venerdì, marzo 28, 2008

Intervista a Slavoj Žižek sulla felicità passando per il masturba-telethon e i legami sociali

a cura di Laura Piccinini

La felicità è intrinsecamente ipocrita: in realtà la cosa peggiore che potrebbe capitarci sarebbe ottenere "ufficialmente" quel che desideriamo (o meglio che fingiamo di desiderare). "L'idea che "la felicità sia il dovere supremo" è l'elevazione della trasgressione stessa in imperativo morale. Non ci si deve stupire se negli ultimi anni lo studio della felicità è emerso come una disciplina scientifica: adesso ci sono professori di felicità, istituti di qualità della vita, e persino un Journal of Happiness Studies. Questa disciplina ha due branche: una ha un approccio più sociologico, basato su dati raccolti in differenti culture, professioni, religioni, gruppi economici e sociali. Si tratta di ricerche ben consapevoli del fatto che la nozione di felicità dipende dal contesto culturale. Per esempio, del fatto che è solo nei Paesi occidentali che la felicità è vista come un riflesso del successo personale. I risultati sono spesso interessanti: la felicità non è la stessa cosa della soddisfazione per la propria situazione, ci sono nazioni con un tenore di vita basso o medio eppure percentuali alte di persone molto felici; mentre le nazioni più felici, perlopiù quelle occidentali e individualiste, tendono ad avere i livelli più alti di suicidi e in esse domina l'invidia, ciò che conta non è tanto ciò che hai, quanto ciò che hanno gli altri. Poi c'è l'approccio psicologico, o meglio neurologico, del tipo: i sentimenti di soddisfazione e felicità possono essere valutati grazie a un'esatta misurazione dei processi cerebrali. Nel momento in cui scienze cognitive e New Age si combinano, eccoci di fronte a una sorta di scatto etico: qui dovremmo parlare di bio-morale, l'esatto parallelo nelle menti del dominio della cosiddetta biopolitica sui corpi. Non è stato forse il Dalai Lama a dire: "Lo scopo della vita è la felicità"? Ma per la psicoanalisi non è così.

Eppure, la psicoanalisi si era posta come scopo la cura del "disagio" umano... anche se spesso ha fallito nel suo compito.

Ci sono solo due teorie che implicano e praticano una nozione impegnata di verità: il marxismo e la psicoanalisi. Entrambe sono teorie sull'antagonismo, ma il fatto è che sono antagoniste in se stesse, sempre impegnate in lotte interne, fatte di purghe, scissioni, revisioni e via dicendo. Tanto nel marxismo come nella psicoanalisi la teoria non è solo il fondamento della pratica, in effetti dà conto del perché la pratica, politica o clinica che sia, è alla fin fine destinata al fallimento - del perché prima o poi "le cose vanno storte".
"I grandi casi clinici di Freud sono resoconti di successi parziali e fallimenti finali e, allo stesso modo, i resoconti marxisti dei grandi eventi rivoluzionari (la rivolta dei contadini tedeschi del XVI Secolo, la Rivoluzione francese, la Comune di Parigi, la Rivoluzione d'Ottobre, la Rivoluzione culturale in Cina...) sono anche cronache di grandi fallimenti. Il tempo di queste grandi teorie sembra finito. "Nel 2005 al Libro nero del Comunismo, è poi seguito il Libro Nero della Psicoanalisi, che ne elenca gli errori e le frodi. Eppure ci sono segni che disturbano il compiacimento postmoderno per la fine delle teorie forti. Il successo crescente del pensiero di Alain Badiou, per esempio, è stato recentemente bollato in Francia da Alain Finkelkraut come "il più violento ritorno filosofico del radicalismo, il collasso dell'antitotalitarismo". Ciò che si dava per spacciato, completamente screditato, sta ritornando per vendicarsi. È ben comprensibile la disperazione dei pensatori postmoderni: come può essere che, dopo aver spiegato per decenni in saggi elitari e davanti ai mass media il pericolo dei "cattivi maestri" del totalitarismo, questa filosofia possa ancora rifarsi viva? Invece dovremmo rovesciare la prospettiva e, come direbbe Badiou nel suo inimitabile stile platonico, sostenere che le vere idee sono eterne, indistruttibili, e tornano sempre ogni volta che sono proclamate morte.

Sembra un ritorno del platonismo. Ma anche in Platone resta aperta la questione del modo in cui possiamo mediare questo livello ideale, impersonale, con la realtà individuale. Dopotutto, la psicoanalisi non è anche una teoria di ciò che vi è di più intimo nell'individuo, la sessualità?


Possiamo prendere come esempio uno degli esiti più recenti della liberazione sessuale, il masturba-telethon, un evento collettivo in cui migliaia di uomini e donne si danno piacere per fare azioni caritatevoli, raccogliere denaro per agenzie di salute riproduttiva, e - come dicono gli organizzatori - accrescere la consapevolezza ed eliminare vergogne e tabù che persistono circa questa comune, naturale e sicura forma di attività sessuale. Ma l'istanza ideologica soggiacente alla nozione di masturbazione è segnata dal conflitto tra la sua forma e il suo contenuto: costruisce una collettività traendola da individui pronti a condividere con altri il
solipsistico egotismo dei loro stupidi piaceri. Ciò che è cruciale è il soggiacente patto simbolico che permette ai masturbatori di condividere uno spazio (in California dicono "to share an experience") senza turbare lo spazio dell'altro. Più uno vuole essere solipsista, più una qualche figura di garante segreto, di grande Altro, è necessaria per regolare la sua distanza dagli altri esseri umani.

Tuttavia, un luogo comune recita che, viceversa, oggi siamo di fronte alla crisi completa dei tradizionali legami sociali, insomma di ciò che tu definisci (sulla scorta di Lacan) col nome di grande Altro, il sistema.


Certo: che cosa si va smarrendo nei legami sociali odierni se non il grande Altro? Tuttavia occorrerebbe fare attenzione ai modi di questa sparizione. Quando, più o meno tra un decennio, il denaro sarà diventato un punto di riferimento puramente virtuale, non più materializzato in un oggetto particolare, questa smaterializzazione renderà il suo potere
feticistico assoluto: la sua stessa invisibilità lo renderà onnipotente e onnipresente. Il compito di una politica radicale è pertanto non di denunciare l'inadeguatezza di questo o quel piccolo rappresentante individuale, empirico, del grande Altro (una simile critica rinforzerebbe solo la presa del grande Altro su di noi), ma di smantellare il grande Altro stesso e, in tal modo, liberare il legame sociale che il grande Altro sostiene. Oggi, mentre tutti lamentano il dissolvimento dei legami sociali (e così finiscono per mascherare la loro presa su di noi, che è più forte che mai), il vero lavoro di smontarli è ancora tutto da fare, ed è più urgente che mai.

Puoi farci un esempio di questo lavoro? Cosa dobbiamo fare concretamente, non partecipare ai "masturba-telethon"?


Il problema oggi non è cosa non puoi fare - il divieto positivo - ma il fatto che puoi fare tutto - sesso anale, orale, fist fucking... [Zizek usa il tipico "but" anglosassone]. Però devi indossare guanti, condom, insomma protezioni, distanze minime verso lo spazio dell'altro. Prendiamo l'idea di tolleranza liberale (e magari multiculturale): si sta trasformando sempre di più in un tipo specifico di intolleranza. Ciò che significa veramente è: lasciami in pace, non molestarmi, sono intollerante verso la tua eccessiva prossimità. La stessa nozione di molestia sessuale nelle nostre società occidentali contemporanee andrebbe letta criticamente: l'esperienza di una molestia sessuale o razziale può essere atroce, ma tale nozione rischia di scivolare impercettibilmente in una sorta di nevrosi sociale che non significa altro che un'ingiunzione a stare fuori dal mio spazio privato. Possiamo prendere le cose da un altro lato: di recente in Germania è scoppiata una polemica riguardo alla cultura dominante (Leitkultur): contro il multiculturalismo astratto, i conservatori insistevano che ogni Stato è basato su un predominante spazio culturale che i membri delle altre culture che vivono in quello spazio
dovrebbero rispettare. Naturalmente, i liberal di sinistra hanno attaccato questa idea come razzismo mascherato: invece dovremmo ammettere che, se non altro, questa nozione offre una adeguata descrizione dei fatti. Il rispetto per le libertà e i diritti individuali (anche a costo di sacrificare i diritti di gruppi minoritari), la piena emancipazione delle donne, la libertà di religione (e di ateismo) e di orientamento sessuale, la libertà di attaccare pubblicamente chiunque e qualunque cosa, sono elementi centrali della leitkultur occidentale. Ed è così che dovremmo rispondere a quei teologi musulmani che nei Paesi occidentali protestano contro il modo in cui vengono trattati, ma accettano come normale che, per esempio in Arabia Saudita, sia proibito praticare pubblicamente altre religioni se non quella islamica... La risposta al tipico argomento critico che il multiculturalismo occidentale non è veramente neutrale, che privilegia una specifica visione del mondo, è che noi dovremmo accettare senza vergogna questo paradosso: l'apertura "universalista" come tale è radicata nella "particolare" modernità occidentale. Prendiamo un esempio che viene dall'Italia: nel 2007 il giornale ufficiale del vaticano, L'Osservatore Romano, ha accusato di "terrorismo" Andrea Rivera, un comico italiano che aveva attaccato le posizioni del papa sull'evoluzionismo [al concerto del Primo maggio Rivera aveva detto cose come "Il papa dice che non crede nell'evoluzionismo. Sono d'accordo, infatti la Chiesa non si è mai evoluta"]. Rivera aveva anche criticato la Chiesa per avere negato i funerali cattolici a Piergiorgio Welby, pur avendoli concessi a Pinochet o Franco. Ora, l'equazione soggiacente tra la critica intellettuale e il terrorismo fisico viola brutalmente la leitkultur occidentale europea. Entro la nostra leitkultur L'Osservatore Romano, nel suo rifiuto delle semplici e ragionevoli obiezioni di Rivera in quanto "sfogo di rabbia cieco e irrazionale", è in realtà il vero "terrorista"!".

Nel tuo ultimo libro, In difesa delle cause perse, affronti una serie di temi praticamente spariti dall'agenda postmoderna - dal nazismo di Heidegger al terrore rivoluzionario, allo stalinismo, fino, ahimè, alla dittatura del proletariato...


"Questa volta credo di essermi fatto un po' di nemici... Diciamo che il vero senso della "difesa delle cause perse" non è difendere il terrore stalinista, ma è rendere problematica l'alternativa liberal-democratica, che accettiamo senza riserve. Lo stalinismo, per esempio, fu senz'altro un
incubo che ha causato forse più sofferenze umane del fascismo, ma questa non è tutta la verità: in ciascuno di questi fatti storici vi è stato un momento di redenzione che è andato perduto nel nuovo ordine liberal-democratico - ed è cruciale isolare questo momento. Isolarlo e capire come potrebbe tornarci utile".

(l'origine dell'intervista è purtroppo rimasta sconosciuta, qui è stata ripresa dalla mailing-list Precog)

Günther Anders - Il mondo dopo l'uomo. Tecnica e violenza - a cura di Lisa Pizzighella


“Nei cimiteri in cui riposeremo nessuno verrà a piangerci.
I morti non possono piangere altri morti”
G. Anders

Günther Anders pone il lettore di fronte ad un’evidenza: con l’avanzamento della tecnica l’uomo sta mettendo in pericolo la sua esistenza. Anzi, lo ha già fatto attraverso i tragici avvenimenti delle guerre mondiali, della guerra in Vietnam e dello sgancio della bomba atomica. Se l’uomo, peccando di un ingenuo antropocentrismo, credeva di poter dominare la natura attraverso la tecnica, ora la situazione è rovesciata. Non è più l’uomo il soggetto della storia, bensì la tecnica. Quest’ultima è già oltre ciò che l’uomo potesse immaginare. L’essere umano ha i mezzi per autodistruggersi ed egli ha dato prova di poterlo fare senza rendersene conto. La denuncia di Anders è radicale e fa appello alla necessità di riflettere sulla situazione in cui si trova l’uomo nel mondo che egli stesso ha prodotto e nel tempo da lui definito come terza rivoluzione industriale. In questo tempo l’uomo è giunto ad una pericolosa scissione tra ciò che egli è in grado di produrre e le conseguenze ormai non più immaginabili della sua produzione.
(da voltimimesisedizioni)

Figlio dell'illustre psicologo Wilhelm Stern, riceve una solida formazione umanistica. Allievo di Edmund Husserl, si laurea con lui in filosofia nel 1923. Anders, nato Günther Stern, raggiunto notorietà sin dai primi anni 1960 come un filosofo e attivista del movimento antinucleare. Assimilato come Ebreo tedesco, ha studiato sotto Martin Heidegger e Edmund Husserl, completando la sua tesi nel 1923. Presso l'Università di Francoforte fu respinta la sua abilitazione da Adorno, perciò iniziò a lavorare come critico culturale. Lo pseudonimo Anders nacque da un invito del suo editore di Berlino di cambiare il suo cognome, Stern, in quanto era assai comune tra gli scrittori in Germania e gli suggerì “qualcosa di diverso”. Anders prese alla lettera il suggerimento e si chiamò “diverso” (= Anders in tedesco). Sposa nel 1929 la filosofa Hannah Arendt, da cui divorzierà nel 1936 perché il pessimismo di Anders era "difficile da sopportare", come lei ha ammesso più tardi.
[...]
Strenuamente impegnato contro la violenza del potere e particolarmente contro il riarmo atomico, è conosciuto come un saggista del movimento anti-nucleare ed è uno dei maggiori filosofi contemporanei; è stato uno dei pensatori che con più rigore e tenacia ha pensato la condizione dell'umanità nell'epoca degli armamenti di distruzione di massa. Difatti con Robert Jungk, Anders fu il co-fondatore del movimento antinucleare nel 1954. Pubblicò il suo diario filosofico di una conferenza internazionale su Hiroshima (Der Mann auf der Brücke, 1959) e la sua corrispondenza con il pilota Claude Eatherly che guidò la spedizione per lo sganciamento della bomba su Hiroshima (Off limits für das Gewissen. Der Briefwechsel zwischen dem Hiroshima-Piloten Claude Eatherly und Günther Anders, 1961). I suoi libri politicamente aspri dal 1960 includeranno una lettera aperta al figlio di Adolf Eichmann, un discorso sulle vittime delle guerre mondiali. Nel 1967 presta servizio come giurato al tribunale di Russell per rendere pubbliche le atrocità del Vietnam.
(da Wikipedia)

giovedì, marzo 20, 2008

La normalità del male

di Blicero - da Supporto Legale

Martedì 11 marzo 2008 i pubblici ministeri Petruzziello e Ranieri Miniati hanno letto le loro richieste di pena per i 45 imputati per i fatti di Bolzaneto: le condanne ammontano a qualcosa come 76 anni complessivi, ma solo per 15 degli imputati la pena supera la soglia della condizionale (ventiquattro mesi) e solo per 8 di questi quella dell'indulto (tre anni). Per i restanti trenta le condanne sono di circa un anno (o meno) a testa, anche considerata la peculiarità delle condizioni che si sono verificate a Bolzaneto - hanno detto i pm. Il problema è che non c'è nulla di straordinario in Bolzaneto, se non il fatto che ciò che è accaduto sia sostanzialmente di dominio pubblico.

La caserma del VI Reparto Mobile di Genova a Bolzaneto nel luglio 2001 era uno dei due luoghi adibiti a ricevere i fermati e gli arrestati per poi trasferirli alle carceri di destinazione (o rilasciarli nel caso dei primi). L'altro luogo era Forte San Giuliano, una caserma dei Carabinieri. A Bolzaneto per l'occasione si costruì una palazzina in cui le forze dell'ordine operanti in ordine pubblico dovevano portare i fermati, consegnarli agli uomini della Digos e della squadra mobile presenti, con i quali dovevano redigere gli atti relativi al fermo o all'arresto. Gli arrestati poi dovevano essere "passati" alla polizia penitenziaria, immatricolati, visitati e trasportati (o tradotti, come si dice in gergo) nei carceri di Alessandria, Pavia, Voghera, Vercelli.

In realtà - come ormai tutti sanno - a Bolzaneto sin dall'arrivo le persone venivano sottoposte a una sorta di contrappasso violento e umiliante, una specie di vendetta, in cui le forze dell'ordine si autoqualificavano di fatto come avversari dei manifestanti. Questa è la prima inversione che spesso si cerca di fomentare per sminuire i fatti della caserma: nessuna delle persone in stato di "ristretta libertà" ha dato luogo a episodi di resistenza o di violenza, e quindi la decisione vigliacca e vile di esercitare la violenza anziché di svolgere il proprio compito ha una sola origine ben definita. Le persone venivano accerchiate, insultate, minacciate e picchiate nel cortile, poi venivano minacciate e percosse negli uffici della Digos e della squadra mobile, al fine di far loro firmare dei verbali redatti in italiano anche per gli stranieri. Ogni volta che le persone venivano spostate dalle celle di sicurezza all'ufficio trattazione atti e viceversa, dovevano passare in mezzo a due ali di agenti che continuavano a menare calci, pugni, sgambetti, insulti, sputi.


Nelle celle di sicurezza le persone non potevano stare sedute, ma dovevano stare in piedi con la faccia al muro, le braccia alzate e le gambe divaricate, tanto che molti hanno avuto malori e conseguenze anche a medio-lungo termine per la posizione imposta. Senza contare gli episodi di violenza fisica e verbale gratuiti. A questo punto i fermati venivano rilasciati, non prima di essere stati fotosegnalati dalla scientifica (dove però non avviene nessun episodio di violenza), mentre gli arrestati passavano nelle mani della Polizia Penitenziaria, dove il trattamento nelle celle continuava: divieto di andare in bagno o l'accompagnamento con pestaggi e umiliazioni; violenze gratuite; minacce e intimidazioni continue. Dalle celle gli arrestati venivano immatricolati senza consentire loro di avvisare i familiari o i propri consolati, poi venivano perquisiti e visitati nella stessa stanza, dove agenti e medici li trattavano con violenza e scherno. Poi tornavano alle celle e infine erano tradotti alle carceri, alcuni dopo oltre 30 ore di permanenza nella struttura temporanea senza cibo e acqua. Per molti l'arrivo in carcere era praticamente una liberazione.

Per tutto questo i pm avrebbero voluto usare il reato di tortura, che però in Italia non esiste, nonostante il nostro paese sia firmatario della convenzione delle Nazioni Unite sulla tortura del 1989, che impegna i paesi firmatari a tradurre in disposizioni di legge il contenuto della convenzione: a venti anni di distanza nessuna legislatura è stata in grado di portare a termine questo compito. Al di là di questa carenza i pm hanno deciso di individuare e punire con pene più severe il cosiddetto livello apicale, ovverosia i capi dell'ufficio trattazione atti, i capi del sito di Bolzaneto, dell'infermeria, del servizio di traduzione, dei servizi di vigilanza alle celle: in pratica hanno ritenuto che il loro ruolo di responsabilità e garanzia fosse più importante e quindi da punire con più fermezza. Da questo livello hanno deciso di escludere il responsabile formale del sito, il magistrato Alfonso Sabella che pure vi era passato e che aveva a maggior ragione un ruolo di garanzia nei confronti di chi transitava in quei siti. Ma la solidarietà di casta non conosce confini.

Viceversa hanno ritenuto che i livelli intermedi e gli agenti che effettivamente sono stati i protagonisti dei trattamenti fossero responsabili solo di episodi da inserire in un clima di impunità da attribuire ai loro dirigenti. Eccezioni sono ovviamente gli agenti individuati e riconosciuti con chiarezza come protagonisti di singoli atti di particolare crudeltà: ad esempio Pigozzi che prende a due a due le dita della mano di un arrestato, AG, e le divarica fino a provocargli lesioni. Il risultato finale sono una richiesta di pene (da notare che spesso i tribunali comminano pene inferiori a quelle richieste del pm) di circa 76 anni, una sola assoluzione, ventinove posizioni in vista di prescrizione e comunque entro i termini della condizionale, quindici posizioni con pene un po' più cospicue.

Tutti soddisfatti? Direi di no, per almeno due motivi importanti (e una miriade di motivi più triviali): in primo luogo queste condanne equivalgono a meno della metà degli anni di carcere chiesti e ottenuti per le 25 persone accusate di aver partecipato agli scontri della giornata, e l'atteggiamento dei pm nei confronti degli imputati è stato improntato a un garantismo e una prudenza esasperati, tali che se non vi era prova certa del fatto e dell'identificazione di un imputato come autore di quel fatto, si sono pronunciati sempre e comunque per l'assoluzione (fermo restando l'ottimo lavoro svolto dai pm nel clima di difficoltà che un processo contro le forze dell'ordine rappresenta sempre). Non che nessuno sia interessato al fatto che queste persone passino mille anni in carcere, ma una condanna più dura in un caso come questo dove siamo alle porte della prescrizione sarebbe stata un segnale più forte da parte della procura rispetto a quanto è avvenuto e quanto avviene tutti i giorni (vedi sotto). E' facile capire come chiunque sia passato da Bolzaneto e non abbia denunciato quello che vi avveniva lo faccia in malafede e si renda corresponsabile di ciò che è accaduto. Mettete nell'equazione i campi dove tenevano i desaparecidos in Argentina al posto di Bolzaneto e vedrete che i conti tornano. Ma la giustizia si fa garante dell'onere della prova della commissione di un reato solo quando questo reato è esercitato da chi sta tra i ranghi del potere: infatti, per le 25 persone accusate degli scontri di piazza, non vi è stato alcuno scrupolo né nell'individuare i singoli reati commessi, né nello scegliere un capo d'accusa che avesse senso: servivano pene esemplari, e si è usato il reato necessario, anche a dispetto della realtà. La conclusione amara a cui uno deve giungere è che è meglio torturare come sottoposto centinaia di persone, che non spaccare due vetrine o lanciare quattro sassi: nel primo caso prendi 10 mesi e sei libero, nel secondo prendi 10 anni di galera.

Il secondo punto problematico è la motivazione per le pene contenute richieste per gli esecutori materiali: secondo i pm le condizioni della caserma di Bolzaneto sono state eccezionali, nella commistione di diverse forze dell'ordine, nella poca chiarezza delle direttive, nella concitazione di quei giorni. Questa straordinarietà ha convinto i procuratori a non chiedere la recidività delle condotte e a chiedere in prima persona l'applicazione della sospensione con la condizionale della pena. Il problema è che quanto è avvenuto a Bolzaneto non è per nulla eccezionale, ma è la prova vivente di quanto avviene tutti i giorni in moltissimi luoghi del paese, nelle caserme, nei centri di permanenza temporanea, nelle carceri e alle volte (si vedano i casi recenti di Aldrovandri e di Sandri per citarne due) anche nelle strade. Bolzaneto è la rappresentazione dell'anima nera di una buona parte delle forze dell'ordine, della sensazione di chi veste una divisa di essere al di sopra della legge e di poter esercitare arbitrariamente il proprio potere su tutto e su tutti, in particolare su coloro che sono detenuti (o comunque "ristretti" nella loro libertà come i migranti in un CPT o i fermati in una cella di sicurezza della questura). L'arroganza e la prepotenza di moltissimi (non tutti, ci mancherebbe, non facciamo della facile demagogia) membri delle forze dell'ordine è un dato di fatto, e qualificare Bolzaneto come eccezione forse non rende un grande servizio alla possibilità che tutto questo cambi. Ma la strada perché le persone si interessino veramente di come funziona il mondo che le circonda e di come si esercitano il potere del controllo e della repressione è ancora molto lunga. Bolzaneto in questo senso è un'occasione persa, un tentativo di infilare tutto sotto il tappeto considerandolo come un episodio terribile ma isolato. Il male è molto più ordinario di quello che piace pensare.


martedì, marzo 18, 2008

Le elezioni di Agamben

intervista di Roberto Andreotti e Federico De Melis
tratta da il manifesto - 17 marzo 2008

Nonostante gli inasprimenti degli ultimi giorni, questa campagna elettorale sembra accomunare Berlusconi e Veltroni nello sforzo di presentarsi ciascuno come il vero interprete di una stagione a pieno titolo post-ideologica: nella quale il conflitto non avrebbe più bisogno di essere «rappresentato», in quanto appartenente a un'idea novecentesca, dunque superata, della società. Chiediamo al filosofo della politica Giorgio Agamben di fornirci una cornice teorica per leggere questa crisi.

Il leader del Partito Democratico - ispirandosi, persino negli slogan, a Barack Obama - fa appello alla possibilità concreta, a portata di mano, di superare l'emergenza della politica e i recenti fallimenti della sinistra attraverso una volontà di coesistenza «oltre ogni conflitto», un po' new age. Quel che sembra definitivamente in crisi, allora, è il principio di rappresentanza...

L'idea che la politica sia la rappresentazione - e, quindi, la mediazione - dei conflitti sociali ha certamente dominato la tradizione recente della sinistra. Ma non basta assolutamene a definire la politica e la democrazia. Occorre precisare qual è il rapporto fra la mediazione e il conflitto. Di fatto ormai da molti decenni l'idea dominante - e non solo in Italia - è che ogni conflitto possa essere governato, che non c'è conflitto che non possa trovare la sua mediazione. In questo senso si può dire che almeno a partire dalla fine della seconda guerra mondiale vi è soltanto socialdemocrazia. E questa non poteva che incontrarsi prima o poi col modello liberale, che era per eccellenza portatore di un'istanza di mediazione dei conflitti. Il modello di pensiero che oggi domina la politica è quello della governamentalità. Dev'essere chiaro, però, che governare (il termine deriva dal greco kybernes, il pilota di una nave) non significa determinare despoticamente gli eventi; al contrario, si tratta di lasciare che gli eventi si producano, per poi orientarli nella direzione più opportuna. È in questo senso che oggi tutto può essere governato, gestito e normalizzato. Di qui il primato dell'economia e del diritto sulla politica: dove tutto è normalizzabile e tutto è governabile, lo spazio della politica tende a scomparire. La democrazia è così diventata sinonimo di una gestione razionale degli uomini e delle cose, cioè di una oikonomia. Questo implica una trasformazione radicale della concettualità politica: le guerre diventano operazioni di polizia, la volontà popolare un sondaggio di opinione, le scelte politiche una questione di management, i cui modelli di riferimento sono la casa e l'impresa, e non la città.

Dunque una 'silente' messa a morte del modello democratico occidentale...

Sì, perché la tradizione democratica riposa, invece, sul principio che la politica è possibile solo se vi è da qualche parte un conflitto che non può essere mediato e governato. Non si tratta in alcun modo di un modello di disordine o di guerra civile permanente, al contrario: in questione sono i principi stessi che rendono possibile la democrazia. Nicole Loraux ha mostrato così che ad Atene la stasis, la guerra civile, funziona come una sorta di esteriorità, la cui possibilità fonda e mantiene la democrazia. Ma anche la tradizione della democrazia moderna si fonda sull'idea di un potere costituente che deve essere necessariamente esterno al potere costituito, e senza il quale la vita politica perde vitalità. Si ha democrazia quando il sistema giuridico-politico si mantiene in relazione dialettica con una esteriorità, che non è semplicemente esclusa. Se il potere costituito pretende, invece, di governare il potere costituente e di includerlo in sé, la base stessa della democrazia viene meno. Un caso flagrante è quello della costituzione europea, che, respinta dai popoli, è stata di recente approvata quasi di nascosto a Lisbona in forma di un accordo fra governi. Una costituzione senza potere costituente è del tutto priva di legittimità; ma, nella prospettiva governamentale, legittimità e legalità tendono a confondersi.

La crisi di rappresentanza comporta sempre di più, dunque, una 'dislocazione' dei conflitti: i quali, inevitabilmente, finiscono per assumere forme altre - o di aperta ribellione o di chiusure corporative o anche di derive spiritualiste; mentre all''interno', nel ceto politico, si afferma la cultura del «voto utile». Comunque a vincere sono sempre più gli spiriti animali del Mercato. C'è ancora un modo per ridare centralità alla politica?

La tendenza inarrestabile della macchina governamentale, sia essa nelle mani della destra o della sinistra, è che l'attività della macchina non incontra altri limiti che quelli interni alla macchina stessa. Anzi, nella prospettiva della governamentalità, destra e sinistra non possono che perdere i loro caratteri distintivi e tendere, come di fatto è avvenuto dovunque in occidente, verso una zona di indifferenza e di opacità. Che questo prenda la forma di una grande coalizione, com'è avvenuto in Germania e come si annuncia in Italia, o di un'alternanza fra due partiti quasi indistinguibili, non fa molta differenza. La cultura del «voto utile» si iscrive in questa prospettiva. Naturalmente, la negazione dell'esteriorità lascia un'ombra, o, come voi dite, produce una dislocazione dei conflitti. Queste ombre inassimilabili sono il terrorismo da una parte e l'integralismo religioso dall'altra, che tendono idealmente a coincidere. Benché il terrorismo si presenti a prima vista come qualcosa di assolutamente ingovernabile, esso non è esterno al sistema governamentale, ma ne costituisce, per così dire, il centro segreto. Credo che un'analisi della politica interna italiana durante gli anni di piombo e della politica estera degli Stati Uniti dopo l'11 settembre ne fornirebbe una prova eloquente. Il governo del terrorismo - cioè l'inclusione dell'ingovernabile - è, in questo senso, la forma-limite del sistema governamentale. L'ossessiva insistenza sulla sicurezza, divenuta oggi quasi l'unico slogan politico, va vista in questa prospettiva. Ed è significativo che l'ombra del terrorismo finisca col ricoprire lo stesso corpo sociale nel suo complesso, nel senso che i governi tendono oggi a trattare ogni cittadino come un terrorista in potenza, assoggettandolo in modo normale a quei dispositivi di sicurezza di tipo biometrico che erano stati inventati per i criminali recidivi.

La sinistra, politicamente rappresentata di fatto dal solo Bertinotti, come può rispondere sul piano strategico a quello che lei chiama il problema della governamentalità? A quali riserve culturali 'buone' dovrebbe attingere?

Bisogna che sia chiaro che il processo che ha portato le società occidentali verso il modello governamentale è ormai un fatto compiuto, che di questo processo la sinistra è stata parte essenziale e non sorprende che oggi lo accetti senza riserve. D'altra parte, il potere governamentale è qualcosa di cui sappiamo poco e che dobbiamo ancora imparare a conoscere. La tradizione del pensiero politico occidentale aveva preferito concentrarsi sui grandi temi della sovranità, dello Stato, del popolo, e ha liquidato il problema del governo sotto la rubrica «potere esecutivo», la cui importanza è unicamente strumentale, e che in sé non pone grandi problemi teorici. Le mie ricerche, come del resto quelle di Foucault, mostrano invece che il vero arcano della politica non è la sovranità, ma il governo; non il re, ma il ministro; non Dio, ma l'angelo; non la legge, ma la polizia.

Professor Agamben, lei nel corso degli anni ha teorizzato quel genere di trasformazioni che portano in primo piano la «nuda vita», abbattendo ogni tipo di mediazione: scusi, ma come la mette Veltroni con la biopolitica? Cosa aspettarsi, in fin dei conti, da un governo light della 'trasformazione' della vita?

Per quel che riguarda la biopolitica, cioè il fatto che in senso lato la posta in gioco nel potere sia oggi la gestione della vita biologica dei cittadini e non la loro vita politica, le cose non cambiano. La biopolitica si iscrive perfettamente nel paradigma governamentale, anzi acquista il suo vero senso proprio in questa prospettiva. Il fatto che il governo attuale abbia emanato leggi che prevedono la costituzione di un archivio del Dna va in questa direzione. È un errore credere che la nuda vita significhi soltanto Auschwitz e lo stato di eccezione; molto più interessante è che essa diventi oggi un'esperienza e un'economia quotidiana, e che una dimensione politica debba essere riguadagnata anche attraverso un corpo a corpo con essa.

Il pontificato di Benedetto XVI ha lanciato una precisa sfida filosofica sui principi dell'organizzazione della società: e esercita una certa egemonia, almeno in Italia, anche per la mancanza di un profilo di pensiero 'forte' laico. Cosa comporterà questa disparità di valori in campo, sul piano non tanto politico-istituzionale, quanto proprio della filosofia politica?

Occorre a questo proposito chiarire un equivoco della tradizione laica. Il vero problema non è che la Chiesa intervenga nella vita pubblica, ma che lo faccia troppo poco, e che si sia per così dire specializzata nella tutela della vita biologica e della famiglia (due cose, fra l'altro, che secondo la tradizione cristiana delle origini il cristiano deve essere pronto a sacrificare senza riserve). Invece di indignarsi perché il papa interviene nella sfera pubblica - cosa che è suo dovere fare -, gli si deve chiedere perché non prende posizione con la stessa energia per le infamie quotidiane, le guerre, le ingiustizie, la miseria, per le quali si limita a delle dichiarazioni generiche. È significativo che proprio quando lo Stato ha abbandonato la dimensione politica per la biopolitica, anche la Chiesa sembri voler limitare l'esercizio del potere spirituale alla sfera biologica.

lunedì, marzo 17, 2008

Contro il Paese semplice - di Wu Ming 2

tratto da Giap #21, VIIIa serie - Editoriale

In un recente discorso alla Confartigianato, il candidato premier del Partito Democratico ha dichiarato che la sua "ossessione" è quella di "fare un Paese semplice". La frase riguardava in particolare la burocrazia, ma nei giorni successivi, ripetuta in altri contesti, è diventata un vero e proprio slogan: dal Paese normale di Massimo D'Alema al Paese semplice di Walter Veltroni.

Se interrogate l'oracolo di Google con la parola "semplicità", dalle prime dieci risposte potete distillare questa sintesi: "C'è un grande bisogno di semplicità. Convivere con la complessità è solo un'inefficiente e inutile perdita di tempo, di attenzione e di energia mentale. E' necessaria una notevole intelligenza per essere semplici. Il pubblico, ormai saturo di slogan e promesse non mantenute invoca chiarezza e semplicità. La gioia delle piccole cose." In un senso o nell'altro, l'ossessione di Veltroni sembra piuttosto condivisa.

Il mio modesto parere è che all'Italia servirebbe una ricetta per molti versi opposta: innamorarsi della complessità.
L'aggettivo semplice deriva dal latino simplex, formato dal prefisso sin(e) = senza e dal sostantivo plica = piega, oppure dalla radice sa- che indica unità (cfr. singolo = piccola unità, insieme, simultaneo, sempre) e plak- = mescolo, lego, con il significato etimologico di senza piega, ovvero piegato una volta sola. Si contrappone quindi da un lato a molteplice (piegato molte volte) e dall'altro proprio a complesso (cum = insieme + plecto = intreccio, che ha la stessa radice plak- di plico).
Rispetto all'uso, il Dizionario De Mauro della lingua italiana propone svariate definizioni:


1. composto di un solo elemento, non mescolato, puro.

2. privo di complessità.

3. privo di ornamenti eccessivi, essenziale, poco raffinato, naturale, sano.

4. spontaneo, senza malizia, ingenuo.
5. con valore limitativo (s. domanda, soldato s.)

6. erba medicinale


Da subito, quindi, i seguaci del Semplice hanno un problema: il loro aggettivo prediletto ha una semantica complessa, molteplice, ambigua. Che cosa dobbiamo intendere per Paese semplice? Possiamo intendere un concetto preciso oppure chi usa quel termine allude di fatto a un'intera galassia di senso?

Nel significato 1, l'idea di Paese semplice ha un vago retrogusto ariano e di certo contrario alla storia d'Italia, nazione bastarda e meticcia come poche altre. Con buona pace dei razzisti, il popolo italiano non esiste, né in senso biologico né come portatore di una cultura, anche solo per il fatto che la cultura non si porta e non si ha: la cultura si fa.
Ma il Paese semplice di tipo 1 potrebbe anche essere qualcosa di meno nazista e di più ecumenico: "formato da un solo elemento" perché abitato da cittadini tutti uguali. Achtung! Quello dell'uguaglianza universale è spesso un trucchetto, per poter dire che chi è diverso non è davvero diverso, è solo più indietro, manchevole, arretrato. Se non è uguale a noi, arriverà ad esserlo, diamogli tempo.

"Siamo tutti uguali, le classi sociali non esistono, non sono mai esistite, erano solo un modo complicato e cattivo di descrivere la realtà". Il Paese semplice di tipo 1 piacerebbe molto al Cav. Mussolini Benito e a Papa Ratti (Pio XI).
Il Paese semplice di tipo 3 sarebbe anche auspicabile. Peccato che a ben guardare si tratti di un paese complesso: chiunque abbia provato ad abbracciare uno stile di vita più "sano" e sostenibile, con un impatto ambientale meno devastante, sa che si tratta di una scelta molto intricata e faticosa. Semplicità volontaria è la traduzione italiana del termine downshifting, ovvero, secondo Wikipedia: "la scelta di giungere ad una libera, volontaria e consapevole autoriduzione del salario, bilanciata da un minore impegno in termini di ore dedicate alle attività professionali, in maniera tale da godere di maggiore tempo libero".

Non vedo come questa semplicità possa essere quella di un paese, sempre auspicato da Veltroni, che deve aumentare i salari, rilanciare i consumi e "spingere l'acceleratore della crescita".
Il Paese semplice di tipo 4 potrebbe contrapporsi a quello dei furbi, e non sarebbe male. Tuttavia, credo sarebbe ancora meglio tenersi la malizia e buttare a mare i furbetti. Il Paese semplice di tipo 5 esiste già. Limitato, ghettizzato e provinciale: ne abbiamo già scritto abbastanza. Il Paese semplice di tipo 6 dipende dall'erba in questione. Nel caso dell'Italia, si direbbe la coca, l'unico acceleratore della crescita che ancora funzioni. Ma la coca dà anche molte complicazioni. Se si vuole un paese semplice, che non fa una piega, un paese di sedotti e sedati, patria di un fascismo zen non autoritario, meglio usare la valeriana.

Arriviamo al significato 2, il più immediato: gli accoliti del Semplice sembrano preferirlo.
Spesso tirano in ballo la scienza e la sua predilezione per le spiegazioni più semplici e lineari. Già settecento anni fa Guglielmo da Occam raccomandava che "Pluralitas non est ponenda sive necessitate". Io sono laureato in logica: conosco il piacere anche estetico di dimostrare in due passaggi quello che altri hanno ottenuto con pagine di simboli. Ma scienza e logica sono soltanto una parte, una piccola parte, della nostra vita. Una spiegazione semplice è sempre meglio di una complessa, ma a patto che renda conto degli stessi fenomeni, nessuno escluso. Una soluzione semplice non è sempre meglio di una complessa. Tutto dipende da cosa si vuol risolvere, e a che prezzo.

Nel Paese semplice di Veltroni sarà possibile fare "un'impresa in un giorno". E magari due morti bianche ogni ora, per non complicarsi la vita.
Si possono usare parole semplici, frasi semplicissime, ma se una realtà è complessa non si può descriverla in due battute rapide prima dello stacco pubblicitario. I catecumeni della semplicità si lamentano delle troppe complicazioni, ma a me pare che in Italia vada di moda l'esatto contrario: siamo un paese ancora all'inseguimento del mainstream, convinti che la "gente a casa" non sia in grado di seguire tre concetti in fila, sorpresi dal successo di libri "difficili", con argomenti "tosti". Noi stessi, come cantastorie, ci siamo spesso definiti "riduttori creativi di complessità", ma tutto sta nello spirito con cui si opera la riduzione.

John Maeda sostiene che per raggiungere la semplicità bisogna "sottrarre l'ovvio e aggiungere il significativo". Più che una definizione è uno scaricabarile: che cos'è ovvio? Che cos'è significativo? Un libretto di istruzioni ben fatto è privo di ridondanze, ogni riga è efficace e informativa. Peccato che la realtà non si
a un aspirapolvere. La u dopo la q non dice niente di nuovo, eppure in italiano scriviamo così. Amare la complessità significa interrogarsi sul nome, la storia e gli ingredienti di quello che ci sta intorno. Se vado in vacanza in montagna, non posso tornare a casa senza aver mai aperto una mappa dei dintorni. Se vado al mare in Egitto, non posso mangiare spaghetti per una settimana. Amare la complessità non significa complicarsi la vita, come facevano Aldo, Giovanni e Giacomo quando davano un nome sardo a ogni foglia, a ogni goccia di pioggia. Le foglie si chiamano foglie, ma un albero può chiamarsi faggio, quercia, ulivo, ontano, sicomoro.

Il Paese semplice rischia di essere il paese delle rane bollite. Se ne parla più sotto, proprio a proposito della mentalità del ghetto: se metti una rana nell'acqua bollente, salta via (o forse: muore all'istante). Se la metti nell'acqua fredda e aumenti la temperatura poco per volta, si lascia bollire senza scappare. La rana bollita odia la complessità. Vuole concetti chiari, precisi, senza sfumature. O l'acqua è calda oppure l'acqua è fredda, punto. Allora tu la metti in guardia: "Occhio che adesso alzo la temperatura". Ma lei non sente la differenza. Tu allora la avverti di nuovo: "Attenta che la alzo di altri 0,05 gradi". Lei non sente niente. Tu vorresti avvertirla ancora, ma lei ti blocca. Che fastidio tutti questi avvisi. Che inutile complicazione. "Aumenterai la temperatura sempre di 0,05 gradi?", ti chiede. Rispondi che è così. Bene, pensa la rana. E' evidente che aumenti del genere non fanno alcuna differenza. L'acqua resterà sempre fredda, cioè ospitale. "Non seccarmi più", ti dice la rana, "adesso voglio dormire in pace". In pace. In una pentola di acqua semplice, senza increspature e senza pieghe. Perché le pieghe fanno paura, nascondono mostri, e in fondo il famigerato bisogno di sicurezza è solo un altro nome per il bisogno di semplicità.

Non a caso colpisce ovunque: anche nei quartieri più tranquilli, perché in realtà l'insicurezza non nasce dal crimine, ma dall'odio per la complessità.
L'evoluzione ci mette 50 millenni a selezionare la specie adatta per un determinato ambiente. I nostri cervelli saranno "adatti" a questo mondo nel 52008, anno più, anno meno. Al momento, cercano di barcamenarsi con quello che hanno, ed è naturale che la complessità li infastidisca. Ma soltanto amandola è possibile ridurla senza tra dirla.

Soltanto un paese che ama la complessità può evolversi e vedere il futuro.

giovedì, marzo 13, 2008

I gatti hanno imparato a ruggire

da chainworkers.org

Questo è il racconto del «dietro le quinte» di uno sciopero durato 14 settimane, che ha messo in ginocchio Hollywood e trasformato gli sceneggiatori americani nel sindacato più forte e unito degli Stati Uniti.

All’inizio nessun boss degli studios avrebbe scommesso un dollaro che i 15.500 writers iscritti al Wga (Writers Guild of America) avrebbero incrociato le braccia paralizzando cinema, produzioni tv, facendo saltare i Golden Globe e mettendo a rischio la notte degli Oscar.

«Non ce la farete mai», avevano detto beffardi i rappresentanti delle sette corporation a Patric Verrone, presidente del Wga, e agli altri colleghi del consiglio.
«Organizzare gli sceneggiatori è come mettere insieme dei gatti randagi».
A Patric Verrone la storia dei gatti disorganizzati non è andata proprio giù, e quando è stato il momento, s’è tolto il sassolino dalla scarpa: domenica 10 febbraio, dopo aver annunciato in conferenza stampa davanti a decine di network la firma del contratto e la fine dello sciopero, ha concluso dicendo: «Non solo abbiamo riunito i gatti, hanno anche ruggito».

Lo incontriamo nel suo ufficio al terzo piano della sede del Wga di Los Angeles, un palazzo tutto vetri all’angolo tra la terza e Fairfax, in West Hollywood. Newyorkese, quarantasei anni, nonno italiano, laureato in legge a Harvard, è autore di cartoni celebri come i Simpson, i Muppets, Futurama. È stato eletto presidente della Wga nel 2005, incarico volontario per cui non viene pagato, come del resto anche tutti gli altri consiglieri del Wga. Con lui c’è David Young, cinquantaquattro anni, newyorkese pure lui, esperto di comunicazione sindacale della National Labour Federation e film-maker.

Mr. Verrone, qual è stata la parte più difficile di questa trattativa?

A parte la totale mancanza di disponibilità verso le nostre richieste delle major, con il muro contro muro che ne è seguito, il problema più grave è stato la comunicazione coi media. Non riuscivamo a far passare le notizie che volevamo perché i giornalisti avevano come capi i nostri stessi capi, la controparte con cui abbiamo trattato. Allora abbiamo utilizzato Internet, i blog e tutto quello che poteva fare controinformazione. Anche i picchetti davanti agli studios sono serviti moltissimo. Non c’è stato giorno in cui molti di noi non fossero coi cartelli agli ingressi dei grandi network e delle case di produzione. Un impegno costante e molto duro, specie per i colleghi di New York, al freddo e sotto la neve. Ma è così che abbiamo dato visibilità allo sciopero e parlato con la gente che chiedeva spiegazioni.
Aggiunge David Young: «I giornali di spettacolo hanno alimentato indiscrezioni negative che arrivavano dalle loro fonti: tra sussurri e grida scrivevano che lo sciopero non sarebbe durato, che avremmo mollato da un momento all’altro.
Come siete arrivati alla dichiarazione dello sciopero?

Semplicemente perché, all’inizio, gli studios si sono rifiutati di prendere in considerazione tutte le nostre richieste. Durante i primi incontri eravamo in cinquanta: venticinque rappresentanti delle sette compagnie con i loro assistenti, e 25 del nostro comitato, tra cui molti Oscar come Stephen Gaghan (Traffic) e Ronald Bass (Rain Man). Eravamo troppi per fare qualcosa di concreto. La prima cosa che ci hanno proposto è stata di preparare uno studio che sarebbe stato discusso fra tre anni. Nel frattempo niente soldi sullo streaming (prodotti audiovideo scaricati con il pc), stesse percentuali del contratto precedente sui dvd scaricati dai siti, niente controllo sui programmi per Internet. Poi un giorno si sono presentati con un documento di 39 pagine in cui motivavano punto su punto perché rifiutavano ogni nostra richiesta.

E a questo punto, come avete reagito?

Abbiamo chiesto di discutere direttamente con i capi, con gli amministratori delegati delle Corporation, non con i loro manager e assistenti. E di formare delle commissioni per esaminare le diverse questioni. Ma loro hanno continuato a dire no, anche se dietro le quinte ricevevamo molte telefonate. Allora, il 1° novembre siamo scesi in sciopero, con una decisione votata dal 90% dei membri dei due consigli, quelli di New York e Los Angeles.
Una situazione inedita, quella di autori e star in un set di protesta...
Sì. Cinema e produzioni televisive si sono fermati. Autori e sceneggiatori non sono più andati a lavorare, ci sono state manifestazioni in tutto il Paese. Dopo due settimane ci hanno riconvocato, ma invece di trattare ci hanno dato un ultimatum: torniamo a discutere se rinunciate a sei delle vostre richieste. Abbiamo deciso di continuare a scioperare.
Qual è stato l’elemento di rottura?

Ai primi di gennaio, dall’altra parte del tavolo si sono seduti due manager, Peter Chernin della Fox e Robert Iger della Abc, mentre dietro le quinte c’era Leslie Moonves della Cbs. La fase operativa della discussione del contratto è iniziata in quel momento. Ci son voluti due mesi di sciopero per avere degli interlocutori. Avrebbe potuto essere meno doloroso per tutti. A cominciare dal punto di vista economico.

Vi hanno accusato di aver danneggiato e fatto perdere il lavoro ad altre categorie che lavorano nello spettacolo: attori, registi, operatori, truccatori, parrucchieri, ristoratori. La sola cancellazione dei Golden Globe è costata all’economia di Los Angeles 80 milioni di dollari...
È stata dura per tutti, ma credo che questo contratto sia una pietra miliare anche per le altre categorie dello spettacolo. E forse non solo. Lo sciopero ha conquistato la solidarietà di registi e attori, ha spianato la strada al rinnovo anche dei loro contratti, ha avuto un effetto galvanizzante. A gennaio i registi hanno siglato un contratto che ha molte cose in comune con il nostro. Quello degli attori scade il 30 giugno e credo che gli studios vogliano a tutti i costi evitare un altro sciopero.

È stato complesso ottenere un happy end dal vero, anziché sceneggiarlo...

Come no! È la prima volta, da dieci anni a questa parte, che un sindacato raccoglie un successo importante. L’ultima volta a vincere sono stati gli autisti della Ups, il corriere internazionale. Loro hanno trattato con una compagnia, noi con sette società diverse. Certo, ci meritavamo di più, ma per chiudere la trattativa abbiamo dovuto rinunciare a qualcosa. Dalle percentuali sulla vendita dei dvd e dello streaming sui siti sono esclusi i colleghi che lavorano nell’animazione di cartoons. Ma, al prossimo contratto, otterremo anche questo.

Ci sarà anche lei?

Il mio incarico scade nel 2009 e non ho intenzione di ricandidarmi. Ormai i gatti hanno imparato a ruggire....

martedì, marzo 11, 2008

EuroMayDay-Aachen

On the First of May in Aachen/ Aken/Aix-la-Chapelle/ Aquisgrana/Aquisgrán / Akwizgran/ Ahăn, ancient caroligian city, Nicolas Sarkozy will present Angela Merkel with the EU Oscar, the Prix Charlemagne.

Irony of the calendar, syndicalist MayDay this year coincides with
catholic Ascension Day, when the Eurocracy Awards are traditionally handed out. The duo congratulates itself for having finally shielded the EU from the social demands of the people, who scream for an end to free-market theology in Europe.

The new european diarchy is turning the continent into a police state and would be happy to erase the heretic meaning of
MayDay, and the Anarchist and Socialist traditions of europe along with it.

This year for MayDay, two worlds clash together: the global movement vs strong-armed governments; radical networks and squatted social centers vs the palaces of EU power; Utopian Society vs Capitalist Market; AnarchoSocialist Europe vs ChristianoNationalist Europe. We are gonna spoil the party of the powerful, by raising hell in Aachen and holding our own party: the EuroMayDay Parade, the transeuropean demonstration of all precarious and migrants against workfare, discrimination and border controls held in more than twenty cities.

We, the EuroMayDay Network cannot accept that MayDay is turned into the Ascension Day into stardom of the two failing sovereigns of Christian, NATO Europe. We reject Charlemagne as symbol of Europe, just as we denounce the neoliberalism of the Barroso Commission and
the monetarism of Trichet's Central Bank. Forced to live in precarious hell, we're going to trash the heaven of EU élites. Don't miss it: shame the twin rulers of Europe, expose their authoritarian arrogance, join the thousands coming to Aachen (close to Cologne) for the strongest protest against the core of europower ever mounted.

Show Angie and Sarko what the European movement against neoliberalism and militarism is capable of. Come to the special EuroMayDay Protest+Parade+Party that collectives in Aachen, Liège, Maastricht, and other cities of the region are organizing. Facilities, accommodation and food will be provided to protesters in Aachen in the days immediately before and after the First of May.


Activists, artists, hackers, unionists, migrant associations, queer collectives, critical cyclists, media creatives, leftist radicals of all stripes – red, black, green, pink, purple, silver – are coming to Aachen and other EuroMayDay Parades to join the fight.

Timeline, 1st of May in Aachen:

h10-12 EuroMayDay PROTESTS nearby Rathaus where Karlspreis is given to Merkel by Sarkozy
h13 EuroMayDay PARADE starts nearby site of protests
h17 Parade ends h18 MayDay PARTY in public park

No Borders, No Workfare, No Precarity: Join Us also in the MayDay
Parades in Berlin, Copenhagen, Hamburg, Lisbon, Milano, Malaga, Maribor, Tokyo and many other cities!


lunedì, marzo 10, 2008

5YearsTooMany

March 19th offers a unique opportunity for our movement to grow after 5 years of war. We know there are key pillars of support that enable this illegal and immoral war for oil and global domination to continue. On March 19th we will take nonviolent direct action to disrupt each of these key pillars in Washington DC and in communities across this country. In what we hope will be an unprecedented day of collective action and solidarity we will take a variety of actions over a 24-hour period to commemorate 5 years of war.

5yearstoomany.org

Con il sangue agli occhi. Una storia del presente

lettere e scritti dal carcere di George L. Jackson,
a cura di Emilio Quadrelli, Ed. Agenzia X


We want freedom by any means necessary
We want justice by any means necessary
We want equality by any means necessary
Malcolm X, Con ogni mezzo necessario


Dall'Introduzione:

Un figlio del ghetto
Il 21 agosto 1971, nel cortile della prigione di San Quentin, moriva sotto i colpi di fucile di un agente George L. Jackson, field marshal per le prigioni del Black Panther Party. L’evento diede il via a una feroce campagna di terrore e repressione contro il movimento dei neri, condotta senza esclusione di colpi da parte delle più svariate agenzie governative, che coinvolse, fra gli altri, anche la militante comunista Angela Davis. Nel 1972 venivano pubblicati i testi politici elaborati da Jackson poco prima di essere “giustiziato”: un volumetto di circa duecento pagine dal titolo Blood in my Eye. Una raccolta di brevi quanto intensi saggi scritti subito dopo la morte di Jonathan, il fratello minore, ucciso dalla polizia mentre cercava di allontanarsi dal tribunale di San Rafael insieme a tre prigionieri che aveva liberato poco prima. Trentacinque anni dopo, una sua rilettura e riproposizione appare tutt’altro che un’operazione di pura filologia. Infatti quella che all’epoca sembrava una pura e semplice particolarità nordamericana – la presenza di una “colonia interna” in una società a capitalismo avanzato – oggi, nell’era del capitalismo globale, più che a un’eccezione sembra rimandare a un elemento normativo e ordinativo delle metropoli globalizzate.

Dinanzi all’attuale proliferare delle innumerevoli “colonie interne” nei nostri territori, l’anomalia americana dell’epoca – un “terzo mondo” sedimentato all’interno di quelle che molti iniziano a definire società neocapitaliste – obbliga a rileggere l’esperienza del movimento nero statunitense con un occhio di riguardo. A ben vedere, la storia del Black Panther Party, e in generale del movimento black, più che una storia del passato da archiviare fra gli scaffali di un’ipotetica archeologia novecentesca sembra essere l’incipit di una storia del presente. Focalizzare l’attenzione su quell’esperienza offre spunti fondamentali per decifrare la realtà e le forme che il conflitto ha repentinamente assunto nei nostri mondi contemporanei. In poche parole una rilettura del movimento nero nordamericano consente di prendere familiarità con elementi quali “popolo” o “razza” “colonizzati”; questi appartengono alla classe proletaria ma al contempo sono portatori di caratteristiche e peculiarità che incidono non poco sull’agire concreto dei loro movimenti politici e sociali. Tali movimenti sono stati a lungo trascurati dalle retoriche predominanti del Novecento, in cui il conflitto declinato interamente sulla classe svolgeva un ruolo egemone. Il secolo scorso è stato infatti contrassegnato, almeno a partire dal 1917, dalla messa in forma di una guerra civile internazionale declinata sull’appartenenza di classe. Un confronto e un conflitto storico la cui posta in gioco era il destino della Storia, giocato tra proletariato e borghesia, le uniche due classi che si autorappresentavano e venivano considerate la legittima incarnazione della storia stessa. Una storia che ha egemonizzato interamente l’intero secolo breve.

L’era del capitalismo globale ha radicalmente modificato lo scenario sociale e politico dei nostri mondi e ha posto fine a quest’epoca scompaginando non poco gli orizzonti concettuali del pensiero politico e della teoria radicale che, in molti casi, si è trovata impreparata a trovare una grammatica adeguata al presente. Se la classe (nella sua accezione storico-politica e non socio-economica) sembra avere perso quel destino che per un intero ciclo storico le era stato “oggettivamente” riconosciuto in quanto antitesi del presente, non per questo il conflitto è stato espunto dai nostri mondi, contrariamente a quanto le retoriche predominanti sull’era del capitalismo globale hanno a lungo sostenuto. Emergono in maniera sempre più dirompente i caratteri antagonisti e conflittuali non tanto della classe quanto dei subalterni. Su questa scia, pertanto, lo scritto di George L. Jackson acquista non poca attualità.

Figlio del ghetto, Jackson passò attraverso l’obbligato “romanzo di formazione” tipico dei giovani proletari neri. Lavori saltuari e sottopagati e l’infinita serie di attività microcriminali che, da sempre, rappresentano la principale fonte di sussistenza per il popolo nero; un canovaccio cui è praticamente impossibile sottrarsi e che inevitabilmente porta i neri a incontrarsi e scontrarsi con il sistema penitenziario, dove il razzismo della società statunitense si mostra in tutta la sua brutalità. In prigione, non diversamente da quanto era accaduto a Malcolm X, George L. Jackson elaborò la propria maturazione. Non sono pochi i tratti che legano i due. Il percorso di Malcolm X, com’è noto, passa attraverso l’esperienza della Nation of Islam per finire, una volta consumata la rottura con tale organizzazione e soprattutto con Elijah Muhammad, con la costituzione dell’Organization for African-American Unity (Oaau). Il suo percorso internazionalizzò il movimento nero, ponendo la “questione negra” negli Stati Uniti come istanza tutta interna al più generale movimento di decolonizzazione che, proprio a metà degli anni sessanta del Novecento, aveva assunto un ruolo preponderante nel panorama politico internazionale. Jackson fece suoi questa dimensione internazionale e questo legame “oggettivo” con le vicende delle lotte di tutti i «dannati della terra» fin dall’inizio della propria militanza. Si tratta di un tema decisivo, del quale diremo qualcosa in seguito. È un altro però il punto sul quale, ora, ci sembra opportuno soffermarsi.

Fin dai suoi esordi come “militante islamico” all’interno della prigione Malcolm X, preso atto della condizione disperata e disgregata in cui viveva il popolo del ghetto, si era posto il problema di restituire al proprio popolo un’identità forte insieme a una disciplina etica e comportamentale al limite del monastico. Ben presto al “manovale nero” era apparso chiaro che un “popolo” che finiva con l’incarnare e sintetizzare uno stile di vita “decadente”, “putrefatto” e totalmente assoggettato ai modelli culturali bianchi avrebbe avuto ben poche chance di riscatto ed emancipazione. Nell’Islam politico prima e nell’accostamento di questo al movimento per la decolonizzazione e al socialismo poi il vecchio hustler individuò un possibile percorso per il nigger.

Centrale, per Malcolm X, è la messa a fuoco di un percorso di educazione e di lotta politica, culturale, militare ma anche etica e morale in grado di restituire dignità e autostima alla «Colonia nera». Per Malcolm X si tratta della condizione indispensabile al
nigger per intraprendere un percorso vincente di emancipazione. Con la sua dichiarazione volutamente provocatoria: «Il nero è il peggior nemico del nero», Malcolm X dichiara formalmente guerra a tutte le cornici socio-culturali in cui la società bianca ha inscritto il nigger e che quest’ultimo ha finito per fare interamente proprie, rimanendo imprigionato tra Il popolo del blues e Corri uomo corri.

Sotto questo profilo, il comportamento di Jackson non appare molto diverso. Nella «lettera a un compagno» che apre Con il sangue agli occhi, pur riconoscendo il ruolo essenziale che il giovane illegale del ghetto riveste per la lotta rivoluzionaria, Jackson è ben lontano dal considerarlo, in quanto hustler, un soggetto politico già definito. Distante dal romanticismo con cui, non di rado, il mondo bianco guarda ai ragazzi di strada del ghetto, Jackson non perde occasione per raccomandare agli ex compagni di prigionia tornati liberi e che in carcere si sono avvicinati al movimento e al Bpp di non farsi trascinare nella china senza sbocchi della “filosofia dell’azione”, ricordando loro in continuazione la necessità di mettere al centro della loro iniziativa il lavoro di formazione teorica finalizzato alla costituzione di solidi quadri politici.

Continua qui.

giovedì, marzo 06, 2008

Sergio Bologna su infortuni, "morti bianche" e pacchetto sicurezza

da precog

Io non credo che interventi legislativi o misure organizzative (come ad es. la creazione di un pool di magistrati specializzato) possano produrre effetti di una qualche rilevanza nella lotta agli incidenti mortali sul lavoro. Com'è possibile prescrivere una terapia quando non si conoscono le condizioni del paziente? Posso peccare di presunzione, ma sono quasi certo che le istituzioni non hanno presente la mappa del mercato del lavoro in Italia, nemmeno a grandi linee. E quindi non hanno la più pallida idea della mappa del rischio. Cominciamo da un dato: il differenziale di circa 2,4 punti percentuali tra l'incidenza dei morti sul lavoro in Italia rispetto al resto dell'Europa è dovuto al fatto che da noi si muore "in itinere", cioè mentre ci si sposta per lavoro o per andare o tornare dal luogo di lavoro. Quindi "il luogo" di lavoro di per sé, concepito come luogo fisico, non sarebbe più rischioso in Italia di quanto sia quello di altri Paesi europei.

E' lo spazio della mobilità quello più rischioso. Perché? La rivoluzione postfordista ha agito in due direzioni: 1) ha man mano "dissolto" il luogo di lavoro come spazio fisico separato mischiandolo sempre più al luogo di vita privata e lo ha dilatato nello spazio (despazializzazione del rischio), 2) ha – come in nessun altro Paese d'Europa – affidato la gestione del rischio a un'entità particolarissima, quella che forma la caratteristica più tipica dell'Italia, cioè la microimpresa. E quando intendo microimpresa intendo un'entità talmente piccola che stento a riconoscere in quella le caratteristiche istituzionali di un'impresa – cioè di qualcosa che ha bisogno almeno di tre ruoli sociali, il capitale, il manager e l'operaio. Io vorrei prendere per mano il Ministro Damiano, il dottor Epifani e il dottor Guariniello e metterli di fronte a quella semplice tabella ISTAT che sono solito riprodurre in tutte le mie presentazioni. Da cui risulta che più di 6 milioni di persone – su un totale di 24 - lavora in unità impropriamente chiamate "imprese" la cui dimensione media è 2,7 addetti. Ma c'è qualcosa di più recente. Il 29 ottobre 2007 l'ISTAT pubblicava una nuova serie di dati, cito: "Nelle microimprese (meno di 10 addetti), che rappresentano il 94,9 per cento del totale, si concentra il 48,0 per cento degli addetti, il 25,2 per cento dei dipendenti, il 28,3 per cento del fatturato ed il 32,8 per cento del valore aggiunto. In esse il 65,1 per cento dell'occupazione è costituito da lavoro indipendente". Perché questa assurda miniaturizzazione dell'impresa in Italia? Per ottenere flessibilità, minori costi del lavoro ma anche per trasferire sui più deboli il rischio. Paradossalmente ha ragione la Confindustria quando protesta contro i decreti d'inasprimento delle sanzioni. Le sue imprese, quelle che hanno firmato gli accordi sindacali, quelle dove vige ancora l'art. 18, il rischio lo hanno esternalizzato da vent'anni, non è roba loro, ma dei loro fornitori, dei subappalti, delle cooperative di lavoro, degli autonomi, in una parola, è roba scaricata sulla microimpresa!

Pertanto il rischio ha cambiato sede, si è trasferito sui percorsi della mobilità (morti "in itinere") e si è annidato nei piccolissimi organismi della microimpresa, là dove padrone e operaio stanno a galla per miracolo e dove il padrone muore assieme all'operaio (vedi Molfetta). Il caso Thyssen è un caso anomalo, non bisogna prenderlo a misura delle cose. Le maggiori sanzioni previste nei decreti non colpiranno mai le piccole, medie, le grandi imprese – colpiranno sempre, state sicuri, quei poveracci che se la cavano in mezzo a mille difficoltà. Ma sono quelli che mandano avanti questo Paese, sono quelli che garantiscono la tenuta occupazionale, sono quelli che per vent'anni si sono assunti sulle spalle la responsabilità del rischio! Senza poter dettare le condizioni del loro lavoro ma subendo i ritmi voluti dai committenti.
E sono questi ritmi ad uccidere, malgrado tutte le attrezzature antinfortunio. Che te ne fai dei tuoi fottuti caschi, scarponi, cinture, occhiali, della tua fottuta segnaletica quando devi scaricare da una nave 37 container all'ora e invece di otto ore ne devi lavorare dodici, perché senza gli straordinari non arrivi a fine mese?

Misure legislative, azione repressiva della magistratura, diavoleria dell'antinfortunistica – tutta roba inutile. Bisogna rovesciare i rapporti sociali che hanno creato questa infame e incivile condizione del lavoro oggi in Italia, per cui sui più deboli economicamente si è scaricato non solo tutto il rischio fisico ma anche tutta la responsabilità civile e penale del medesimo. Non è un caso, è la riprova di quanto sto dicendo, che sia a Genova che a Molfetta la colpa degli incidenti è stata attribuita o alle vittime ("non hanno indossato le mascherine") o ai compagni delle vittime. Malvolere di magistrati? No, il rischio è stato strutturato in modo che la colpa sia sempre delle vittime. Postfordismo all'italiana. Uscire da questa condizione è una strada lunga, lo so, ma questa è la realtà, questo il risultato di aver messo in soffitta per più di vent'anni il problema del lavoro.

mercoledì, marzo 05, 2008

Quei flessibili laboratori della produzione

tratto da il manifesto - 2 marzo 2008

Giovanni Arrighi è un critico dell'economia politica e secondo questa prospettiva che vanno letti i suoi libri. Questo Adam Smith a Pechino non è solo un puntuale testo di sociologia storica dell'economia mondiale che vede spostare il suo baricentro nel Pacifico, quanto una lettura teorica-politica delle attuali tendenze del capitalismo che si contrappone a molta saggistica di «sinistra» che continua a vedere nel neoliberismo una sorta di fase suprema del capitalismo che continua ad assegnare agli Stati Uniti, e in misura minore ai paesi dell'Unione europea, la leadership nel capitalismo globale. E infatti dialoga polemicamente con David Harvey e con il filone di pensiero critico che fa riferimento alla rivista Le Monde Diplomatique, come ha affermato nell'intervista concessa a questo giornale il 24 gennaio.

Più che fase suprema, sostiene dunque Arrighi, il neoliberismo è il canto del cigno degli Stati Uniti, che riescono a mantenere la loro egemonia grazie alla loro potente macchina da guerra.
Ed è proprio questo il punto più interessante della sua analisi. Che la retorica di un neoliberismo sia oramai diventato un mantra che nulla spiega è indubbio, nonostante il fatto che la pubblicazione degli scritti di Michel Foucault sulla sua genealogia indicano tutt'ora dei possibili percorsi di ricerca sui cambiamenti intervenuti nella forma-stato delle contemporanee società capitaliste. Ed è altrettanto indubbio che l'incapacità degli Stati Uniti di normalizzare militarmente l'Iraq ha messo in evidenza le difficoltà delle imprese statunitensi nel fronteggiare il dinamismo dell'economia cinese. Ma uno dei terreni da esplorare è se e come è mutato il marxiano rapporto tra i «laboratori della produzione» e il capitale finanziario.

Da questo punto di vista, l'analisi di Arrighi continua a vedere la finanza come un fattore improduttivo, tutt'al più funzionale a mantenere il dominio sull'economia mondiale, mentre si fanno strada economie nazionali che hanno puntato sull'innovazione dei processi produttivi o che si sono «specializzate» nella produzione di un bene di consumo, come in passato è accaduto con l'acciaio, l'automobile o i microprocessori. La rilevanza strategica assunta dal venture capital nel favorire l'innovazione dei prodotti dovrebbe tuttavia condurre a una analisi della metamorfosi della finanza nella produzione capitalista. Assistiamo, infatti, al
dispiegarsi di una rete produttiva i cui nodi sono disseminanti spazialmente al di fuori dei confini nazionali e che vedono convivere forme del lavoro tra loro eterogenee, talvolta «arcaiche», talvolta innovative, spesso basate su lavoro manuale, altrettanto frequentemente caratterizzate da una significativa percentuale di produttivi knowledge workers. La finanza, così come la progettazione e il coordinamento di quella stessa rete produttiva sono momenti fondamentali della valorizzazione capitalistica.

Da questo punto di vista, parlare di declino degli Stati Uniti rischia di cogliere solo uno degli elementi che caratterizzano il presente. E questo non perché gli Stati Uniti hanno l'esercito più potente del mondo, ma perché le imprese transnazionali statunitensi, e in misura minore quelle europee, continuano ad esercitare una leadership nei settori di punta dell'economia mondiale, grazie proprio a questa capacità di progettare flessibili reti produttive su scala globale.

In Adam Smith a Pechino Giovanni Arrighi sottolinea infine che al Washington consensus si stia sostituendo il «consenso di Pechino», cioè di una società all'interno di una transizione, che invita alla cautela nel definirla capitalista. Un invito tuttavia segnato da una lettura dello sviluppo capitalistico scandita appunto dalla riproduzione di cicli sempre uguali. Un'altra sfida che il volume di Arrighi pone è dunque di pensare alle diverse forme assunte dallo sviluppo capitalistico. Questo volume, come il precedente Il lungo ventesimo secolo, poco però analizzano le diversità tra il capitalismo europeo e quello statunitense. La grande divergenza avviata tra Occidente e Oriente avviata nel XVIII secolo richiamata da Arrighi nel volume non si chiude con l'emergere di una società non capitalista, ma neanche socialista, bensì di una società capitalistica che ha caratterizzato proprie e che è fortemente segnata tanto dalle strategie delle imprese transnazionali che hanno il loro centri di progettazione e controllo ancora nel cuore dell'impero, quanto dai movimenti sociali che si oppongono al regime del lavoro salariato.

sabato, marzo 01, 2008

Fate come i pinguini: spegnete il riscaldamento e usate il calore del corpo

da dothegreenthing.com


Lo squaderno no.7 out now

Dall'Introduzione:

In questo numero abbiamo proposto una riflessione sul valore delle rappresentazioni sotto forma di mappe che non si concentra esclusivamente su questioni di cartografia. Mappare è atto di ricerca e sintesi, è un modo di raccontare il mondo per esplorare e anche rivelare il potere delle mappe. Si producono così molte mappe che permettono di orientarsi o che derivano piuttosto da esplorazioni vaganti, che nascono dal perdersi. Un’esperienza, questa, che riguarda prevalentemente i luoghi.

Di ogni luogo infatti possono esistere contempo mappe eteronome – come le carte geografiche ufficiali – e mappe autonome – collettive e autoprodotte – che rivelano di quello stesso luogo le molteplici nature.

Oppure, mappe dell’intangibile, di quelle strade che non percorreremo mai con i piedi: mappe concettuali e mappe mentali, che provano ad organizzare lo spazio dei pensieri, facilitandone la condivisione e provando al contempo a ridurne la complessità.
A pensarci bene, a ripercorrerne bene la genesi, questo numero nasce da una ricerca che ha cavalcato, amplificato e diffuso una suggestione prodotta dai pensieri di Peter Greenaway su Una mappa per il paradiso. Il regista inglese suggerisce che “il Paradiso raggiunto attraverso una mappa non deve essere necessariamente lo stesso Paradiso manifesto in quella mappa”, invitando a compiere un viaggio che mentre cerca di orientarsi su mappe che scompariranno, ci invita a riscoprirle e ri-orientarle, secondo quello che possediamo. Un invito forse subliminale a cui hanno risposto un po’ tutti gli autori dei pezzi che leggerete, in primis l’artista che con lo stesso entusiasmo con cui ci ha offerto le sue immagini ospitiamo: Damian Le Bas, che ha disegnato il suo Gypsy Country, paese non contemplato dalla geografia di stato.
(continua)

La rivista può essere scaricata in formato .pdf al sito www.losquaderno.net

Autonomia. Post-Political Politics

Edited by Sylvère Lotringer and Christian Marazzi
with a new introduction by Sylvère Lotringer, "In the Shadow of the Red Brigades"


Most of the writers who contributed to the issue were locked up at the time in Italian jails.... I was trying to draw the attention of the American Left, which still believed in Eurocommunism, to the fate of Autonomia. The survival of the last politically creative movement in the West was at stake, but no one in the United States seemed to realize that, or be willing to listen. Put together as events in Italy were unfolding, the Autonomia issue -- which has no equivalent in Italy, or anywhere for that matter -- arrived too late, but it remains an energizing account of a movement that disappeared without bearing a trace, but with a big future still ahead of it. -- Sylvère Lotringer

Semiotext(e) is reissuing in book form its legendary magazine issue Autonomia: Post-Political Politics, originally published in New York in 1980. Edited by Sylvère Lotringer and Christian Marazzi with the direct participation of the main leaders and theorists of the Autonomist movement (including Antonio Negri, Mario Tronti, Franco Piperno, Oreste Scalzone, Paolo Virno, Sergio Bologna, and Franco Berardi), this volume is the only first-hand document and contemporaneous analysis that exists of the most innovative post-'68 radical movement in the West. The movement itself was broken when Autonomia members were falsely accused of (and prosecuted for) being the intellectual masterminds of the Red Brigades; but even after the end of Autonomia, this book remains a crucial testimony of the way this creative, futuristic, neo-anarchistic, postideological, and nonrepresentative political movement of young workers and intellectuals anticipated issues that are now confronting us in the wake of Empire. In the next two years, Semiotext(e) will publish eight books by such Italian "Post-Fordist" intellectuals as Antonio Negri, Christian Marazzi, Paolo Virno, and Bifo, as they update the theories of Autonomia for the new century.


Sylvère Lotringer, general editor of Semiotext(e), lives in New York and Baja, California. He is the author of Overexposed: Perverting Perversions (Semiotext(e), 2007).


Christian Marazzi, an Italian economist, lives in Switzerland. He is the author of Capital and Language: From the New Economy to the War Economy and Sock's Place, both forthcoming from Semiotext(e).