venerdì, febbraio 29, 2008

giovedì, febbraio 28, 2008

United We State. La Graphic Net Novel italiana

Segnalazione di un bel progetto avviato già da un pezzo ma che ora entra nella sua fase "alta". United We State è la prima graphic net novel italiana, un romanzo a fumetti che viene proposto sul sito omonimo unitedwestand.it che si articola su diversi piani narrativi e che si allarga ben oltre il mezzo narrativo fatto di parole e immagini per cercare un arricchimento dalla contaminazione con la Rete e gli strumenti offerti da questa.
Un buon esempio di costruzioni grassroots di universi narrativi, che fra l'altro pur scavalcando ne
ll'immeditezza l'intermediazione di un editore non si nega - anzi... - la possibilità di riagganciare in un secondo tempo la via editoriale tradizionale.

Se conoscete il sito del romanzo - o, meglio, dell'oggetto narrativo - Manituana di Wu Ming troverete molte assonanze, vista la medesima tensione a rompere le barriere fra autore-lettore e offrendo un universo di riferimenti che permette, volendo, la costruzione di interi mondi narrativi. Fra le altre cose il progetto United We State in parte può rispondere ad alcune delle sollecitazioni espresse da Wu Ming 2 sull'ultima newsletter Giap! a proposito di Cosa non funziona negli audiolibri, in cui evidentemente si discute di come allargare gli spazi della narrativa ai diversi mezzi espressivi oggi a nostra disposizione.

Di seguito l'introduzione al progetto dal sito di United We State e il trailer.

p.s.: ah, già che ci siete leggetivi please l'editoriale del numero di Giap! citato,
Liberarsi della mentalità del ghetto. Una lettura che fa soffrire ma assolutamente condivisibile, basta guardarsi attorno e in ogni langa di queste terre italiche si scovano le dinamiche tribali e ghettizanti descritte da Wu Ming 2.
(frnc)


United We Stand è innanzitutto un fumetto.
Ma non vive di sola carta e inchiostro…

United We Stand racconta la storia del primo Colpo di Stato militare nella storia del nostro paese, che avrà luogo il 12 aprile 2013, un minuto dopo la vittoria democratica delle sinistre.
Un minuto dopo l’elezione del primo Presidente del Consiglio donna della storia repubblicana. United We Stand è una storia di ribellione, vendetta e onore. È una storia di nostalgia, ricordi, affetti perduti e ritrovati. United We Stand è la storia del peggior conflitto bellico che l’Italia abbia mai dovuto affrontare dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. È la storia di uomini e donne che lottano, amano, vivono e muoiono.


mercoledì, febbraio 27, 2008

La vita di San Precario. Aspettando la MayDay...

da chainworkers


PRECARIO SANTO da Preco, instabile; malfermo; senza equilibrio, XXI secolo D.C.
Nelle leggende, santo patrono di sfrattati, poveri, sottooccupati, sfruttati, ricattati, Co.Co.Co, assunti non in regola e dipendenti a termine. Invocato contro liberismo, caporalato, infortunio senza copertura, cooperative e mobbing. Si festeggia il 29 febbraio.

La leggenda di Precario è raccontata nella "Leggenda Aurea", una raccolta di vite di santi scritta nel XXII secolo da Jacopo da Varaggine. Precario era figlio di una famiglia borghese Brianzola e studiò "Finanza creativa" nelle migliori università del nord Italia . All’età di 25 anni decise, in contrasto con la famiglia , di vedere il mondo e di cercarsi lavoro in modo indipendente. Nonostante il padre godesse di ottimi appoggi fra cui l’iscrizione alla "P2" e il "Gladio d’oro" infatti, Precario era molto inquieto perché "Non capiva".

Proprio durante queste sue riflessioni venne a sapere che un tale di Arcore di nome Silvidoro, già in odore di santità aveva ricevuto, pare per intervento divino, i fondi per creare dal nulla tre televisioni. Precario allora si recò in visita al villaggio del profeta dove esso stava fondando un nuovo stile di vita basato sul doppiopetto e sermoni incomprensibili. Costui lo invitò ad una cena di finanziamento e, dopo una minerale gasatissima, gli disse una delle sue famose centurie "E’ facile dire di avere le unghie pulite quando ci si lava i capelli tutti i giorni" . Precario usci dal luogo di pellegrinaggio con 4000 monte d’oro in meno ( la leggenda dice che tanto valesse il banchetto di finanziamento) pieno di speranze pronto per fondare un Club. Ma, sulla via del ritorno, incontrò un gruppetto di manifestanti che stava protestando per la chiusura della fattoria dove lavoravano.

Essi gli dissero che il villaggio sarebbe stato abbandonato e che donne bambini avrebbero dovuto emigrare perché in zona c’erano solo lavori temporanei i quali non garantivano una vita dignitosa. Aggiunsero inoltre che da quando un certo Venerabile Treu aveva, anni prima, fatto nuove leggi, le cose andavano sempre peggio. Precario guardò la folla e pronunciò la sua famosa frase: " Cazzate, mi hanno detto che è solo propaganda filo comunista". Quindi promise che sarebbe tornato al villaggio due anni dopo con un contratto di lavoro e molte monete d’oro. Il tutto, naturalmente, senza avvalersi della famiglia e delle sue potenti conoscenze. Si vestì quindi di sacco e si mise a cercare lavoro. Trovò per prima cosa un impiego in una locanda fast food dove, dopo essersi prostrato per un anno, alla sua richiesta di contratto a tempo indeterminato gli risposero "Bella battuta!". Quindi lavorò in un ipermercato per i successivi cinque mesi dove faceva orari infami per uno stipendio da fame. Vista l’impossibilità di trovare un lavoro decente, decise allora di spiegare agli stolti manifestanti che, nonostante un lavoro precario, si poteva condurre una vita agiata e piene di soddisfazioni.

Progettò di comprare casa e di arredarla ma, già alla prima agenzia immobiliare, gli dissero "No lavoro stabile, no contratto. Lo stesso accadde per i mobili, ma stavolta la riposta fu più dirompente " No lavoro fisso. No finanziamento per Tv color". Precario allora si arrese e, tornato al villaggio, fece la sua pubblica ammenda. Da allora il Santo girovagò per il mondo e si prodigò per gli oppressi e i precari. La sua fama crebbe e molti miracoli furono a lui attribuiti. Il più famoso è sicuramente quello dei prolungamento all’infinito del contratto di un giovane di Barletta e della concessione di infortunio ad una ragazza di Padova, dopo che questa si era ferita durante il lavoro in una cooperativa del nord est.

Nell’arte religiosa moderna San Precario è spesso raffigurato con divise di supermercati o di fast food. Il suo attributo caratteristico e il contratto di lavoro che tiene in mano. Marinnoni ha rappresento il santo sulle vetrate della chiesa di San Paganino, mentre cambia lavoro 7 volte in una giornata. Peyon invece, in un’enorme tela custodita alla fondazione Mappini, lo mostra mentre gli vengono negati, causa mancanza di un lavoro fisso, sia un mutuo che l’acquisto a rate di un televisore. Uber di Tanze Plazze, lo ritrae in alcune fasi della sua vita, per esempio, mentre frigge patatine nel fast food di un centro commerciale.

martedì, febbraio 26, 2008

La condizione postcoloniale. Storia e politica nel mondo globale - di Sandro Mezzadra

Recensione di Miguel Mellino - da il manifesto

Nella loro introduzione a Translation, Biopolitics and Colonial Difference, Naoki Sakai e Jon Solomon – due dei critici più originali degli studi postcoloniali asiatici ospiti a Bologna nei giorni scorsi di due seminari sul tema della traduzione – affermano che le “entità macro-spaziali (stati-nazione, regioni o altre comunità culturali omogenee) lasciateci in eredità dalla modernità coloniale non sono la traduzione letterale di un qualche presunto soggetto trascendentale (come la sovranità nazionale o l’Occidente) ma una forma storicamente specifica di “appropriazione del comune”. Se guardiamo ai conflitti più importanti del nostro presente, si può certo sostenere che questa descrizione del progetto coloniale moderno restituisca una dimensione politica davvero cruciale a uno dei presupposti essenziali degli studi postcoloniali: il capitalismo moderno si è costituito sin dalla sua nascita come una “macchina produttrice di differenziazione”, si è sempre dispiegato attraverso dispositivi biopolitici di segregazione e di confinamento.

Sakai e Solomon sono piuttosto chiari su questo punto: le recinzioni materiali si sono da sempre accompagnate a recinzioni immateriali. I processi di accumulazione originaria hanno riguardato certo i beni materiali, ma hanno scatenato la loro violenza anche sulle culture, le lingue, i saperi. Attorno a premesse di questo tipo è andato configurandosi negli studi postcoloniali un importante dibattito sulla nozione di “capitalismo postcoloniale”. Può dirci davvero qualcosa sulla condizione globale contemporanea? Il libro di Sandro Mezzadra “La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale” (Ombre corte) offre a questo dibattito un contributo sicuramente originale e ricco di spunti.

Sin dalle prime pagine, e “correggendo” un importante deficit politico e di radicalità che attraversa buona parte della critica postcoloniale di matrice anglosassone, Mezzadra mette bene in luce che ciò che intende per “condizione postcoloniale” ha a che vedere soprattutto con i modi in cui sono andate articolandosi sia la costituzione materiale dell’attuale capitalismo globale, sia le insorgenze che lo attraversano e che ne contestano i principi. Aprendo l’archivio degli studi postcoloniali in modo volutamente (e giustamente) “selettivo” Mezzadra colloca al centro della sua analisi la nozione di “confine” o, meglio, quel principio di confinamento spaziale e temporale che era al tempo stesso “codice e limite interno fondamentale del progetto coloniale”. Come si ricorderà, era proprio questa proliferazione di confini a produrre nelle società coloniali ciò che Frantz Fanon chiamava ne I dannati della terra uno “spazio proteiforme”, ovvero uno spazio sociale eterogeneo caratterizzato dalla coesistenza sullo stesso territorio di diversi modi di produzione, diversi regimi di lavoro e diverse temporalità storiche. In modo estremamente convincente, e affrontando l’argomento a partire da molteplici punti di vista, Mezzadra individua nell’infiltrazione di questi codici coloniali di confinamento negli ex-spazi metropolitani la specificità “postcoloniale” della nostra condizione contemporanea. E’ proprio la diffusione globale di questo principio coloniale di confinamento e quindi l’irruzione di questo spazio “disomogeneo” o “proteiforme” – della frammentazione o eterogeneità sociale, economica, culturale, storica e giuridica tipica degli ex territori coloniali – nel cuore delle stesse metropoli occidentali a consentirci di definire il nostro presente come postcoloniale. Secondo Mezzadra, infatti, “una volta che il confine coloniale ha cessato di organizzare in modo coerente la geografia globale, esso si diffonde virtualmente ovunque, riproducendosi sulla superficie apparentemente liscia del presente globale: accompagna la nuova logica delocalizzata della produzione, segna in modo brutale intere società che furono un tempo capaci di liberarsi dal giogo coloniale, introduce nuove radicali differenze di status e nuove forme di apartheid nell’Occidente postcoloniale, si fortifica fisicamente, condannando potenzialmente a morte chiunque tenti di attraversarlo, passando tra le recinzioni tra Tijuana e San Diego o facendo naufragio nel Mediterraneo”.

E’ così che la condizione postcoloniale, in quanto sintomo della sovrapposizione di quei confini “infrasistemici” che avevano permesso in passato di distinguere chiaramente la dimensione spazio-temporale delle metropoli da quelle delle colonie, mette radicalmente in discussione qualsiasi interpretazione storicistica del presente, qualsiasi tipo di sapere improntato a una qualunque filosofia della storia. In effetti, si tratta di una condizione che vede il riaffiorare disordinato dell’insieme dei passati storici che il capitalismo moderno ha trovato sulla sua strada, in cui “sussunzione formale” e “sussunzione reale” del lavoro al capitale riescono a ibridarsi, a convivere fianco a fianco senza definire una qualche tendenza lineare di sviluppo. Mezzadra però ci mette costantemente in guardia dall’evitare facili analogie tra la condizione coloniale del passato e quella postcoloniale del presente. Il post di postcoloniale non sta mai ad indicare una persistenza stabile e lineare nel presente del passato coloniale. Esprime certamente delle continuità, nel senso che tra le genealogie del presente globale vi è anche e soprattutto il colonialismo moderno, ma non può costituirsi come un semplice equivalente del termine neocoloniale. Soprattutto perché la “scoperta dell’eguaglianza” trasmessaci dalle lotte anticoloniali, il rifiuto del mondo a scomparti tipico della situazione coloniale, costituisce un portato irreversibile del nostro presente. Così, ciò che Mezzadra tiene a sottolineare è che la radicalità delle rivendicazioni di ega-libertè profuse in tutto il mondo dalle insurrezioni anticoloniali ha messo per sempre in crisi la possibilità di assumere come scontato lo stesso principio del confinamento e la conformazione “attorno ad esso di un modello univoco di governo dei processi politici e produttivi, nonché uno stabile assetto dei confini, geo-politici o identitari”. Mi pare che proprio qui il suo lavoro ci offra dei suggerimenti davvero interessanti attraverso cui pensare la nozione di capitalismo postcoloniale: nella sua definizione dell’istanza postcoloniale come condizione instabile e aleatoria in cui le possibilità stesse del capitale – il suo costituirsi come “macchina di differenziazione” – devono essere costantemente riaffermate, ovvero vengono quotidianamente sfidate dalle pratiche di uomini e donne che nella loro irriducibile molteplicità cercano di sottrarsi all’azione dei suoi dispositivi biopolitici di confinamento: nel Chiapas come in Palestina, a Buenos Aires come nelle Banlieues parigine. E che nel momento stesso della loro soggettivazione aprono la questione politica della loro ricomposizione in quanto classe: della traduzione della loro inclusione differenziale nella produzione di un nuovo comune.

domenica, febbraio 24, 2008

The Ideology of Free Culture and the Grammar of Sabotage

di Matteo Pasquinelli

Dall'introduzione della traduzione italiana del testo:

"Facendo incontrare post-operaismo e critica della rete, questo testo cerca di reintrodurre la nozione di surplus in un dibattito sui media dominato da una neutra simmetria tra dominio immateriale e materiale, tra codice e lavoro vivo, tra rete e movimento. Una prima asimmetria è disegnata attraverso la figura concettuale del parassita di Serres e i concetti di eccesso ed energia biochimica di Bataille. In secondo luogo la crisi del sistema del copyright e le contraddizioni del cosiddetto movimento 'Free Culture' sono presi come punti di partenza per delineare una nozione di commons autonomi contro i commons creativi. Terzo, una nuova arena politica è tracciata seguendo la definizione di capitalismo cognitivo di Rullani e la nuova teoria della rendita sviluppata da Negri e Vercellone. Infine, il sabotaggio è riconosciuto come il gesto speculare delle moltitudini per difendere il comune contro la dimensione parassitica della rendita."

Testo originale in lingua inglese The Ideology of Free Culture and the Grammar of Sabotage (formato .pdf)

Testo in lingua italiana L'ideologia della Cultura Libera e la grammatica del sabotaggio (formato .pdf)

mercoledì, febbraio 20, 2008

Schegge di In fabbrica - film di Francesca Comencini

Questo film prodotto dalla Rai ha suscitato molte polemiche, ho forse si prevedeva suscitasse polemiche visto che la sua programmazione è via via slittata, per finalmente essere poi trasmesso sugli schermi degli italiani la settimana scorsa, ça va sans dire su Rai Tre. Certo la fabbrica, con quella strana razza pagana che l'animava oggi non è più di moda come - cosa ancor più grave - non è più di moda discuetere di lavoro e di diritti sulla base della consapevolezza che questi - entrambi - passano per un'altra idea costitutiva di entrambi che è quella di conflitto. Al limite si discute di fare e disfare qualche legge sul mercato del lavoro, di qualche intervento del governo per tutelare il potere d'acquisto dei salari - o del reddito - senza scomodare le imprese e il conflitto, "tagliando" le imposte.

La visione di queste schegge sono comunque consigliate, anche solo per vedere i volti e ascoltare le voci di quegli operai di cui l'identità umana e individuale si è dissolta nel soggetto operaio, che agli occhi di oggi fa apparire l'operaio come qualcosa di metafisico.





Hollywood, picchetti vincenti per i lavoratori

di Sergio Bologna - tratto da il manifesto del 19 febbraio 2008

Mentre l'Italia registrava l'ennesima morte sul lavoro e le lacrime di coccodrillo da sottile rivolo diventavano torrente in piena, io passavo ore a seguire sul video del mio computer di casa le vicende dello sciopero degli sceneggiatori americani. Non è per raccontarlo, meglio di me altri lo hanno fatto, ma per riflettere sulle possibilità della comunicazione oggi che propongo queste considerazioni. Per dire che il soggetto è doppio, noi che seguiamo da lontano e loro che laggiù agiscono e la riflessione va fatta su tutti e due, perché ambedue siamo coinvolti in un processo di trasformazione. Perché ci ho speso del tempo? Perché ormai i comportamenti conflittuali dei «lavoratori della conoscenza» e della «classe creativa» sono diventati il centro della mia riflessione; ritengo questa una delle componenti sociali più dinamiche in tutti i sensi.

L'industria dell'entertainment produce più occupati dell'industria dell'auto e le forme lavorative al suo interno sono dominate dalle figure tipiche del lavoro postfordista, intermittente, mobile, intellettuale, pressato dalle nuove tecnologie ecc... «Devastante» è stato definito questo sciopero e qui è un altro punto importante: ci sono categorie che possono bloccare il processo produttivo e portarlo alla paralisi, dunque dispongono di potere contrattuale. Ma possono farlo se tengono duro tre mesi.
I sindacati si chiamano «gilde» (la Writers Guild of America West che ha bloccato Hollywood e la Writers Guild of America East che ha bloccato Manhattan, 12mila iscritti circa) e qui si conferma il ritorno alle forme originarie, persino medievali, dell'associazionismo operaio, si conferma il valore del mutuo soccorso (da poco è nata negli Usa la gilda delle mamme imprenditrici, di quelle che hanno figli e debbono portare avanti un'azienda, le «mompreneurs» e altro non sono al 75% che lavoratrici autonome, freelancers, vedi il sito www.moms-for-profit.com).

Come altro avrei dovuto seguirlo questo sciopero? Mandando un mail? (please let me know more...). Aspettando che uscisse un libro? Telefonando ad amici in Canada per vedere se ne sapevano di più? Mandando un sms a Patric Verrone? Sono incerto se ritenere più importante la lotta o la produzione d'informazione sulla medesima, due processi creativi e di trasformazione diversi e che si cumulano. Resti di stucco di fronte a siti dove hai tutte le informazioni che vuoi, minuto per minuto, dove ti puoi vedere video in diretta, gallerie di foto e migliaia di blog, di storie personali, di testimonianze su come la lotta ha cambiato le persone.
Un certo Mark Kunerth dice che la picket line non la mollerà mai, anche se dopo una giornata in cui ha girato in tondo ha percorso 29 miglia, perché per lui la gilda è stata più di una famiglia e racconta una storia terrificante, di una moglie incinta che scopre di avere un cancro al cervello e il sindacato gli sta vicino, procura gli specialisti giusti, le cliniche giuste, l'assicurazione con cui riesce a pagare le cure. Oggi moglie e figlia stanno bene. Gli sceneggiatori hanno una lunga storia di lotte, che risale agli anni 60.

La loro controparte è l'Amptp, l'Alliance of Motion Pictures and Television Producers, che ha sede a Encino (California), ne fanno parte gli otto colossi del settore, dalla Fox alla Disney, dalla Nbc a Viacom. Ogni tre anni rinnovano il contratto, il Minimum Basic Agreement (Mba) cui vengono aggiunte altre clausole. Stavolta la richiesta della gilda era importante: gli sceneggiatori volevano una fetta della torta rappresentata dai nuovi supporti, internet, dvd, videofonini ecc.. Ed è su questo che lo scontro si è inasprito. Convinti di logorarli, l'Amptp ha tenuto duro ed è accaduto il contrario. Il fronte padronale si è sfaldato, una a una le piccolo-medie case produttrici hanno firmato contratti separati, mentre i 12 mila compatti andavano avanti sotto una crescente solidarietà, che andava dalla Screen Actors Guild (Sag), che ha il contratto in scadenza nel giugno 2008, ai vecchi Teamsters e all'International Longshore and Warehouse Union, due sindacati dei lavoratori dei trasporti e della logistica (dice niente?).

Sono commoventi le foto dove vedi vecchie glorie del cinema, ottantenni, novantenni, in carrozzella, sfilare coi giovani e inalberare cartelli, c'è una solidarietà intergenerazionale e professionale sorprendente. I membri della gilda erano tenuti costantemente informati dei negoziati, un rapporto tra base e vertice di grande fiducia (anche se all'approvazione dell'accordo finale ci saranno un po' di contrari). La comunicazione via internet è garanzia di questa trasparenza, di questo rapporto democratico. È Richard Freeman che, alla fine degli anni 90, aveva intravisto le grandi possibilità che internet offre all'organizzazione sindacale, all'associazionismo dei lavoratori («Will unionism prosper in cyberspace? The promise of the internet for employee organization» sul British Journal for Industrial relations del settembre 2002). Ma internet richiede un'organizzazione fitta e competenze sofisticate. Per tenere in piedi per tre mesi siti come www.wga.org oppure www.unitedhollywood.com occorre avere una struttura in grado di reagire in tempo reale, un giro di uomini e donne che manco una multinazionale riesce a mobilitare. Oppure è la mia ignoranza di settantenne che piglia abbagli?

Avere potere d'interdizione, di blocco del processo produttivo, oggi ancora non basta, occorre essere collocati in posizioni di grande visibilità e il mondo del cinema è uno di questi. I militanti di Wga hanno bloccato la consegna dei Golden Globe, un business miliardario. La controparte ha ceduto pochi giorni prima della consegna degli Oscar, perché gli sceneggiatori erano pronti a bloccare anche quella. Il loro sciopero ha lasciato a casa decine di migliaia di lavoratori del ciclo produttivo, appartenenti ad altre categorie. L'Amptp sperava che si rivoltassero e rompessero i picchetti, ma non è accaduto e questo vuol dire qualcosa.
Mentre rivedo gli appunti per l'articolo, i testi che ho scaricato, mi viene un'illuminazione. Non ho visto nessun sociologo, nessun professore pontificare su quella lotta, nessuna sentenza sputata da salive accademiche, miracolo! Stare davanti al video e seguire in diretta questi eventi è come assistere al ricostituirsi di tessuti per anni intaccati dalla metastasi del neoliberalismo, dell'individualismo, dell'ideologia del fai-da-te, è tornare a vedere uomini e donne che fanno la cosa più elementare del mondo: difendere la propria condizione di lavoratori. Una cosa familiare per noi un tempo, oggi diventata rara.

Su Rai3, qualche sera fa, è passato il film di Francesca Comencini In fabbrica. Qui c'è la classe operaia vera, te la ricordi? Diamine, riconosco luoghi, volti, situazioni. Manca un sacco di roba, la chimica tanto per dire, manca la Madre di tutte le lotte, quella degli elettromeccanici milanese del '60. Ma non importa, va bene lo stesso e alla fine il capolavoro, le ultime interviste a metalmeccanici di oggi. Due immigrati-zio Tom e due ragazze spente, un capetto contento di essere competitivo. Ecco come li hanno ridotti un quarto di secolo di cure. Torno al video: la Sinistra, dice una notizia, rimette al centro il lavoro. Avrebbe dovuto farlo vent'anni fa. Oggi non sa nemmeno cosa sia il lavoro.

Apocalisse e post-umano. Il crepuscolo della modernità

a cura di Pietro Barcellona, Fabio Ciaramelli, Roberto Fai

IL LIBRO – Gli interrogativi sulla trasformazione tecnologica dell’umano e sulle sue implicazioni politiche costituiscono il filo conduttore di un serrato confronto tra studiosi di filosofia, letteratura, storia delle religioni e scienze umane. L’ottica apocalittica, con la sua pretesa di svelare il senso nascosto e necessario delle faccende umane, rischia di diventare un alibi per operazioni e progetti che si ammantano di una giustificazione o razionalizzazione superiore, presentandosi come espressione di una logica sistemica inderogabile. Discuterne criticamente significa in fin dei conti denunciare la tutela apocalittica dell’agire individuale e collettivo, che riconfigura in termini post-democratici il problema del potere.

“La domanda sul destino dell’umano nel terzo millennio è […] quella che dovrebbe occuparci la mente e il cuore, perché in essa è implicato il rapporto fra la nostra generazione e i nostri figli. Il rapporto fra il presente e il futuro dipenderà dalla pietà verso i nemici e dall’amore che sapremo esprimere verso le generazioni a venire. Anche l’ultima enciclica del Papa sull’amore ci costringe a pensare a un altro linguaggio, oltre la fede e la ragione. A noi contemporanei tocca provare a riprendere il discorso soffocato dalla violenza e dal sangue e destrutturato dall’onnipotenza tecnologica”.

martedì, febbraio 19, 2008

E' on line kom-pa.org: nuovo webmagazine

KOM-PA è un osservatorio transmediale, uno strumento di indagine e riflessione critica sulla trasformazione della Città.

KOM-PA vive a Palermo e guarda il mondo e, al tempo stesso, guarda il mondo per capire Palermo. In pratica, KOM-PA è un webmagazine: un sito web che raccoglie contributi trasversali sulle tematiche che costituiscono, oggi, il terreno di scontro tra le derive della metropoli e le resistenze dei territori. KOM-PA vuole sviluppare percorsi di analisi, d'inchiesta e di narrazione attraverso l'incrocio degli sguardi di osservatori, attivisti, ricercatori e tutti/e coloro che scelgono di vivere, e non subire, il proprio ambiente quotidiano.

KOM-PA vuole essere un moltiplicatore di conoscenze per realtà in movimento; uno spazio di transito per chi costruisce mondi nuovi. Ma soprattutto, KOM-PA è un laboratorio "in progress" per lo sviluppo e l'utilizzo consapevole e critico delle tecnologie; per una comunicazione che proceda con ogni "mezzo" necessario: contributi testuali, video o audio mixati in un unico contenitore ma scelti di volta sulla base delle loro specifiche potenzialità.

www.kom-pa.org

venerdì, febbraio 15, 2008

Vogliamo anche le rose

"Vogliamo anche le rose, il film documentario di Alina Marazzi, va visto oggi: oggi che le conquiste di civiltà e di buonsenso vengono messe a repentaglio da un'idea astratta e catechistica e confessionale e spettacolare della vita, che poi va a ridursi ad alienazione, secondo i dettami di coloro che ritengono di tutelare proprio la vita. Nascere grazie a Ferrara, per vedere, con sindrome trisomica, lo stesso Ferrara: ecco una delle cattive tautologie che ci stanno propinando."
(Gennaro Genna - da carmillaonline - continua a leggere qui)


martedì, febbraio 12, 2008

metiX babel feliX - di Marc Tibaldi

Scopo di metiX babel feliX è cercare di decostruire le politiche legate ai discorsi identitari e di appartenenza e nello stesso tempo provare ad attivare teorie e pratiche politiche di imbastardimento e di creazione, quel complesso di pratiche creative singolari e molteplici che possiamo provocatoriamente chiamare sensibilità planetarie metiX-remiX-babel feliX.

Proponendo queste culture e cercando di mettere a nudo sia ideologie e politiche conservatrici, discriminatorie e razziste, sia quelle che reazionarie non lo sono (ma la cui inadeguatezza impedisce pratiche libertarie più efficaci), il libro contribuisce a ricombinare pensieri e pratiche sociali, culturali ed esistenziali, per una più concreta azione dei movimenti altermondialisti, autogestionari e ribelli. Propositi che possono servire anche contro il riemergere dei vecchi sentimenti nazionalistici, il culto delle bandiere, riallacciandosi a quella tensione che ben si esprime nel celebre canto proletario ottocentesco "nostra patria è il mondo intero / nostra fede la libertà.", ma con la consapevolezza di possedere una lettura evoluta degli strumenti di dominio contemporanei e conseguenti proposte di conflitto.

Queste le coordinate: primo, le rivendicazioni identitarie producono diversità fittizie, simulacrali, ripetizioni di differenze codificate, e sostengono - direttamente o indirettamente, volenti o nolenti - la politica della contrapposizione reazionaria alla globalizzazione; secondo, le diversità anarchiche prodotte dal meticciamento sono invece parte della politica ribelle contro le nuove forme di sovranità. Produzione di soggettività singolari autonome che proliferano nelle soggettività collettive della moltitudine, tenendo come base di riferimento non tanto teorizzazioni a priori sull'identità e l'appartenenza, ma la produzione di identità e appartenenze correlate alle modifiche sociali dei meccanismi di dominio e dei sistemi di sovranità.

Sommario: - RemiX metiX. - Ricomposizione e territorializzazione. - Origine e territorio. - Imbroglio etnico. - Imbastardimento e sensibilità planetaria. - Transculture metiX. - Frontiere, confini, attraversamenti. - Perdenti: NSK, Zorn-Masada, Faboulous Trobadors, Usmis. - Nessuna speranza? Inventiamola. - MiXage.

da www.kappavu.it

Presentazione venerdì 15 febbraio, ore 20.30, Merano (Bz), presso il circolo culturale Est/Ovest, in vicolo Passirio. Parteciperanno l’autore e Eugen Galasso (Università di Firenze).

La sinistra contro il suo destino - di Mario Tronti

tratto da il manifesto - 10 febbraio 2008

Ragioniamo su questo passaggio di crisi politica. Cerchiamo di individuarne le cause nascoste. Spesso accade che si prendano per cause quelle che sono conseguenze e viceversa. Di qui, l'attuale confusione strategica, la vera madre di tutte le sconfitte tattiche. Sgombriamo il campo dalla tentazione di dire che siamo a un passaggio decisivo, che si tratta della crisi finale di qualcosa che c'è stato fin qui. Non è vero.
Non c' è nessuno stato d'eccezione. C'è una normalità che stancamente si ripete, senza che uno scarto, un'eccedenza, un esodo, un che di incomprensibile, irrompa sulla scena pubblica domandando di essere appreso col pensiero.

E', se possibile, sobriamente che dobbiamo ragionare. Ad esempio: questo terrore di un cambio di governo, francamente non riesce, con tutta la buona volontà, ad innescare qualcosa di oscuramente perturbante. Per lo stesso motivo per cui l'altra, appena trascorsa, esperienza di governo non ha suscitato qualcosa di particolarmente affascinante. Piuttosto dovremmo imparare a utilizzare i passaggi dentro una prospettiva, a strumentalizzare il momento per pensare l'altro da questo.
Insomma, per venire a parlare di cose comprensibili: è proprio vero che il nostro bipolarismo politico non funziona per via delle cattive leggi elettorali? Questa leggenda, che ci assilla da inizio anni '90, non sarebbe ora di mandarla in soffitta, insieme ai manichini dei referendari? Il bipolarismo non funziona, perché non ci sono i poli.
Sono finti, sono virtuali, second life , nulla di socialmente reale, la prima vita delle persone sta fuori. Le coalizioni non sono troppo piene di sigle, sono troppo vuote di soggetti.

Appunto, la causa non è la frammentazione politica, questa è la conseguenza di una frammentazione sociale. Le coalizioni la descrivono, la rappresentano passivamente, la subiscono territorialmente, senza la capacità di leggerla, interpretarla, ordinarla politicamente. Perché le coalizioni non sono «forze politiche», come erano un tempo i partiti. Sono aggregazioni di interessi particolari, prima ancora che di ceti politici, di ceti sociali. Questa è una società cetuale. Con la scomparsa delle grandi classi, si è passati a una società di piccole caste, di corpi miniaturizzati, di famiglie-azienda in crisi. E' la «mucillagine sociale», di cui ci ha parlato l'ultimo rapporto Censis, il «sociale selvaggio» di cui parla un certo pensiero femminista, o la «coriandolizzazione» sociale che ha ripreso monsignor Bagnasco.
E' un'altra leggenda quella della politica scollata e lontana dalla società. In verità, è troppo intrisa in essa e troppo da essa condizionata. Le somiglia troppo. La cosiddetta casta politica è anch'essa un prodotto di questo corporate capitalism in sedicesima.

Corpi e strati sono diffusi, favori e privilegi sono richiesti, questa virtuosa società di individui è in realtà un aggregato frantumato e informe di corrosi particolarismi. La società va messa in forma, e in forma politica. E in una storia come la nostra di Stato debole, sono necessarie organizzazioni politiche forti. L'aveva capito quel ceto politico di eccellenza, che aveva scritto la Costituzione repubblicana.
Non l'ha più capito questo ceto politico di risulta della cosiddetta seconda repubblica, che si è lasciato processare sulle piazze, dopo aver dilapidato un'eredità, quella eredità, senza investire nulla in qualcosa d'altro. La crisi attuale è grave perché va oltre la messa in questione del primato della politica, passa ad attaccare con successo l'autonomia della politica. Il combinato disposto di economia, finanza, tecnica e comunicazione si è saldato, qui da noi, con un devastante senso comune di massa antipolitico.

Badate. Questa è la conseguenza vera di quel cambio di egemonia culturale da sinistra a destra, che si è realizzato dalla seconda metà degli anni '80. La crisi italiana della politica nasce lì. Perché, qui da noi, in un paese politicizzato al massimo, se non è presente sulla scena pubblica un'istanza di grande trasformazione, portata e praticata da una forza organizzata, la politica entra in crisi. E produce questo presente riduzionismo tecnicistico: la funzione dell'intellettuale ridotta a servizio di staff, l'attività politica ridotta a rito elettorale, la democrazia ridotta a conta quantitativa, per di più truccata da leggi-truffa. E non da ultimo, anzi per primo, l'azione di governo ridotta ad amministrazione di impresa. Se non mettiamo a tema che la crisi della politica, prima ancora che di carattere morale, è di carattere culturale, non riusciremo a riafferrare il bandolo della matassa.

La crisi grave chiede risposte serie. La soluzione non va cercata in una falsa coesione nazionale, ma in un buon conflitto sociale. Le alternative politiche devono ristrutturarsi su punti di vista alternativi circa il modello sociale che propongono. La competizione è su quale tra i punti di vista, parziali non particolari, sia in grado di dare rappresentazione di un interesse generale. Le proposte hanno oggi bisogno di essere prima di tutto chiare.

Bene ha fatto il Partito democratico a decidere di andare da solo. Per una ragione di fondo: perché ha bisogno, qui e ora, di misurare la sua forza nel paese reale. Solo sulla base di questa verifica potrà progettare il senso, storico non solo politico, di una sua missione, se sarà in grado di darsene una. Credo che abbia il diritto della prova. E dobbiamo darglielo. Sia benvenuta la morte dell'insipido Ulivo parisiano e la fine della confusissima Unione prodiana. L'importante è che non si cambi solo schema elettorale, ma che si metta in campo una sfida strategica. La destra segue, un po' oggi, un altro po' domani. E che segua, è già un passo su quel cammino per un nuovo cambio di egemonia, che rimane l'obiettivo di fondo: forse più importante del risultato dell'immediato confronto elettorale. Tenere l'iniziativa conta di più che vincere di misura. E comunque: ristrutturare il campo delle forze politiche è l'unico varco che permette a questo punto di uscire, in avanti, da questa vera e propria crisi repubblicana. Chi saprà farlo prima, avrà un vantaggio più duraturo.

Questo vale, forse tanto più, per quello che si muove a sinistra del Pd.
Salta il vetusto, e oscuro, schema delle due sinistre. Si profila un partito di centro-sinistra e un partito di sinistra. Non è una semplificazione, è una razionalizzazione più che mai opportuna. Non serve a nulla, e non fa capire nulla, dire polemicamente: quello è il centro, noi siamo la sinistra. Anche qui devono emergere le differenze vere. In quasi tutti i sistemi di occidente, una vocazione maggioritaria si declina ormai o come centro-destra o come centro-sinistra. Questa è la condizione - formale - che costringe la sinistra a ripensare se stessa. Deve differenziarsi da un centro che guarda a sinistra e da una sinistra che guarda al centro. Non è la stessa cosa che differenziarsi da una socialdemocrazia. E' una condizione nuova. Lo spazio è più stretto. Ed è più stretto perché la condizione - materiale - spinge la sinistra ad arroccarsi, ad autoemarginarsi, a considerarsi residuale e testimoniale. Mentre costruisce il suo nuovo esperimento, la sinistra deve combattere contro questo «destino».

Il lavoro, che non è più universo ma pluriverso: è questa la difficoltà vera, dura, della sinistra politica, oggi. Sul punto, è necessario un grosso approfondimento, di analisi e di pensiero. Il lavoro è in frantumi, non più solo per la postazione del lavoratore singolo nel processo produttivo, ma per lo stato della condizione lavorativa nel rapporto sociale. Un lavoro socialmente frantumato non è politicamente visibile. Bisogna farlo vedere. Questa è la visione di cui si deve far carico la nuova sinistra. Portare alla luce questo nascondimento della condizione umana del lavoratore. Esattamente quello che il partito di centro-sinistra non può fare. Non è che non vuole farlo, non può. Per questo è partito democratico e non socialdemocratico. Con una sinistra che si rapporta al centro, vuole rappresentare, con molte ragioni di realtà, quell'opinione di sinistra, con consistenza di massa, che non ha più come riferimento il valore politico del lavoro. Questo ruolo gli va lasciato.

Però, allora, il partito della sinistra ha come compito primario quello di riportare il valore del lavoro al centro dell'agenda politica. Per farlo, ha bisogno di riportarlo per prima cosa al centro del suo progetto politico. Questa non è una pratica escludente di tutti gli altri temi, e non è nemmeno includente. Si tratta di offrire un fuoco intorno a cui aggregare per articolare. Basta sapere a chi si parla, scegliere il proprio campo di ascolto, costruire soggettività sociali certe e con esse e per esse elaborare cultura politica alterativa.
Sinistra unita, sì, ma in che senso plurale? Bisogna intendersi. La ricchezza di esperienze, movimenti, associazioni ha da trovare punti e spazi, magari inediti, di organizzazione, stabile, in lotta contro il tempo. La rete deve rendere visibile una trama. Anche qui, il pluriverso sociale va unificato politicamente. Non serve il circo Barnum. Bisogna offrire, sulle questioni decisive, un punto di vista e una forza in grado di portarlo.

Io non so se la prossima sarà una legislatura costituente. Mi pare di capire che la prossima sarà una campagna elettorale costituente. Si presentano forze politiche nuove in corso d'opera. E' positivo che si presentino nella forma partito: un passo importante per cominciare a reagire alla, ripeto, devastante ondata antipolitica. Il confronto e il risultato saranno una sorta di monitoraggio per ognuno dei soggetti in campo. Dopo, ognuno saprà meglio come procedere. Nel processo generale, il partito della sinistra deve dare il suo contributo in positivo, con lezioni di costume, creatività organizzativa, profondità culturale, autorevolezza propositiva. Le nuove armi della critica sono di questo tipo. Alzare il tiro a volte è l'unico modo per cogliete il bersaglio.

mercoledì, febbraio 06, 2008

Parole al vento sull'orlo dell'ultimo abisso - di Bifo

tratto da rekombinant

Un anno e mezzo dopo le elezioni lo spettacolo che abbiamo sotto gli occhi è catastrofico. Non solo per l'Italia, che quella ormai ci possiamo mettere una pietra sopra e tanti saluti. Ma per la sinistra, se ancora ha senso occuparsene. E soprattutto per la società, quella sì che dispiace davvero veder come l'hanno ridotta.

Compagni della sinistra, vi rendete conto di quello che avete combinato? Ad ascoltare Giordano e gli altri pare di no. Vi rendete conto del fatto che la responsabilità della catastrofe è anche vostra? Chi accetta di votare un protocollo antioperaio, chi vota i crediti di una guerra criminale e perdente non può pensare poi di cavarsela dicendo scusate ma non si poteva far cadere il governo. Perché no? Perché è già successo nel '98 e non possiamo ripetere lo sgambetto? Ma due errori di segno opposto non fanno una cosa giusta.Qualcuno il governo l'ha fatto cadere, e adesso nessuno potrà accusarne la sinistra. Sai che soddisfazione.

In compenso tutti potranno accusare la sinistra di varie altre cose: siete corresponsabili, che lo ammettiate o no, di un governo che non ha realizzato nemmeno una delle sue promesse, non ha cancellato nessuna delle leggi infami che ci pesano ancora sulla testa, e ha prodotto norme assassine come la detassazione delle ore straordinarie.
Per non votarvi mai più basta sapere che mentre inzuppavate un fazzoletto dopo l'altro con lagrime da coccodrillo ai funerali degli operai della Thyssen, accettavate la detassazione delle ore straordinarie. Tutte le parole sulla prevenzione e la sicurezza sul lavoro sono parole ipocrite, se si fa finta di non sapere che detassare le ore straordinarie significa incrementare il numero dei morti e dei feriti sul lavoro.

Allora, da elettore che vi ha votato e non vi voterà più, provo a darvi un consiglio, tanto che fatica mi costa.
Un consiglio semplice: non partecipate alle elezioni. Non presentate nessuna lista di sinistra alle elezioni che si svolgeranno fra un paio di mesi. Cancellatevi, ritiratevi, dichiarate che non si può andare alle elezioni in queste condizioni. Quali condizioni? Quelle che voi non avete avuto la forza il coraggio la decenza di cambiare, cari signori. Le condizioni dello strapotere mediatico di un gruppo finanziario e politico.

Da che mondo è mondo, quando non esistono le condizioni minime per un confronto democratico si fa così:si denuncia la situazione e si chiama il popolo a non andare alle urne.
Tanto statene certi: come me saranno molti quelli che alle urne non ci andranno. Potrebbero diventare una marea. Mettetevi alla testa dell'esercito astensionista invece di piagnucolare per alleanze indecorose il cui fallimento è già sotto gli occhi di tutti.
Lanciate una campagna di denuncia della dittatura mediatica, appellatevi all'Unione europea per chiedere il commissariamento di un paese in cui domina da decenni incontrastato un gruppo finanziario criminale guidato da un apologeta del fascismo.

Chiamate la gente a prepararsi: la guerra afgana in cui vi siete fatti trascinare volge al peggio, la più profonda e più lunga delle recessioni si prepara, l'inflazione taglieggerà i salari che voi avete lasciato a livelli indecenti, le strutture civili del paese che la vostra politica subalterna ha contribuito a devastare cadranno a pezzi (già la scuola è in coma e la ricerca in agonia). Fatevi l'autocritica per la vostra indecente prova di servilismo, e parlate chiaro ai milioni di operai di precari, di insegnanti, di donne che la vostra insipienza ha lasciato soli. Dite con chiarezza che il momento è giunto di organizzarsi per vivere fuori dalle regole del profitto, per la disobbedienza sociale organizzata, per il sabotaggio sistematico del dominio padronale.

Può darsi che la società non sia più in grado di rispondere, ma occorrerebbe provarci, almeno una volta. Morireste almeno con l'onore delle armi. E invece indegnamente precipiterete nell'ultimo abisso. L'ultimo, per fortuna. Così dopo non se ne parla più.

venerdì, febbraio 01, 2008

A proposito di "Storie Orali. Racconto, immaginazione, dialogo"

L'uscita del libro di Alessandro Portelli è una bella novità, per tutte le motivazioni che segnala Bermani nell'articolo pubblicato da il manifesto - e postato qui sotto - e in particolare per il suo carattere di raccolta che faciliterà l'accesso al materiale vario prodotto da Portelli in un lungo arco di tempo. Personalmente ho sempre provato un interesse "a pelle" per la storia orale, sia dal punto di vista metodologico che per quanto riguarda le tematiche delle ricerche sviluppate dagli storici che hanno lavorato nel solco di questa tradizione.

Quindi, oltre a invitarvi a leggere questo libro, segnalo a proposito un altro articolo pubblicato da il manifesto in occasione della pubblicazione del libro di Portelli e scritto da un altro importante protagonista della "storia orale" in Italia, Cesare Bermani. L'articolo, dal titolo Ritorno sul campo, i lavori in corso di uno storico militante, è disponibile qui.

In fine, consiglio una visita del blog di Alessandro Portelli, con molto materiale interessante: oltre ai suoi articoli giornalistici scritti per il manifesto, vario materiale frutto delle sue ricerche ma anche registrazioni di interventi delle sue lezioni di storia alla Sapienza, in cui insegna. Su tutti, segnalo l'articolo pubblicato il 12 dicembre scorso dal titolo Monongah, 1907: l'inferno in West Virginia che riprende i fatti già segnalati su finoaquituttobene nel post finoaquituttobene, Wu Ming, stragi e movimento operaio statunitense.

Il blog di Alessandro Portelli è alessandroportelli.blogspot.com

(frnc)

Diario dal mondo vissuto in prima persona

di Cesare Bermani
tratto da il manifesto - 30 gennaio 2008

Era ora. Era ora che Sandro Portelli desse ai lettori italiani questa ampia raccolta di suoi lavori (Storie orali. Racconto, immaginazione, dialogo, Donzelli, pp. 463, euro 25): saggi che hanno circolato letteralmente in tutto il mondo e che gli studiosi italiani dovevano ascoltare in forma di discorso (e cercare di non dimenticare), rintracciare e archiviare con cura (ma qualcosa sfuggiva sempre, data la varietà dei luoghi in cui vedevano la luce), o leggere nei volumi americani che ne avevano pubblicati una parte nelle loro versioni in inglese.

Si guardi alla nota posta all'inizio di ciascuno dei pezzi di Storie orali e si avrà la prova di quanto ho appena scritto; in essa, infatti, Portelli riporta la storia editoriale nazionale e internazionale di ciascun saggio. Più che un fatto di (giusto) orgoglio, è la traccia di un percorso e la testimonianza che il suo è stato e rimane un lavoro in fieri, che nel corso degli anni ha continuato ad arricchirsi anche attraverso le presentazioni dei frammenti di quel lavoro a pubblici diversi e in lingue diverse e grazie alle discussioni seguite a quelle presentazioni orali o pubblicazioni scritte. E quasi ogni versione cambia rispetto alla precedente, perché la sconfinata interlocuzione a più voci e lingue che Portelli continua da quasi trent'anni sedimenta ogni volta spostamenti dell'ottica, aggiornamenti dell'informazione, accostamenti nuovi.

Un esempio, tra i tanti possibili, che traggo a mia volta dall'aggancio alla cronaca come avrebbe fatto Sandro se avesse finito di scrivere il libro in questi ultimi giorni: in India per parlare di storia orale, scopre una fabbrica ThyssenKrupp a Igatpuri, dialoga a più riprese con le persone del luogo e nel saggio che scrive in seguito collega la vicenda degli acciai speciali della ThyssenKrupp di Terni con quella indiana. Oggi sappiamo qual è l'aggancio che avrebbe introdotto nel suo saggio. Lo avrebbe fatto perché nell'esplorare e trattare la memoria individuale e collettiva dei suoi interlocutori, dovunque si trovino, Portelli difende sia la memoria, sia gli interlocutori stessi. Non lo fa in nome di Strapaese, ma legando sempre il passato al presente in nome di una coscienza civile e di una concezione inclusiva della storia e della cultura. «Per il solo fatto di fare delle richieste, i neri fanno richieste radicali», aveva scritto anni fa Nelson Algren; ecco, già per il solo fatto di raccogliere e rendere pubblici i racconti di lavoratori, partigiani, militanti politici, studenti e così via - donne e uomini - Portelli lavora per raddrizzare le storture di questo mondo.

Il fantasma dell'accademia

È superfluo sottolineare quanto importante sia stato, da questo punto di vista, quel suo recente libro straordinario, L'ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, che dal 1999 impedisce a chiunque di falsificare impunemente la storia di Via Rasella, della Resistenza romana e delle Fosse Ardeatine. E invece vale forse la pena ricordare la più lontana Biografia di una città. Storia e racconto: Terni 1830-1985 che, pubblicata nel 1985, fissò una prima volta un modello di ricerca e utilizzo delle fonti orali in storiografia. È vero, come ricorda in questa pagina Bermani (altro padre nobile della storia orale), che Sandro aveva pubblicato nel 1979 sulla nostra rivista Primo Maggio il saggio «Sulla diversità della storia orale», riproposto ora in apertura di Storie orali. Ma quello era un pezzo metodologico, e polemico (si apriva così: «Un fantasma si aggira per i corridoi dell'accademia: la storia orale»), mentre Terni era la dimostrazione pratica dei risultati che quel tipo di ricerca poteva raggiungere.

Infine, nella formazione del suo metodo di lavoro, è tutt'altro che secondario il percorso testimoniato dai saggi raccolti nel 1992 nel Testo e la voce. Oralità, letteratura e democrazia in America. Tra l'altro, la strumentazione critica indispensabile per «praticare» i testi, di cui Portelli dà prova in quel libro, è proprio quella che manca a tanti storici. Si leggano in Storie orali i saggi su Absalom, Absalom!, sulle narrazioni dei reduci del Vietnam e sul processo 7 aprile per vedere con quale fine perspicacia lo studioso di letteratura sa avvicinarsi ai testi scritti e alle «testimonianze» orali. Ed è con pari finezza e sensibilità che egli dialoga con tutti i suoi interlocutori e ne interpreta per noi le narrazioni. Lo storico orale sa che «quello che abbiamo sottomano non è l'esperienza, il vissuto, la realtà, bensì il loro racconto, una costruzione verbale in cui il narratore... dà forma narrativa alla propria vita».

Ma la persona che racconta, racconta la vita sua e, spesso, di altri. Anche per questo la cassetta degli attrezzi non è una sola. Nelle prime righe di uno dei saggi di Storie orali, «Avere ragione di fronte al padrone. Struttura ed eventi nella vita di Valtéro Peppoloni, lavoratore», Portelli riporta una delle osservazioni critiche usuali nei confronti della storia orale: «Come fai a generalizzare a partire da documenti individuali? Come fai a collegare il personale, il biografico, il soggettivo, con il sociale, lo storico, il collettivo?». La sua risposta non sta solo in quel saggio, naturalmente, ma nella esemplificazione fornita con il complesso della sua opera e nella ripetuta esplicitazione degli strumenti di analisi. Nel testo «L'intervista di storia orale e le sue rappresentazioni», scrive che per ragionare sulla complessa relazione tra le persone, le storie che raccontano e i libri che leggiamo, studiamo e scriviamo «dobbiamo inoltrarci in un territorio... che sta all'incrocio fra storia, antropologia, linguistica e letteratura».

Oltre l'incrocio


È un incrocio affollato. Per questo gli strumenti da impiegare sono plurimi. Dal lavoro di Portelli si desume che a quelli elencati vanno aggiunti quelli di folklore, sociologia, semiotica, musicologia e perfino geografia. Non si tratta di appesantire il bagaglio per scoraggiare chi si avvicina dal farsene carico. Vale semmai il contrario: rendere attraente l'avventurarsi in quell'incrocio, capendo che esistono regole della circolazione che rendono il traffico sicuro. Ma anche, fuori di metafora, ricordare che proprio con la vastità dei suoi interessi, l'utilizzo di strumentazioni diverse e la sensibilità per l'altro - che rendono la sua opera così viva e credibile - Portelli offre anche un modello di intellettuale che nella ricerca ricompone cultura e politica per contribuire a trasformare il mondo.