva è una democrazia radicale. Meglio: spinozianamente assoluta che ha nel potere costituente della moltitudine il suo viatico. È su questo crinale che l'insistenza sulla cesura del postmoderno acquista consistenza. La presa di congedo dal pensiero politico della modernità è quindi da intendere non tanto come la constatazione di una evoluzione della società capitalistica, quanto come l'affermarsi di un capitalismo che ha trasformato l'attività intellettuale in mezzo di produzione. Viviamo dunque in un'epoca che vede il capitale come elemento parassitario della cooperazione produttiva sviluppata dalla forza-lavoro, dato che il sapere e la riflessività, direbbe il sociologo tedesco Ulrich Beck, «appartiene» al singolo. La rilevanza del capitale finanziario non è quindi da intendere come «squilibrio temporaneo», ma come fattore qualificante l'attuale capitalismo. Il capitale perde così le caratteristiche produttive, imprenditoriali e si presenta come un elemento parassitario del lavoro vivo. Il puzzle del moderno va così in pezzi e con esso il pensiero politico moderno.

Il potere costituente
La moltitudine e il potere costituente sono quindi da intendere come le coordinate indispensabili per un'azione politica radicale che punti al superamento del capitalismo stesso. La moltitudine per la sua resistenza a qualsiasi processo di eterodirezione della volontà politica; il potere costituente come un potere che non si cristallizza in istituzioni basate sul meccanismo della rappresentanza, bensì su istituzioni che hanno la capacità di prendere decisioni, di attuarle e di modificare se stesse rispondendo così al mutare delle azioni della moltitudine. Una lezione, questa settima, squisitamente politica, quasi una proposta di vademecum per i movimenti sociali che da Seattle in poi hanno prospettato l'altro mondo possibile. Ma visto che ci troviamo di fronte a un work in progress, è indubbio che alcuni elementi problematici vanno comunque sottolineati. La fabbrica di porcellana, cioè la possibilità di un'azione politica radicale, deve misurarsi con una crisi del capitalismo che ha la capacità di trarre comunque linfa vitale proprio dai suoi limiti.

Così l’impero vede un doppio movimento: da una parte il ruolo dirimente di alcune economie e stati nazionali - gli Stati Uniti e la Cina, ad esempio -, dall’altra l’accresciuta influenza di organismi sovranazionali e regionali come l’Unione europea, l’Asean e il tanto bistrattato Nafta, l’accordo di libero commercio tra Canada Usa e Messico, e il nascente Mercosur in America latina. È quindi un impero che ha si nella governance il dispositivo per dirimere i conflitti geopolitici e geoeconomici al suo interno, delegittimando talvolta l’operato del Wto, della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, cioè le istituzioni principe della «prima» globalizzazione. Inoltre, il carattere parassitario del capitale deve essere misurato alla luce di quel regime della proprietà intellettuale che garantisce innovazione e un ruolo non residuale al sistemadi macchine dell’organizzazione capitalistica della produzione. Per questo, il sistema della formazione, università compresa, diviene il campo dove l’addestramento di una forza-lavoro flessibile si accompagna a una «messa in produzione» di un sapere tecnico-scientifico mediata dal sistema di macchine. Ma ciò che è davvero rilevante è la crisi dei movimenti sociali. Crisi a geometria variabile, ovviamente. In America latina è difficile parlare di crisi radicale, ma in Europa, negli Stati Uniti e in Asia la recessione economica alimenta il lessico politico della destra populista. Allo stesso tempo, «l’unità d’azione della moltitudine corrisponde alla molteplicità delle espressioni di cui essa è capace» di cui parla Negri rimane imbrigliata in una ambivalenza che il conflitto non riesce a sciogliere. E forse ciò che indica l’autore come problema irrisolto - quello dell’organizzazione politica della moltitudine - è il nodo teorico su cui misurare le capacità di un pensiero politico che assume la cesura postmoderna come scommessa e parte del problema da risolvere.

sabato, luglio 19, 2008

Occhio alle mani. Ma quelle sugli archivi

di M. Bascetta
da il manifesto - 17 luglio 2008

L'emendamento vien di notte, favorito dal sonno bipartisan della ragione. Dal 2010 i cittadini italiani dovranno imprimere le proprie impronte digitali sulla carta d'identità. Cesserà finalmente la discriminazione tra pregiudicati e non, tra i rom e gli altri: è il trionfo dell'eguaglianza nel segno dello stato di polizia. Di fronte a un siffatto successo del pensiero egualitario l'opposizione chiede al ministro Maroni di sospendere il censimento poliziesco delle comunità rom: il controllo totale arriverà comunque, senza perdere la faccia in Europa, senza urtare sensibilità ecclesiastiche, senza sospetto di discriminazioni razziali.

Ma il ministro leghista non demorde: si, sono tutti potenziali criminali, ma chi più, chi meno, e dunque con gli zingari si comincia da subito. All'arma dell'emergenza e della propaganda è sempre difficile rinunciare. Fatto sta che sulla schedatura generale della popolazione italiana ben pochi hanno qualcosa da eccepire. Né i liberali che un tempo leggevano e apprezzavano l'Orwell "antitotalitario", né i democratici che pensavano, sempre in quel tempo remoto, che la convivenza civile dovesse fondarsi più sulla fiducia che sul perfezionamento del panopticon poliziesco e il proliferare della delazione.

Tra i molti paradossi dell'ossessione securitaria c'è la convinzione, infinite volte smentita dalla storia nei piccoli come nei grandi fatti, che l'apparato del controllo non possa mai cadere in cattive mani, che il potere sia sempre e per definizione buono e al servizio dei cittadini. Un paradosso tanto più inquietante nel momento in cui, in risposta alla classica domanda «chi custodisce i custodi?», giunge la sentenza del processo di Genova che mette in salvo gli aguzzini di Bolzaneto. Ma, si sa, le forze dell'ordine sono formate da cittadini al di sopra di ogni sospetto e anche di qualche acclarato reato.

Se c'è qualcosa che la ex sinistra comunista avrebbe dovuto gettare senza indugi nella pattumiera della storia è proprio l'invasività dello stato nella vita dei singoli, la vocazione alla sorveglianza, il conformismo imposto per legge, il sospetto preventivo e generalizzato. E, invece, proprio a questi turpi aspetti, sembra essere rimasta tenacemente affezionata. Così la schedatura universale può essere vergognosamente celebrata come una risposta democratica alla schedatura di una sola etnia, contro la quale ci si sarebbe dovuti battere con ogni mezzo necessario. Non ci vuole troppa fantasia per immaginare come questo immenso archivio di impronte digitali potrebbe essere utilizzato. Magari per scoprire chi ha distribuito un certo volantino o premuto i tasti di un computer irriverente?

Naturalmente non c'è chi non sappia (bambini compresi) che ogni criminale che si rispetti fa uso dei guanti. Non è da escludere, allora, un ulteriore emendamento notturno che vieti il commercio di questo capo d'abbigliamento. O forse seguiremo l'ingegno della Stasi che raccoglieva e archiviava l'odore dei corpi. Anche se riportare gli odori sulla carta d'identità da far annusare, all'occorrenza, ai cani-poliziotto non sarà impresa delle più semplici.

Foto di
Xipe Totec39 [Hand prints], con licenza Creative Commons da flickr

giovedì, luglio 17, 2008

Se l'Unione è vuota

di Slavoj Žižek
da il manifesto - 15 luglio 2008

Ci sono momenti in cui siamo così imbarazzati dalle dichiarazioni pubbliche dei leader politici del nostro paese da vergognarci di essere loro connazionali. A me è successo leggendo come ha reagito il ministro degli esteri sloveno quando gli irlandesi hanno votato no al referendum sul Trattato di Lisbona: egli ha dichiarato apertamente che l'unificazione europea è troppo importante per essere lasciata alle persone (comuni) e ai loro referendum. L'élite guarda al futuro e la sa più lunga: se si dovesse seguire la maggioranza, non si otterrebbero mai le grandi trasformazioni, né si imporrebbero le vere visioni. Questa oscena dimostrazione di arroganza ha raggiunto l'apice con l'affermazione seguente: «Se avessimo dovuto aspettare, diciamo così, una iniziativa popolare di qualche tipo, probabilmente oggi francesi e tedeschi si guarderebbero ancora attraverso il mirino dei loro fucili». C'è una certa logica nel fatto che a dirlo sia stato un diplomatico di un piccolo paese: i leader delle grandi potenze non possono permettersi di esplicitare la cinica oscenità del ragionamento su cui poggiano le loro decisioni - solo voci ignorate di piccoli paesi possono farlo impunemente. Qual è stato, allora, il loro ragionamento in questo caso?

Il no irlandese ripete il no francese e quello olandese del 2005 al progetto della Costituzione europea. Esso è stato oggetto di molte interpretazioni, alcune delle quali anche in contraddizione tra loro: il no è stato un'esplosione dell'angusto nazionalismo europeo che teme la globalizzazione incarnata dagli Usa; dietro il no ci sono gli Usa, che temono la competizione dell'Europa unita e preferiscono avere rapporti unilaterali con partner deboli... Tuttavia queste letture ad hoc ignorano un punto più profondo: la ripetizione significa che non siamo di fronte a un fatto accidentale, ma con un'insoddisfazione perdurante negli anni.

Ora, a distanza di un paio di settimane, possiamo vedere dove sta il vero problema: molto più inquietante del no in sé è la reazione dell'élite politica europea. Questa non ha imparato niente dal no del 2005 - semplicemente, non le è arrivato il messaggio. A un meeting che si è tenuto a Bruxelles il 19 giugno i leader dell'Ue, dopo avere pronunciato parole di circostanza sul dovere di «rispettare» le decisioni degli elettori, hanno presto mostrato il loro vero volto, trattando il governo irlandese come un cattivo insegnante che non ha disciplinato ed educato bene i suoi alunni ritardati. Al governo irlandese è stata offerta una seconda chance: quattro mesi per correggere il suo errore e rimettere in riga l'elettorato.

Agli elettori irlandesi non era stata offerta una scelta simmetrica chiara, perché i termini stessi della scelta privilegiavano il sì: l'élite ha proposto loro una scelta che in effetti non era affatto tale - le persone sono state chiamate a ratificare l'inevitabile, il risultato di un expertise illuminato. I media e l'élite politica hanno presentato la scelta come una scelta tra conoscenza e ignoranza, tra expertise e ideologia, tra amministrazione post-politica e vecchie passioni politiche. Comunque, il fatto stesso che il no non fosse sostenuto da una visione politica alternativa coerente è la più forte condanna possibile dell'élite politica: un monumento alla sua incapacità di articolare, di tradurre i desideri e le insoddisfazioni delle persone in una visione politica.

Vale a dire, c'era in questo referendum qualcosa di perturbante: il suo esito era allo stesso tempo atteso e sorprendente - come se noi sapessimo cosa sarebbe successo, ma ciononostante non potessimo davvero credere che potesse succedere. Questa scissione riflette una scissione molto più pericolosa tra i votanti: la maggioranza (della minoranza che si è presa la briga di andare a votare) era contraria, sebbene tutti i partiti parlamentari (ad eccezione dello Sinn Fein) fossero schierati nettamente a favore del trattato. Lo stesso fenomeno si sta verificando in altri paesi, come nel vicino Regno Unito, dove, subito prima di vincere le ultime elezioni politiche, Tony Blair era stato prescelto da un'ampia maggioranza come la persona più odiata del Regno Unito. Questo gap tra la scelta politica esplicita dell'elettore e l'insoddisfazione dello stesso elettore dovrebbe far scattare il campanello d'allarme: la democrazia multipartitica non riesce a catturare lo stato d'animo profondo della popolazione, ossia si sta accumulando un vago risentimento che, in mancanza di una espressione democratica appropriata, può portare solo a scoppi oscuri e «irrazionali». Quando i referendum consegnano un messaggio che mina direttamente il messaggio delle elezioni, abbiamo un elettore diviso che sa molto bene (così egli pensa) che la politica di Tony Blair è l'unica ragionevole, ma nonostante ciò... non lo può soffrire.

La soluzione peggiore è liquidare questo dissenso come una semplice espressione della stupidità provinciale degli elettori comuni, che richiederebbero solo una migliore comunicazione e maggiori spiegazioni. E questo ci riporta all'improvvido ministro degli esteri sloveno. Non solo la sua dichiarazione è sbagliata fattualmente: i grandi conflitti franco-tedeschi non esplosero per le passioni delle persone ordinarie, ma furono decisi dalle élite, alle loro spalle. Essa sbaglia anche nel rappresentare il ruolo delle élite: in una democrazia, il loro ruolo non è solo governare, ma anche convincere la maggioranza della popolazione della giustezza di ciò che vanno facendo, permettendo alle persone di riconoscere nella politica di uno stato le loro aspirazioni più profonde alla giustizia, al benessere, ecc. La scommessa della democrazia è che, come disse Lincoln molto tempo fa, non si può ingannare tutti per sempre: sì, Hitler andò al potere democraticamente (anche se non proprio...), ma nel lungo periodo, nonostante tutte le oscillazioni e le confusioni, bisogna avere fiducia nella maggioranza. È questa scommessa a tenere viva la democrazia - se la facciamo cadere, non stiamo più parlando di democrazia.

Ed è qui che l'élite europea sta miseramente fallendo. Se essa fosse veramente pronta a «rispettare» la decisione degli elettori, dovrebbe accettare il messaggio della persistente sfiducia delle persone: il progetto dell'unità europea, il modo in cui esso è formulato attualmente, è viziato in modo sostanziale. Gli elettori stanno scoprendo la mancanza di una vera visione politica al di là della retorica - il loro messaggio non è anti-europeo, anzi, è una richiesta di più Europa. Il no irlandese è un invito a cominciare un dibattito propriamente politico su che tipo di Europa vogliamo veramente.

In età ormai avanzata, Freud rivolse la famosa domanda Was will das Weib? - Cosa vuole la donna? - ammettendo la sua perplessità di fronte all'enigma della sessualità femminile. Il pasticcio con la Costituzione europea non testimonia forse lo stesso smarrimento? Cosa vuole l'Europa? Che tipo di Europa vogliamo?

Foto di Sebastià Giralt [Mosaic del rapte d'Europa, Aquileia], con licenza Creative Commons da flickr

martedì, luglio 15, 2008

Una cultura «altra», in attesa del silenzio

di V. Evangelisti
da il manifesto - 13 luglio 2008

I centri sociali furono un tentativo di perpetuare l'eredità del '77 in anni duri e di feroce repressione. Facevano leva su due temi salienti dell'Autonomia: il «contropotere territoriale» e la socialità alternativa, prima di allora teorizzata da Lotta Continua, quando era ormai prossima allo sfascio. In pratica si trattava di sperimentare pratiche di vita comune autogestita, distanti dalle logiche di potere, e destinate a dilatarsi sul territorio. Nessun modello esistenziale valido fuori doveva riprodursi dentro: dall'ansia di competere alle discriminazioni sessiste. Ma non ci si doveva ritirare in una sorta di Shangri-La, o in un monastero benedettino resistente ai barbari (come ha di recente teorizzato a sorpresa Bifo, vinto dal pessimismo). Compito dei Csoa (Centri sociali occupati autogestiti) era compattarsi dentro per proiettarsi fuori. Definire uno stile di vita per poi imporlo, con le buone o con le cattive. Conquistare spicchi di metropoli.

Il modello era naturalmente il Leoncavallo di Milano, però erano ammissibili varianti locali. A Bologna credo che il primo centro sociale a sorgere fosse il Crack. Ospitato in una baracca poi demolita dal Comune, si trasferì in una seconda più ampia, sotto le mura dell'ex manifattura tabacchi. Lo gestivano punk politicizzati e autonomi dissidenti dal filone centrale padovano-romano. L'esperienza durò alcuni anni e si esaurì. Offrì concerti di gruppi punk provenienti da tutto il mondo, discussioni interminabili, manifestazioni «cattive», canzoncine leggendarie («Siamo gli autonomi, siamo i più duri», «Fate largo quando passa la commissione mensa»). Il rapporto con la città? Totalmente conflittuale. Dal Crack si partiva per occupare case e costruire barricate. Si disprezzava Bologna (bottegaia, provvisoriamente picista e codina) come Bologna ci disprezzava.

Dopo il Crack venne La Fabbrica. Un Csoa importantissimo, gestito questa volta dagli autonomi «ortodossi» aderenti al comitato nazionale detto «anti anti» (antimperialisti, antimilitaristi). L'accento fu spostato sui lavoratori immigrati, cui la sinistra istituzionale non prestava attenzione. La Fabbrica li organizzò, nei limiti del possibile. Si aprì anche a una serie di sperimentazioni musicali e teatrali. Tra le colonne enormi di uno stabilimento in disuso si fecero esperienze che le istituzioni si guardavano dal proporre. La cultura «vera» bolognese è transitata anche tra i capannoni de La Fabbrica, piccola società retta dai criteri dell'uguaglianza.

Lo stesso potrei dire per la breve esperienza del Csoa «Il Pellerossa», in piena zona universitaria, e per Villa Serena, stabile molto periferico ma magnifico. Troppe divergenze tra le componenti del movimento, ai tempi della Pantera, fecero implodere quelle occupazioni, senza necessità di una repressione esterna. Resistette solo il Livello 57, creato da militanti provenienti dall'ex Crack. Specializzato in tematiche antiproibizioniste, offrì per anni concerti a un ritmo quasi quotidiano e resistette a mille traversie. Le sue Street Parade annuali diventarono un appuntamento fisso per giovani provenienti da tutta Italia. Per fare scomparire il Livello occorreva un fattore nuovo, che infine arrivò. Di nome faceva Sergio, di cognome Cofferati. Il giustiziere dei centri sociali, per lui puro fattore di disordine in una città che voleva ridotta al rigor mortis.

Prima dell'elezione sciagurata dello sceriffo altri centri erano sorti, e tuttora sopravvivono. Il Tpo, Teatro Polivalente Occupato, nacque appunto in un teatro abbandonato della zona universitaria, poi si trasferì in un acquario in disuso della prima periferia. Adesso sorge nei pressi della stazione ferroviaria, ed è un modello di organizzazione. Promosso da un gruppo di gestione legato ai Disobbedienti padovani, ospita un bar dai prezzi politici, una palestra, una scuola di lingue per stranieri, una radio e altro ancora. In passato conteneva persino un sex shop gestito da femministe (che non hanno saputo resistere, purtroppo, al «dialogo» con Cofferati) e ha avuto ospiti illustri, da Stefano Benni ad altri scrittori e artisti. Grazie ad accordi stipulati quando sindaco di Bologna era Giorgio Guazzaloca, di destra ma tollerante, il Tpo ha vita abbastanza sicura.

Molto travagliata è invece l'esistenza del Laboratorio Crash! Promosso da autonomi «tradizionali» ex Fabbrica, poi sostituiti da leve più giovani ma non meno determinate, combatte con le unghie e con i denti i continui tentativi di sopprimerlo. A un primo sgombero, da un deposito delle ferrovie abbandonato da decenni, ha reagito occupando, nella stessa via, un'antica fabbrica di gelati inattiva da tempo immemorabile. Certi spettacoli di musica d'avanguardia li si trova solo lì. La facciata è dipinta da Blu, un writer multato a Bologna e premiato a New York.

Altri centri sociali, come il Vag61 e l'Xm24, sono invece fusioni di collettivi disparati, dalle molteplici attività e interessi. Settantasettini dai capelli ormai ingrigiti si mescolano a giovani sovversivi, ribelli alle convenzioni. Giovanile è anche il parterre del Lazzaretto occupato, sito in un casolare ai margini della città. Anche qui si può ascoltare gratuitamente musica inconsueta e non commerciale, spesso di altissima qualità.

Fino a poco tempo fa, erano tutti spesso in lite tra loro. La politica della terra bruciata di Cofferati li ha quasi costretti a compattarsi. Non davano fastidio solo per le attività culturali, di cui la giunta comunale se ne frega altamente, ma anche per il loro attivismo politico antagonista. Manifestazioni contro i Cpt, antirazziste, antifasciste, contro la guerra, contro la discriminazione sessuale. Troppo, per un municipio che vagheggia grandi opere in centro e periferie silenziose. Dunque si butti giù, si demolisca. Poco importa che i centri sociali paiano - faticosamente - prefigurare ciò che dovrebbe essere la sinistra. Noi si è una variante moderata della destra. O no?

Partano dunque le ruspe, e torme di vigili urbani finalmente armati come si deve. Attualmente i centri sociali garantiscono concerti, presentazioni di libri, teatro, rassegne di cinema quasi ogni giorno. Non se ne può più. Il cittadino medio bolognese ne ha le scatole piene. Non riesce nemmeno a contare, causa il rumore, quanto denaro ha estorto oggi a uno studente per un posto letto. Bisogna finirla. Non ci è riuscito Guazzaloca? Ci riuscirà Cofferati. Prima o poi, si spera, regnerà su Bologna il silenzio totale. Così confortevole.

Foto di
Libera Strega / LOL² A [una porta al centro sociale], con licenza Creative Commons da flickr

lunedì, luglio 14, 2008

Foucault au secours des intermittents

di C. Fabre
da Le Monde - 11 luglio 2008

On ne lira dans cet ouvrage ni slogan ni formule de calcul pour l'assurance-chômage des artistes et des techniciens du spectacle. Il ne s'agit pas non plus d'un "retour sur" la lutte menée depuis la réforme de juin 2003, entre manifestations et annulations de festivals. Intermittents et précaires rend compte d'une enquête menée sur les conditions de travail de tous ces professionnels du spectacle qui alternent périodes d'emploi et de chômage, au fil des projets qu'ils mènent pour le compte de leurs (multiples) employeurs.

Les auteurs en tirent une réflexion prospective sur la notion de travail : tel une avant-garde, le mouvement des intermittents remet en cause le couple binaire emploi-chômage et nous invite à reconstruire les bases de la protection sociale, nous disent Antonella Corsani, chercheuse de l'équipe Matisse du centre d'économie de la Sorbonne et cofondatrice de la revue Multitudes, et Maurizio Lazzarato, philosophe.

De l'automne 2004 au printemps 2005, une enquête avait été menée par l'équipe de chercheurs Isys (composante du Matisse de Paris-I et du CNRS) à la demande de la Coordination des intermittents et précaires et avec le soutien de la région Ile-de-France. A l'époque, la presse avait critiqué la méthode au motif que des intermittents eux-mêmes participaient à cette étude auprès d'économistes, de sociologues, de statisticiens. Les auteurs défendent leur "expertise citoyenne" qui fait coopérer spécialistes et profanes. Une méthodologie qui interroge les relations entre "savoir, pouvoir et action", expliquent- ils, comme l'ont pratiquée Michel Foucault ou encore Pierre Bourdieu dans son enquête sur La Misère du monde (Seuil, 1993).

Ces précisions faites, les auteurs dressent un tableau inquiétant de l'intermittence. Ou comment la fabrication des spectacles, de documentaires, etc., obéit de plus en plus à une logique de rentabilité, dans un univers où il n'y a "que des cas particuliers": ainsi, le temps de travail sera scrupuleusement comptabilisé dans les secteurs fortement syndiqués ou, au contraire, déclaré de manière forfaitaire, à charge pour le "porteur de projet" de négocier au mieux son cachet.

Sans parler de la variabilité des salaires journaliers ni de la stagnation des revenus, voire de leur baisse depuis dix ans. Certains - des réalisateurs, mais aussi des compagnies de théâtre travaillant au sein d'une collectivité locale - reconnaissent travailler "à la commande". Comme s'ils répondaient à la demande d'un client, ce qui interroge la notion de création. La réduction des budgets et des temps de production impose aux compagnies de réorganiser le travail autour des postes jugés indispensables. L'artistique perd du terrain face à la communication, le nerf de la guerre étant la diffusion des spectacles, dans un contexte très concurrentiel...

Loin des auteurs l'idée que l'intermittence serait à bannir. Au contraire. N'en déplaise aux syndicats, disent-ils, l'emploi stable à vie n'est pas "souhaité et souhaitable par tous". "L'intermittence, sous certaines conditions, est bien cette possibilité pour tout un chacun de garder la maîtrise du temps, de ses intensités (...). Une liberté de mener des projets hors des normes de l'industrie culturelle et du spectacle et, enfin, last but not least, une arme fondamentale dans la négociation des salaires et des conditions de travail", soulignent Antonella Corsani et Maurizio Lazzarato dans le dernier chapitre. Observant que d'autres professions intellectuelles partagent avec les intermittents des pratiques communes, ils appellent à une réflexion sur "un nouveau statut du travail et sur de nouveaux droits sociaux". Stimulant et revigorant.

Intermittents et précaires, d' Antonella Corsani et Maurizio
Lazzarato. Ed. Amsterdam, 232 pages, 18 €

mercoledì, luglio 02, 2008

La condizione post-coloniale

di Salvatore Cavaleri
da kom-pa

Viviamo in una post-epoca?
O forse sarebbe meglio dire che viviamo nell'epoca dei “post”?
Quesiti che nascono spontaneamente gettando lo sguardo agli innumerevoli appellativi che hanno definito la nostra condizione proprio a partire dall'oltrepassamento dell'epoca passata: post-moderno, post-industriale, post-fordista, post-storica, post-strutturalista, “dopo l'orgia”, “oltre il novecento”, ecc...
In ogni caso c'è sempre un “post” onnipresente, come a sottolineare rotture e continuità con un epoca precedente che non c'è più, ma dalla quale non ci siamo ancora del tutto emancipati [1].
Di questa lunga schiera di "post", quella che, almeno in Italia, ha ricevuto minore attenzione è sicuramente quella di “postcoloniale”.
Risulta preziosa allora la pubblicazione de La condizione postcoloniale di Sandro Mezzadra (Ombre corte, Verona 2008), contributo sicuramente originale per il suo indagare a fondo le questioni che questi studi hanno posto.

Quindi, post-coloniale: per comprendere a fondo la nostra epoca globalizzata non possiamo prescindere, non solo da una lettura storica del processo coloniale, ma anche e soprattutto del processo anti-coloniale di ribellione e resistenza che portò alla liberazione dei paesi colonizzati.

E' infatti con il colonialismo che il capitalismo diventa, già nella sua fase di accumulazione originaria, un sistema - mondo. Ed è con il processo inverso di decolonizzazione che il cerchio si chiude. Da qui in poi sarà impossibile cogliere lo spessore di un singolo avvenimento locale senza tenere conto dei legami globali in cui è inserito.

A partire da “I dannati della terra” di Fanon e “Orientalismo” di Said , fino ad arrivare ai più recenti Bhabha ad Appadurai, gli studi postcoloniali sono diventati punto di confronto imprescindibile, inizialmente in ambito storiografico, per poi essere utilizzati anche in antropologia, sociologia, economia, ecc.
Termini come identità, cultura, razzismo, comunità escono stravolti dalla fittissima elaborazione di scrittori che dell'esperienza di liberazione dalla colonizzazione sono stati protagonisti, narratori e interpreti.
Testi che hanno prodotto un vero e proprio terremoto all'interno del dibattito storico. Sia gli apologeti che i critici dell'età coloniale, infatti, hanno sempre descritto un processo storico lineare e unilaterale che andava dal centro (l'Europa) verso le periferie (le colonie). Non è così, la storia coloniale è stata anche storia anti-coloniale e i protagonisti di questa storia non sono stati solamente i colonizzatori, ma anche e soprattutto le rivolte dei popoli colonizzati.
Non si tratta semplicemente del recupero delle storie minori, ma di far emergere come quelle storie minori, “subalterne”, abbiano avuto un ruolo determinante anche nelle storie “maggiori”.
Con lo sguardo dei posteri oggi possiamo vedere, infatti, quanto la storia faccia brutti scherzi e segua percorsi tutt'altro che lineari. Per un bizzarro gioco dell'eterogenesi dei fini oggi risulta paradossalmente difficile trovare un inglese in India o un francese in Algeria, mentre sappiamo bene quanto rilevanti siano le comunità indiane in Inghilterra e algerine in Francia.
Allora chi ha colonizzato chi?

Mettere in discussione la linearità del tempo storico ha così permesso, inoltre, di far emergere anche la non linearità del presente.
E questo è il secondo contributo degli studi postcoloniali: anche la globalizzazione non è un processo lineare di omologazione. Il globale non fagocita il locale. Piuttosto viviamo tutti in “dimensionali multiple”, in cui ognuno di noi attraversa più tempi e più spazi.
Se nei secoli passati furono solo i colonizzatori a sincronizzare i propri orologi su più fusi orari, oggi è esperienza diffusa: dai migranti che vivono il doppio tempo del paese di approdo e di quello di origine, ai manager dell'alta finanza che aspettano le aperture di tutte le borse del mondo, fino ai fans dei telefilm americani che si sincronizzano con la programmazione dell'Abc e non con quella di Rai2.
Il legame con il territorio del resto, oggi non rimanda più a qualcosa di “originario” o arcaico, non rimanda più cioè ad un dato di natura, quanto piuttosto ha a che fare con l'immaginario, con la capacità dell'immaginazione di inventarsi storie e reinvetare comunità. (cfr. La diaspora interculturale di G. Burgio)

La pubblicazione de “La condizione post-coloniale” è importante perché si inserisce in questi dibattiti, ma con l'esplicita volontà di far emergere il segno di questi processi.
Mazzadra tratta sì della trasformazione della dimensione spaziale e temporale nella nostra epoca, dei fattori culturali e identitari, ma, ci tiene a sottolinearlo sin dalla prima riga, ciò che è realmente in questione nel suo libro è il capitalismo contemporaneo.
Non a caso liet motiv è quello di far emergere come il dibattito postcoloniale fornisca elementi di critica che si intrecciano strettamente con il filone Operaista italiano, soprattutto agli sviluppi successivi “al processo di globalizzazione dell'eredità teorica dell'operaismo italiano seguito alla pubblicazione di Impero”.
Il legame tracciato non è per nulla forzato, ci basti sottolineare come questi due filoni di analisi, tanto l'operaismo quanto gli studi postcoloniali, tra i pochi a fornire realmente elementi per comprendere lo stato del capitalismo attuale, abbiano in comune: la capacità di comprendere la natura conflittuale dei processi, il mettere in discussione la linearità dello sviluppo storico, il sottolineare sempre il ruolo produttivo e creativo dei subalterni (o delle moltitudini), il pensare la globalizzazione smontando le dicotomie dentro-fuori e centro-periferia, l'importanza assegnata ai processi cognitivi e quindi il sempre più stretto legame tracciato tra produzione ed immaginazione. Non smettendo mai di sottolineare che il capitalismo si fonda innanzitutto su una logica di sfruttamento e di dominio.

Mezzadra cioè, più che al postcolonialismo, è interessato alla condizione postcoloniale, condizione in cui tutti siamo immersi. L'importanza di questo libro sta allora certamente nel contributo che da alla comprensione dei processi storici, ma anche e soprattutto è un libro utile per cogliere le potenzialità attuali dei conflitti e l'emergere di nuovi soggetti molteplici.
“In questione non è soltanto che studiando gli slum di Calcutta si possa imparare qualcosa di essenziale per comprendere quel che accade nelle banlies di Parigi, ma anche come i piqueteros argentini possano avere molto da insegnare ai collettivi di precari che agiscono nelle metropoli europee” (pag.13).

[1] In realtà questi termini descrivono una fase di transizione che in molti iniziano a ritenere conclusa. Sono emerse, infatti, negli ultimi dieci anni, definizioni che descrivono la nostra epoca di per sé, senza rifermenti diretti all'epoca precedente. Basti pensare a termini come globalizzazione, mondializzazione o Impero.
Nell'ultimo numero della rivista Posse, Negri a proposito afferma: "Avevamo tuttavia una convinzione, alla fine dei dieci anni di lavoro su Empire e Multitude – una percezione ormai matura – e cioè che la contemporaneità si fosse ridefinita, che fosse terminato il tempo nel quale la determinazione del presente potesse darsi sotto la sigla del post-."
http://www.posseweb.net/spip.php?article95

Foto di Darwin Bell [post modern wall], con licenza Creative Commons da flickr