mercoledì, aprile 30, 2008

A Sbancor

Questa è una brutta botta. Le analisi di sbancor erano di quelle che affondavano i denti nella cruda realtà, così come negli immateriali flussi finanziari. Sembra a leggerle - e un pò ci si immaginava - che lo sguardo dell'autore interpretasse la realtà attraverso un universo di segni per noi incomprensibile, non leggibile: come in Matrix - il film - pareva avesse la capacità di leggere direttamente il "codice" per regalare a noi una rappresentazione comprensibile del reale. Sbancor è morto, me ne dispiace e duole anche se non lo conoscevo di persona. Un saluto pieno di gratitudine per quel che ci ha dato.

Questo di seguito è l'articolo uscito su carmillaonline a commento del triste evento.

Lì troverete un link a tutti i pezzi scritti da Sbancor per carmilla.
(frnc)

Abbiamo appreso da meno di un'ora della morte di Sbancor.

Era - e per quel che ci riguarda rimane - collaboratore di Carmilla, autore di libri ("Diario di guerra", 2000, e "American Nightmare", 2003), mediattivista e militante anarchico, esperto di economia e finanza, persona appassionata. Suoi interventi sono apparsi, oltre che su questo sito, su Rekombinant, Indymedia e Giap.

Sbancor è per noi la voce sferica e baritonale che, mesi prima dell'11 Settembre 2001, diede forma a una previsione: la guerra contro l'Afghanistan.
Da allora, non abbiamo mai sottovalutato un suo giudizio, una sua intuizione, finanche una sua battuta.

Risalgono al 2002 questi suoi "aforismi sul movimento":

Muovendosi cambia. Solo a questa condizione un movimento produce un mutamento.

Il movimento è la sottrazione dell'intelligenza all'organizzazione sociale del consenso. Il che la rende più deficiente. Probabilmente anche più cattiva. L'intelligenza sottratta al sistema di organizzazione sociale è intelligenza libera. L'intelligenza libera è destinata al nihilismo.

Fermare questo ciclo del "samsara" è il "mantra" dei mutamenti. L'unico soggetto che appartiene a questo scenario è "l'io sono tutti i nomi della Storia" di Nietzsche.

La persona che adottava lo pseudonimo non desiderava fosse usato il suo vero nome.
Certamente nei prossimi giorni potrete leggerlo, su qualche giornale o nei ricordi di chi gli ha voluto bene.
Ma per ora, per oggi, qui su Carmilla, noi lo chiameremo soltanto "Sbancor".

L'amore che mi ha dato alla luce lo riporto alla mia Origine senza perdita, fluttuo sopra chi vomita
esaltato dalla mia assenza di morte, esaltato da quest'assenza di fine che gioco ai dadi e seppellisco
vieni poeta taci mangia il mio verbo, e assaggia la mia bocca nel tuo orecchio
.
(Allen Ginsberg, The End)

Condizioni e identità del lavoro professionale

Continua il dibattito e la discussione attorno ai temi sollevati da Sergio Bologna nel suo Ceti medi senza futuro?, testo di cui ho già parlato più volte e che ritengo sia una delle migliori analisi - per quanto frammentata - sul lavoro e sulle condizioni del lavoro che si vede in Italia da almeno un decennio. Dopo l'uragano delle elezioni politiche la prima indicazione da trarre è la necessità di rimmetersi a fare i conti con i lavori e i lavoratori del capitalismo cognitivo, gli unici che possono indicare le fratture su cui far leva per liberare tutte e tutti dall'imposizione lavorativa e mostrare linee di fuga per l'auto-determinazione delle nostre esistenze.

E' uscito - per tornare a Ceti medi senza futuro? - un libricino sempre per DeriveApprodi, liberamente scaricabile oltre che acquistabile, in cui sono raccolti diversi contributi sul tema Condizioni e identità del lavoro professionale. Vi hanno partecipato L. Cigarini, C. Marazzi, K. Neundlinger, D. Banfi, L. Romano, S. Bologna.

Per chi volesse il tutto si trova qui su DeriveApprodi.

Parola chiave: ZEROISMO

di Alex Foti, Max Guareschi
tratto da precog

Con le elezioni 2008 una storia si è definitivamente chiusa, quella del comunismo italiano. E' anche la sconfitta di un'intera generazione politica, quella formatasi negli anni '70. Non è solo Rifondazione a uscire con le ossa rotte, ma anche leninisti, trotzkisti, gramsciani e luxemburghiani assortiti. Il parlamento in procinto di insediarsi, per la prima volta dal '46, vedrà l'assenza non solo di famiglie politiche di lungo corso, quali socialisti e comunisti, ma anche di qualsivoglia componente dichiaratamente di "sinistra". La condizione extraparlamentare si presenta così come condizione obbligata per tutti coloro che sono restii a riconoscersi nella retorica di Veltroni, o meglio nella piattaforma che gli sta dietro, fatta di appelli alla trinità "dio, patria e famiglia" conditi da conformismo confindustriale e cieca fede nelle virtù demiurgiche del securitarismo.

In questo frangente, bisogna intendersi bene sulla posta in gioco. Un obiettivo può essere quello di ricreare le condizioni affinché nel prossimo parlamento si ottenga di nuovo la rappresentanza di culture politiche residuali, incapaci di qualsiasi scatto proattivo che vada oltre la tutela di brand e simboli o il diritto di tribuna per uno specifico settore di classe politica. Se fosse davvero così, allora basterebbe qualche aggiustamento organizzativo, i consueti appelli a tornare a fare politica sul territorio, ad ascoltare la base, a sventolare le vecchie bandiere. E magari alla prossima tornata elettorale si potrebbe anche riuscire a superare la fatidica soglia di sbarramento. Ma se invece si pensa, e noi siamo di questo avviso, che l'agire politico debba necessariamente porsi sull'orizzonte della capacità di flettere il presente, di incidere sul reale, allora non si può fare a meno di cogliere l'aspetto liberatorio che presenta la tabula rasa emersa dalle urne: la scomparsa di un ceto politico e di esperienze partitiche ormai prive di propositività, incapaci di andare oltre un consenso di nicchia e una funzione di rassicurazione.

Le nostre priorità politiche sono quelle di Richard Stallman, il profeta del free software: bloccare il riscaldamento globale e i cambiamenti climatici, combattere le insorgenze autoritarie, siano esse di Bush o Hu Jintao, togliere potere politico al business e alla finanza, muovendosi nella prospettiva della democrazia radicale. Il riferimento sono le 4 stelle del movimento dell'euromayday: pink, verde, nera, rossa. Quello che vogliamo fare sulla scena del nuovo millennio è infatti pensare nuovi simboli e nuove parole d'ordine, un nuovo immaginario politico al servizio di una visione ribelle e libertaria, emancipazionista ed egualitaria. Dobbiamo realizzare un livello di innovazione capace di sedimentare un nuovo senso comune fra giovani, donne, immigrati, e mettere in rete tutti gli studenti, i precari, le menti creative non rassegnate alla gerontocrazia e al clericalismo italiani. Vogliamo sconfiggere il blocco corporativo che discrimina tanta parte della società italiana: confindustria, sindacati confederali, baronie varie, ordini professionali.

Certi passaggi ormai sono chiari: la rivoluzione di genere, il lavoro precario, il meticciato urbano, le identità mutanti, la proliferazione degli stili di vita, la produzione che dipende dalla libertà delle reti informazionali, fino ad arrivare alla crisi ecologica del capitalismo e alla più recente crisi economica del neoliberismo. Il vero problema non è descrivere questi processi ma agirli, riuscire a offrire esiti politici credibili, modelli di azione, formule aggregative. Per farlo bisogna essere spregiudicati e opporre al populismo reazionario un populismo eretico, attraente e accattivante, non penitenziale o rancoroso. Si tratta non di resistere, ma di passare all'offensiva. Del resto, il successo della Lega non si deve forse in modo preponderante alla sua mancanza di galateo e presentabilità, sgradevole senza dubbio ma con ogni evidenza efficace, alla sua insistenza su parole forti e disponibilità all'azione?

La vera posta in gioco è il senso comune, la capacità di modellarlo, di orientarlo. La scommessa è riportare l'azione collettiva al centro di una politica di sinistra, postcapitalista e antinazionalista, per modificare i rapporti di forza nei confronti delle élite locali, nazionali ed europee. Il movimento no global nel momento alto della sua parabola nel 2002-2003 era a tratti riuscito, su temi come agricoltura e alimentazione, critica della finanziarizzazione, rapporti Nord-Sud, libertarismo digitale, ecologismo urbano, a rendere il suo punto di vista "autorevole" e "attraente" presso una platea che andava oltre gli steccati delle appartenenze politiche consolidate.

Quel movimento, al di là delle scelte più o meno atlantiste dei singoli governi, ha dato luogo a un senso comune di opposizione alla guerra in Iraq diffuso a livello planetario. Su scala italiana, la capacità di uscire da una dimensione minoritaria e testimoniale ci è mostrata dai movimenti che hanno raccolto l'eredità no global: No Tav, No Dal Molin, No Vatican, euromayday, critical mass. Sono queste le esperienze da cui partire per la ricostruzione di una sinistra diffusa che incarni l'Italia eretica, l'Italia precaria, l'Italia meticcia.

martedì, aprile 29, 2008

Un punto di vista eclettico sulle elezioni

di Valerio Evangelisti
tratto da carmillaonline

Azzarderò – pur non ritenendomi per niente un esperto in politica – qualche considerazione sulle elezioni che si sono appena svolte in Italia. I commenti che le hanno seguite si sono incentrati su alcuni temi. Il permanere del sex appeal di Berlusconi, la sostanziale sconfitta del Partito Democratico di Walter Veltroni, la scomparsa del raggruppamento “La Sinistra l’Arcobaleno” (mai denominazione fu così imbecille), il consenso di larga parte della classe operaia alla Lega Nord.
Quest’ultimo è il solo argomento che mi interessa davvero. Mi lascia sbalordito la strana nozione di “classe operaia” che pare aversi nel 2008. Si crede ancora che esista una compagine operaia compatta, portatrice in teoria dei valori della sinistra? Sono almeno trent’anni (se non quaranta) che il concetto è stato sezionato, sbugiardato, messo a nudo nella sua incongruità. La classe operaia cui si fa riferimento non esiste più dagli anni Settanta del Novecento.

Qui si fa sentire il peso della scomparsa di un pensiero marxista radicale, represso quale “cattiva scuola” introduttiva al terrorismo (come marijuana e hashish introdurrebbero, in teoria, alle “droghe pesanti”). Si è scordato completamente il concetto marxiano di “sussunzione reale” (del lavoro al capitale). Una fase avanzata del capitalismo in cui il plusvalore non è più estorto nei soli luoghi di lavoro, ma permea l’intera vita delle classi subordinate e ne domina l’intera esistenza, non-lavoro incluso. Lungi da me l’idea di difendere l’integralità del pensiero di Marx, che non era Nostradamus e non poteva prevedere altro che ciò che aveva sotto gli occhi. Poteva però estrapolare. Tra le sue estrapolazioni più felici vi fu quella che, prima o poi, lo sfruttamento non sarebbe passato solo attraverso la fabbrica.
Sulla scorta di questa nozione, tra gli anni Sessanta e i Settanta, numerosi teorici “estremisti” (gli “operaisti”) si accorsero che la classe operaia tradizionale perdeva terreno, e veniva smembrata pezzo per pezzo. Vi fu il “decentramento produttivo”, per cui la grande fabbrica cedeva attività a imprese minori nelle quali operai e impiegati godevano di un numero irrisorio di diritti. Seguì l’inganno del falso “lavoro autonomo”, in cui l’impresa stipulava con soggetti presuntivamente indipendenti accordi di collaborazione a termine. La caduta del Muro di Berlino e la globalizzazione permisero di impiantare attività produttive in ogni parte del globo, purché il lavoro vi fosse mal pagato e gli oneri fiscali vi fossero labili. Infine la glorificazione del precariato, con la Legge Biagi e altre, consentì di disporre di manodopera per il periodo voluto, dentro o fuori la tradizionale officina. Ciò stava avvenendo anche con l’immigrazione massiccia innescata dalle imposizioni del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale su paesi non in grado di reggerla.
Il ricatto ai lavoratori italiani era: o accettate le condizioni che vi offriamo, o andiamo a produrre in Croazia, in Polonia, in India, in Cina. Oppure assumiamo al vostro posto poveracci pronti a piegarsi a qualsiasi salario che li strappi alla fame. E voi, di lavoro, non ne troverete mai più.

In un quadro simile, la classe operaia poteva solo contrarsi e indebolirsi, come in effetti è accaduto. Si parla tanto dei metalmeccanici della FIOM, ma quanti sono oggi gli operai della categoria, rispetto a trenta anni fa? Hanno forse lo stesso grado di “coscienza di classe”?
No, non l’hanno. Decimati, sulla difensiva, stentano a riconoscersi persino come categoria. I sindacati che dicono di rappresentarli (e che, crollati i partiti di riferimento, si passano la staffetta del comando al di là di ogni procedura democratica, per investitura diretta) sono composti per metà da pensionati reclutati a forza nei Caaf. Hanno sopportato di tutto da chi doveva difenderli: flessibilizzazione, decentramento, allungamento dell’orario di lavoro attraverso l’imposizione di fatto dello straordinario, ecc. Se vogliono ancora protestare, lo faranno contro chi è pagato ancor meno di loro (gli immigrati), e su base territoriale, non di classe. E’ logico che chi sta fuggendo si rifugi anzitutto in casa propria.

Il voto alla Lega Nord (peraltro ampiamente sopravvalutato) meraviglia, a questo punto, solo gli ingenui. Ma passiamo ai restanti segmenti delle classi subalterne.
La sinistra, quando aveva un cervello e leggeva ancora, poteva trovare qualche indicazione sulla mappa perduta di classe in un aureo libretto dell’americano Henry Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, Einaudi, Torino, 1978. Braverman, un ex operaio americano, scriveva che la classe lavoratrice “protesta e si sottomette, si ribella o si lascia integrare nella società borghese, si considera classe o perde coscienza della propria esistenza, a seconda delle forze che agiscono su di essa e degli umori, delle congiunture e dei conflitti della vita politica e sociale. Ma poiché nella sua esistenza permanente essa è la parte viva del capitale, la sua struttura occupazionale, i modi di lavorare e la distribuzione nei settori industriali della società vengono determinati dal processo di accumulazione. Essa è presa, abbandonata, gettata in varie parti del meccanismo sociale ed espulsa da altre non in base alla propria volontà e attività, ma secondo il movimento del capitale” (pp. 379-380).
Il proletariato, in effetti, nella sussunzione reale non è affatto sparito, in particolare quello giovanile. Come aveva cercato di spiegare un’ampia letteratura fin dagli anni Settanta, si trova oggi disperso in mille forme di lavoro precario, falsamente autonomo, falsamente intellettuale. Si salda oggettivamente ad altri lavoratori, importati per eseguire quel tanto di lavoro manuale che è ancora indispensabile. Perseguitati, reclusi nei CPT, condannati socialmente perché la loro condizione non diventi mai regolare – ciò che condurrebbe a un intollerabile aumento di costo delle loro prestazioni.

Non ne posso più di sentire portare a esempio di precariato i “lavoratori dei call center”, come se facessero parte di una sorta di mercato accessorio e marginale, e la loro precarietà discendesse da quella delle loro imprese. Andrebbe capito il ruolo sociale di un “call center”, nella sussunzione reale. Si tratta di aggiungere valore alle merci unendovi la comunicazione e l’informazione. Un “Tonno X” è identico a un “Tonno Y”, sugli scaffali. Ma se io faccio in modo che “X” sia legato alla nozione stessa di tonno, il “Tonno Y” resterà invenduto, al di là del suo valore d’uso, mentre il “Tonno X” andrà a ruba.
Comunicazione e informazione aggiungono valore, nell’attuale assetto del capitalismo. Ciò anche se questo non avviene in un luogo di lavoro riconoscibile. Anzi, la sua sede è proprio esterna. Cosa che vale per tantissime altre forme di immaterialità produttiva (altro tema ampiamente esaminato negli anni Settanta). L’obiettivo è sussumere il soggetto subalterno fuori dell’orario canonico di lavoro, quando si illude che il suo tempo sia “libero”. Condizionarne fantasia, immaginario, reazioni. Fargli produrre valore allorché si crede a riposo. Buona parte delle attività precarie è indirizzata a questa conquista. Antitetica alla vecchia formula socialista “Otto ore per lavorare, otto ore per istruirsi, otto ore per riposare”. Istruirsi e lavorare (nel senso di aggiungere valore alle merci) è diventato la stessa cosa. Ma si potrebbe aggiungere il riposo, visto che è il momento dei sogni, e quei sogni nascono condizionati.
Discorso astratto e visionario? Mica tanto. Negli Stati Uniti e in buona parte dell’Occidente l’industria dello spettacolo (cinema e soprattutto tv) e quella informatica sono oggi trainanti. Entrambe sono “immateriali”. Invece la finanza si è completamente staccata dalle attività concretamente produttive, e raggiunge livelli di scambio quotidiano impressionanti, senza riferimento al valore effettivo delle singole aziende.

In un quadro simile, in cui l’Occidente si specializza nella valorizzazione delle merci brute provenienti da altri continenti o da aree depresse, il proletariato bisognerebbe andarlo a cercare tra chi sta molto in basso (gli immigrati) o chi, apparentemente collocato meglio, ai margini della produzione diretta, in realtà contribuisce in maniera strategica all’aggiunta di valore alle merci. Operatori dei “call center”, certo, ma anche informatici subalterni, studenti inseriti nella “scuola-impresa”, figure effimere che transitano da un lavoro temporaneo a un altro, immigrati eternamente disponibili a reperire risorse con qualsiasi mezzo (“angeli” per la sinistra, “demoni” per la destra, quando non sono né l’una né l’altra cosa, bensì semplicemente proletari disperati), disoccupati, insegnanti, e via enumerando. Le nuove forme che il capitale ha modellato per la propria autovalorizzazione. Agenti e vittime dell’estensione del potere del sistema alle ore di non-lavoro, in cui è l’immaginario che domina, e prefigura i comportamenti del giorno dopo. Anche le “otto ore per riposarsi” si sono saldate, nel dominio, alle restanti sedici.

Soggetti di questo tipo o votano (in minoranza) per Berlusconi, che in qualche modo ha capito la loro funzione, sia pure da padrone, o non votano affatto. Come si potrebbero sentire rappresentati da una sinistra parlamentare (parlo della sconcia “La Sinistra l’Arcobaleno”, non del Partito Democratico, che è una sfumatura della destra) che non ha nemmeno capito la configurazione attuale della società? Che, suddivisa in molteplici “partiti comunisti”, è rimasta ancorata ai canoni di tre decenni orsono? La “centralità operaia” è indiscutibile, la FIOM (tanto antidemocratica quanto i vertici di CGIL-CISL-UIL) ne è il cuore. Spazio marginale abbiano i Cobas, le RdB, le varie espressioni del sindacalismo di base. I centri sociali, naturale raggruppamento a sinistra di migliaia, o decine di migliaia, di giovani, stiano calmi. Idem per i movimenti locali: No TAV, No Dal Molin, decine di altri. La lotta di classe diventa lotta per le poltrone. Bertinotti pontifica e lancia diktat: la non violenza è un dogma inviolabile, l’adesione alla dialettica parlamentare è fatto acquisito, le “liberalizzazioni” sono un valore da accettare criticamente però da appoggiare, il comunismo è un’idea puramente filosofica.
Raccoglie omaggi e consensi dagli avversari. “Che brava persona”, “Che uomo distinto”, “Con lui sì che si può ragionare”.

Peccato che l’attuale composizione di classe non lo segua. La classe operaia che reggeva il PCI gli preferisce la Lega e la sua concretezza territoriale. Le aree che costituiscono la composizione proletaria presente ed egemonica non vanno nemmeno alle urne, per votare un partito comunista qualsiasi, tra i quattro o cinque in lizza. In chi mai dovrebbero identificarsi? Nessuno sembra capire le loro istanze e l’attuale assetto del lavoro. Le loro posizioni sono ferme agli anni Cinquanta. Trotzkismo? E che diavolo è oggi il trotzkismo?
Una composizione di classe nuova attende oggi risposte concrete. Ha trascinato i burocrati fuori dal Parlamento per farli, a forza, extraparlamentari. O troveranno una nuova vita nelle piazze, o Beppe Grillo seguiterà a godere dei frutti di una scelta strategica giusta. La sinistra consapevole di sé è diffusa nella marcia società italiana. Centinaia di centri sociali, di organizzazioni locali nate su problemi specifici, di istanze sindacali di base attendono di prendere la parola.

La si pianti di essere partitino – la falce e martello, chissenefrega – e si sia composizione di classe. Forse, allora, si troveranno i voti necessari, se è a questo a cui si tiene.
Altrimenti si riceveranno pernacchie. Il degno accompagnamento delle ultime elezioni. Una composizione di classe non ha pietà. Spernacchia ex alleati passati al nemico, “classi operaie” prossime alla pensione e diventate razziste, forme istituzionali che non la rispettano, sindaci che si inventano nemici per meglio abbatterli.
Che tutto ciò vada affanculo. Si vota (a volte) per dovere, ogni tanto per piacere. E’ nella società che li si contrasta, i porconi. Qui, nelle piazze, è atteso ciò che resta della sinistra parlamentare. O viene in tempi utili o si farà da soli.

mercoledì, aprile 23, 2008

Il folletto del mondo. Come nasce Stella del mattino

di Wu Ming 4 - tratto da wumingfoundation

A tutt’oggi Lawrence d’Arabia di David Lean (1962) è considerato uno dei dieci film più belli della storia del cinema.
Personalmente sono d’accordo. Non saprei bene dove collocarlo nella mia personale Top Ten, ma certo vi rientra. Cast, colonna sonora, fotografia, regia, sceneggiatura: tutto contribuisce a farne un capolavoro che ancora tiene testa ai kolossal dell’era digitale. E’ talmente vero che alle parole “Lawrence d’Arabia” parecchi di noi visualizzano la faccia di Peter O’Toole, anziché quella del colonnello Thomas Edward Lawrence. A questo si aggiunga che stiamo parlando di una figura quanto mai controversa, oggetto di biografie e controbiografie, scoop e rivelazioni che si susseguono da decenni. Lady D gli fa un baffo.

Con questa premessa dovrebbe già essere chiaro che per scrivere Stella del mattino ho dovuto prima di tutto aggirare un problema. Si trattava di fare i conti con uno dei personaggi più dibattuti del XX° secolo, grazie al suo best seller - I Sette Pilastri della Saggezza - e a una pietra miliare della storia del cinema.
Inevitabilmente ho optato per raccontare quella vicenda da un punto di vista particolare, scegliendo sguardi diversi, spiazzanti, che mi portassero per quanto possibile lontano dalle immagini fin troppo note.
Tutto è partito da una coincidenza, che a sua volta ne ha chiamata un’altra… e il risultato è il romanzo.

Per dirla in breve, Stella del mattino è la storia di un’indagine condotta da tre investigatori molto particolari sul conto dell’eroe d’Arabia e dell’eroe come figura archetipica. Del resto Robert Graves, J.R.R. Tolkien e C.S. Lewis erano tizi che di miti se ne intendevano. Tutti e tre classicisti, studenti a Oxford, nel luogo di culto delle lettere antiche per antonomasia. Tutti e tre scrittori e mitologi destinati a una fama internazionale nel corso del Novecento. Coincidenza vuole, appunto, che si trovassero a Oxford dopo la fine della Prima guerra mondiale, quando Lawrence tornò a casa dalla sua impresa guerrigliera. Meno casuale è il fatto che in quel momento tutti loro (Lawrence incluso) si trovassero alle prese con il problema di come superare l’esperienza vissuta al fronte, di come farci i conti e tornare a un’esistenza normale, se mai fosse stato possibile.

E’ chiaro quindi che Stella del mattino è un’opera di fantasia basata sulla documentazione storica, niente di diverso da quello che il collettivo Wu Ming fa di solito. La differenza, se vogliamo, è che in questo caso la documentazione si spinge parecchio in profondità, fino a mappare le relazioni personali tra alcuni personaggi del romanzo.
L’amicizia tra il poeta Robert Graves e T.E. Lawrence è raccontata da Graves stesso nella sua autobiografia del 1929 e nel corso degli anni ha prodotto un corposo scambio epistolare, a sua volta dato alle stampe. Quanto a Tolkien e Lewis (futuro autore delle Cronache di Narnia), si conobbero e divennero amici negli anni successivi al periodo narrato in Stella del mattino, tuttavia è chiaro che per chi conosce la loro vicenda (la storia degli Inklings etc.) sarà difficile leggere il romanzo senza pensare al dopo. Proprio per questo era interessante raccontare il Lewis che precede la conversione e la sua trasformazione in intellettuale cristiano militante: il giovane ateo incazzato, rancoroso e succube delle proprie ossessioni post-adolescenziali. Come tutti i convertiti tardivi, Lewis cercò di cancellare la parte più scomoda della propria vita. Se a questo si unisce il fatto che fu pressoché incapace di descrivere l’esperienza bellica che aveva vissuto, beh, questo dava buon margine per romanzare i molti coni d’ombra che risultano nella sua biografia. Essendo anche il più giovane dei protagonisti, non è stato difficile attribuire al suo personaggio le tesi più “anti-eroiche” sul conto di Lawrence e trasformarlo in un segugio in cerca della verità sul condottiero del deserto. E’ la parte più romanzata della storia, quella su cui ho speculato di più, anche se ho la presunzione di credere di aver salvaguardato il principio di verosimiglianza e plausibilità.

Tolkien era il personaggio meno avventuroso e plateale, un tipo tranquillo, tutto in superficie, e per questo è stata una bella sfida ricavare anche per lui un plot che fosse avvincente, una parabola compiuta. In sostanza ho immaginato le avvisaglie di una patologia post-traumatica che mettesse a repentaglio il suo quieto vivere. Come prendere un borghese piccolo e conservatore e metterlo davanti all’imponderabile, all’inconscio, ai fantasmi.
Da metà romanzo in poi mi sono reso conto che stavo scrivendo un libro sul valore terapeutico della scrittura. Una terapia non solo privata, personale, ma anche pubblica e sociale, visto che scrivere significa già condividere, interagire con il mondo. Del resto, solo attraverso la narrazione l’umanità è in grado di riconoscersi e fare i conti con la propria esperienza storica e ideale.
Alla fine, resto convinto di questa chiave di lettura.

Dopodiché, è ovvio che il personaggio sfaccettato di Lawrence, con la sua vicenda umanamente e politicamente contraddittoria, con la fama mediatica che fece di lui la prima pop star contemporanea, porta con sé una riflessione sulla mitopoiesi. Basta studiarne la storia e gli scritti, ricordare lo scalpore che la sua vita ha suscitato. Basta pensare alla definizione che, con un colpo di genio poetico, diede di lui il coriaceo Auda Abu Tayi: “il folletto del mondo”.
Ecco perché non avrebbe avuto senso scrivere una biografia romanzata o un romanzo biografico. Le biografie di Lawrence sono già grandi narrazioni, perché egli stesso ha speso la vita nel tentativo di trasformarla in un romanzo cavalleresco, una chanson de geste moderna.
Credo che alla fine ognuno dei tre investigatori raggiunga una verità tanto parziale quanto realistica sulla sua figura, e forse non è facile battezzarne una. Del resto, non ho mai avuto nemmeno per un momento la pretesa di sciogliere l’enigma-Lawrence. Se non altro perché le figure mitiche, quando vengono analizzate e non contemplate passivamente, servono proprio a questo, a riflettere e a porsi delle domande, molto più che a ottenere risposte nette. A me tutto questo è servito a raccontare una storia.

Settantatre anni dopo la morte, Lawrence ci osserva dalle fotografie e dai poster; i suoi occhi ci fissano dai meandri del XX° secolo e spingono lo sguardo fino a qui. Verrebbe voglia di chiedergli cosa ne pensa di quanto accade in Medio Oriente, o di quello che è diventata la sua icona. Lawrence è ancora con noi, meno ingombrante di quando era vivo ma non meno attuale, perché ci racconta qualcosa di universale e al contempo strettamente legato al nostro presente.
Sarà per questo che a guardare bene quelle foto, magari da certe angolazioni particolari, ci si accorge che l’espressione del viso nasconde un sorrisetto beffardo. E allora è difficile non immaginarlo mentre fissa l’obiettivo, in una posa studiata, e nell’istante prima dello scatto pensa: - Provate a prendermi, se ci riuscite.
Click.


Il romanzo solista di Wu Ming 4 "Stella del mattino" sarà in libreria dal 29 aprile 2008



domenica, aprile 20, 2008

La Leonessa d'Italia sbrana la sinistra

di Luca Fazio
il manifesto - 15 aprile 2008

Brescia, è persa. Dopo 14 anni di sindaci ulivisti, e quasi mezzo secolo di amministrazioni di centrosinistra variamente cattoliche e moderate, palazzo Loggia si apre per la prima volta a un centrodestra rancoroso che ha fatto il pieno di voti in tutta la provincia bresciana. Al posto del sindaco Paolo Corsini, rimasto in carica dieci anni, senza mai sentire il bisogno di iscriversi alla pattuglia dei sindaci sceriffo del Pd, ci sarà Adriano Paroli (51,4%). Un personaggio incolore che viene da Forza Italia e ripete come un mantra la parola sicurezza, e che come primo provvedimento penserà a «ripulire la stazione». Ha vinto al primo turno e dello sconfitto, Emilio Del Bono (35,7%), riportiamo solo due parole di commiato perché colgono nel segno: «La Lega vince sul tema dell'immigrazione, bisogna convincersi che il voto del nord è condizionato dal fenomeno migratorio». Vale la pena aggiungere che stiamo parlando di uno dei territori d'Italia più fortemente sindacalizzato, dove gli immigrati lavorano stabilmente nelle fabbriche.

Il programma della nuova giunta sta tutto nelle prime dichiarazioni di Fabio Rolfi, segretario cittadino della Lega e vicesindaco. La sicurezza, la precedenza ai residenti sui servizi e i bonus rispetto agli immigrati, la chiusura dei campi nomadi, «e questo anche ricorrendo ad ordinanze, come quelle emanate a Chiari e Verona, per evitare l'uso di alcolici nei parchi». Un paranoico, un altro. Tutto ciò accade nel cuore della città, piazza della Loggia, una piazza storica per la sinistra italiana, dove la Lega fino all'altro giorno nemmeno poteva organizzare una manifestazione. Un altro simbolo di una disfatta storica per la sinistra italiana, che si è consumata in tutto il territorio bresciano.

La Lega è il primo partito in 99 dei 206 comuni bresciani, il Pdl ne ha conquistati 77, mentre il Pd è il partito più votato in 30 comuni. Per la Sinistra, se ha ancora senso dare nome a una «cosa» che non c'è più, il tracollo è stato drammatico: la soglia del 5% è stata superata solo in due comuni (Brione e Malegno). «Tanto per capire di cosa stiamo parlando - taglia corto Dino Greco, membro del direttivo nazionale della Cgil e segretario generale della Camera del Lavoro di Brescia per 8 lunghi anni - alla Camera la Lega in provincia ha preso il 27,2%, la sinistra il 2,6%». Gli operai votano Lega è la scoperta dell'acqua calda, ma adesso scotta. Dino Greco è uno dei primi sindalisti che ha ragionato di «leghismo rosso», più volte ha ripetuto che ormai era penetrato negli strati popolari, e che fra coloro che vengono organizzati sindacalmente si avverte come un sorta di dissociazione schizofrenica. Non a caso la Lega è forte dove c'è forte aggregazione operaia, «ma è una realtà che noi ci rifiutiamo di guardare».

Perché accade? «Dobbiamo prendere atto - spiega Greco - che non esiste più una relazione tra la classe operaia e il voto verso la sinistra: l'operaio isolato non è più classe, è un'altra cosa, è un individuo che alla solidarietà orizzontale sostituisce la solidarietà verticale, quella con il suo padrone». Eppure, a sinistra, rimane ancora forte il «mito» del movimento operaio. Com'è possibile non «vedere» ciò che è accaduto da più di un decennio? «Non lo vediamo perché c'è ancora chi lo nega: diamo ancora una rappresentazione granitica e ideologica della classe operaia, e questo non corrisponde alla realtà. La sinistra si è completamente sradicata dalla propria composizione sociale, non basta dire di rappresentare il lavoro, devi farlo attraverso l'immersione sociale e l'insediamento, altrimenti è presunzione». In questi anni lo ha fatto solo la Lega, «costruendo una identità di luogo e di territorio invece che di classe, una identità che è esclusiva e non inclusiva. Tutto ciò è accaduto senza contrasto, la sinistra era nei salotti, da Bruno Vespa». Come se ne esce? «Non vedo resurrezioni a breve - si rabbuia Greco - dobbiamo fare una fatica immensa per anni. Bisogna ricominciare a studiare che cosa sono i lavori oggi, scovarli materialmente, ricostruirne la mappa, scavare in profondità, ricostruire nuclei sul territorio».

A costo di prendere pesci in faccia, sembra questa l'unica cosa che resta da fare perché, come dice Viviana Beccalossi, vicepresidente della Regione Lombardia, «il centrodestra raccoglie i frutti del proprio lavoro e finalmente Brescia tornerà a essere la Leonessa d'Italia. Una vittoria storica, che finalmente fa cadere un muro che sembrava invalicabile». Oggi, piazza della Loggia è nelle mani della destra.

venerdì, aprile 18, 2008

Euromayday prereport

di Alex Foti - tratto da Carta


E' difficile comunicare l'euforia ritrovata dell'euromayday, quando Mr B si clona per la terza volta al potere e la sinistra scompare dalla scena parlamentare. In Europa chiunque è allibito dal fatto che gli italiani abbiano deciso di far ritornare i criptofascisti al governo...

Ma facciamo finta che le identità nazionali si siano finalmente dissolte. Potremmo allora vedere che uno stellone pink si sta aggirando per l'europa: è lo spirito euromayday, che nel 2008 s'incarna ad Aquisgrana contro l'Europa di Carlomagno celebrata da Merkel e Sarkozy, così come nelle proteste e nelle parate che da Berlino a Malaga, da Milano a Lisbona, da Helsinki a Maribor attraverseranno l'Europa precaria e migrante. Infatti quest'anno il Primo Maggio caro al sindacalismo rivoluzionario coincide con l'Ascensione cara ai democristiani conservatori che fondarono l'Unione Europea, e che dal 1950 assegnano il Prix Charlemagne al più atlantista del reame. Così nella città carolingia viene premiata la Merkel da Sarkozy... il primo maggio! La rete euromayday si è mobilitata per guastare la festa alla diarchia securitaria e atlantista: sarà l'europa anarcosocialista della Mayday contro l'Europa cattonazionalista di Charlemagne... Abbiamo deciso che ad Aachen/Aquisgrana ci sarà per la prima volta una mayday transnazionale contro il Karlspreis, che coinvolgerà come tutti gli attivisti della regione e non solo: collettivi di Liegi, Colonia, Amsterdam participeranno in forze, e l'EuroMayDay Infotour sta toccando ogni città della Renania.

La rete EuroMayDay è attraversata da solidarietà e passione rinnovate, dopo che la scorsa estate a Rostock e Heiligendamm il blocco pink di supereroi precari aveva saputo rinfocolare la voglia di fare le cose insieme trasnazionalmente. Ci siamo trovati a fine febbraio a Berlino insieme alle sorelle e ai fratelli di Liegi, Helsinki, Amburgo, Amsterdam, Terrassa, Malaga, Helsinki, oltre ai pionieri della mayday milanese la sinistra interventista berlinese. Abbiamo deciso che quest'anno la questione migrante sarà particolarmente importante nelle azioni e manifestazioni maydayane, a partire da Milano, dove tutte le reti migranti da Roma in su hanno risposto con entusiasmo all'appello per una long, long mayday. In un paese che ha rimosso gli immigrati dal dibattito pubblico e si rifiuta di vedere che le scuole italiane sono già meticce, e in un'europa in cui lo sfruttamento riguarda sempre più persone discriminate ed escluse dalla cittadinanza, la mayday si appresta a diventare un gigantesco spazio pubblico per le azioni e le rivendicazioni dell'Europa mulatta. Poi si è deliberato di approfondire il legame con la mayday di Tokyo, dopo che tanti di noi hanno ospitato gli attivisti giapponesi venuti a diffondere le iniziative di protesta contro il g8 di Osaka. Abbiamo anche deciso di fare un sito euromayday.org 2.0 e di mettere subito in circolazione le creazioni condivise: chiki chiki precario!!! (se non sai ancora cos'è, vai su http://es.youtube.com/watch?v=TiWTlSrgALU)

Sono appena tornato da Liegi e Bruxelles, dove ho passato un weekend maydayano al 100%. Abbiamo lanciato insieme Euromayday Aquisgrana 008 con assemblee e conferenze, grazie al lavoro sul campo che da anni fanno quelli di flexblues, il collettivo che ha ricevuto il premio dei diritti umani per la lotta degli inchiestisti organizzatisi intorno all'icona di bob le précaire, difensore inafferrabile dei precari belgi. Il primo atto è l'assemblea mayday in una Liegi già tappezzata di poster euromayday in un'affollata sala con attivisti di tutto il belgio venuti ad ascoltare Marc Monaco, Eric Collard, Toni Negri, Valery Alzaga, e attivisti di Aachen, Amsterdam, Malaga, Milano. La sala del centro sociale è decorata degli striscioni dell'azione dell'aprile 2006 a Bruxelles, quando conigli pasquali fecero irruzione nelle sedi delle lobby confindustriali di Bruxelles, al ritmo della resistenza pink delle samba bands valloni e fiamminghe. Tema dell'assemblea: l'europa precaria e migrante dell'euromayday vs l'europa carolingia e securitaria delle élite. Il giorno dopo un seminario molto interessante sulle strategie di attivismo sindacale nei servizi e fra i migranti. Si discute la campagna dei pulitori olandesi, in gran parte immigrati, che, organizzati da Justice for Janitors (J4J) e supportati dai Flexmens, sono riusciti a strappare un contratto miliare che garantisce dieci euro l'ora a Schiphol e in tutti gli aeroporti olandesi.

Segue un dibattito sul network unionism, un approccio innovativo sperimentato dai sindacalisti della FGTB, il sindacato della sinistra socialista che a Liegi ha un buon rapporto coi movimenti, per ricomporre la tutela sindacale lungo l'intera catena di relazioni dell'azienda: la sfida è riuscire a organizzare il lavoro frammentato dall'outsourcing. Concordiamo con Valery di J4J che, ribattezzato in senso più ampio e radicale come network syndicalism, questo possa essere l'approccio del futuro per collegare attivisti e campagne di sindacalizzazione fra precari, migranti, esternalizzati, sottopagati. Il giorno dopo benefit per la pink samba che da Liegi insieme a due altri pullman partirà alla volta di Aachen/Aquisgrana, dove alle 10 di mattina del primo maggio di fronte alla stazione si concentrerà il pink block EuroMayDay. Verso le 13 partirà la MayDay Parade vicino alla Rathaus, il palazzo del comune intorno a cui si concentreranno le proteste organizzate dalla sinistra locale contro il Karlspreis. Si dorme in un palazzo occupato da numerose associazioni, mentre sarà allestito un indymedia center in un edificio con parco vicino alla partenza dalla parade, oltre al convergence center alla stazione.

Siamo a uno snodo politico fondamentale in Europa. Il trattato di Lisbona, l'espansione della NATO nei Balcani, la Grande Recessione proveniente dall'America, stanno rimescolando le carte. La Commissione Europea ha deciso di passare dalla flessibilità alla flessicurezza, vista l'opposizione sociale incontrata su precarizzazione e tagli al welfare. In questa situazione turbolenta, Merkel e Sarkozy si presentano come gli alfieri di una politica di sicurezza, che perseguita e discrimina gli immigrati e i loro figli europei, reprime ogni manifestazione di ribellione e mira a ristabilire l'autorità dello stato e dell'impresa sulla vita delle persone... MAYDAY! MAYDAY!

giovedì, aprile 17, 2008

Bastonare il cane che affoga

di Sergio Bologna
tratto da deriveapprodi


La sensazione è di Schadenfreude*.
Non li vedremo più, si spera, i Giordano, i Pecoraro Scanio, i Diliberto. Ma che razza di popolo è questo di Sinistra che li aveva votati, quelli e i loro luogotenenti locali? Oggi si tengono il capo e si stracciano le vesti ma hanno accettato di non pensare, di non ragionare, quando Berlusconi è stato eletto per la seconda volta. Avevano cinque anni di tempo per darsi una regolata, per cambiare squadra soprattutto. E invece hanno sperato nei magistrati, si sono incarogniti sul conflitto d'interessi e si sono accucciati sempre più sotto l'ombrello protettivo di Confindustria, leggendo ogni mattina con diligenza e devozione "la Repubblica".

Così siamo arrivati al governo Prodi, uno dei più nefasti degli ultimi anni, il vero responsabile del risultato elettorale del 15 aprile. Guidato da uno che aveva già fatto pessima figura come presidente della Commissione europea, comandato da un contafagioli che passa per grande economista (Padoa Schioppa) e infestato da quella specie di paranoico fiscale che risponde al nome di Visco. Un governo con un ministro del Lavoro che chiude i cantieri non perché si muore ma perché così si aumentano le entrate dello Stato, che firma un protocollo sul welfare ignobile, dimenticandosi che ci sono milioni di giovani che non avranno mai una pensione. Un governo che aumenta le pensioni di ¬ 1,09 al giorno, equamente distribuiti tra la vecchina che non riesce ad alzarsi dal letto e i superpensionati. Un governo che si chiude in uno scenario appropriato, nell'immondezzaio campano, su cui campeggia il repellente ministro dell'Ambiente, da quella monnezza uscito.

Veltroni è andato bene, si dice, che score! Ma che l'atto di nascita del suo partito coincida con la più disastrosa sconfitta del dopoguerra nessuno lo dice? L'arte della sopravvivenza molti di noi l'hanno imparata dagli inizi degli anni ottanta, siamo i più avvantaggiati in un certo senso. L'importante è non lasciarsi spingere a soccorrere i naufraghi. Hanno fatto pagare a noi e al Paese un prezzo spaventoso. Inossidabili, inviteranno al dialogo. Bastonare il cane che affoga.

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*Da wikipedia: Schadenfreude è un termine tedesco che significa "piacere provato dalla sfortuna dell'altro". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn).

mercoledì, aprile 16, 2008

l'orizzonte

di Bifo - da rekombinant

La bufera ha spazzato via i detriti del ventesimo secolo.
Non c'è di che rallegrarsi. Il Novecento fu un secolo tremendo di violenza e di guerra, ma aveva per lo meno un orizzonte al quale guardare, una speranza da coltivare. Oggi non vi è più nessun orizzonte, solo paura dell'altro e disprezzo di sé.

Questo è l'argomento del quale dobbiamo occuparci, non del risultato delle elezioni.
La scomparsa della sinistra e la vittoria definitiva dei razzisti e della mafia è un fatto prevedibile e previsto. La sinistra ha preparato accuratamente questo rovescio. Timorosa di ripetere l'errore del 1998 ha accettato tutto quello che la Confindustria e la Banca Europea hanno imposto, e il risultato è quello che ora vediamo. Come se due errori di segno contrario potessero mai fare una cosa giusta.

Gli operai hanno rifiutato di votare (come non capirli?) oppure hanno votato per i peggiori tra i loro sfruttatori (come non compatirli?). Ma occuparci delle elezioni passate o di quelle future sarebbe pura perdita di tempo. La democrazia rappresentativa da tempo non ha più niente da dare. Ora ha chiuso ufficialmente i battenti.

Olindo e Rosa hanno vinto le elezioni politiche. E allora? Si tratta di curare la malattia, se ne siamo capaci, non di restaurare vecchi apparati. Dobbiamo occuparci della malattia psichica che si manifesta in Italia con l'emergere di un esercito maggioritario di zombie assetati di sangue.

E' già successo in Francia qualche tempo fa. La vittoria di Sarkozy è stata accompagnata dalla scomparsa della sinistra dalla scena politica parlamentare. Perché disperarsi se ora accade in Italia?
La sinistra, che avrebbe dovuto essere strumento di organizzazione dell'autonomia della società dal capitale, nel corso del Novecento si è trasformata in un ceto parassitario che succhia il sangue dei movimenti per tradirli in maniera sistematica.

Nella versione bolscevica quel ceto politico ha massacrato le avanguardie intellettuali e operaie. Nella versione socialdemocratica ha venduto le conquiste operaie in cambio di potere economico per le burocrazie. Nella sua attuale versione americanizzata si illude di poter condividere il potere con gli aguzzini. Non si accorgono gli americanoidi all'amatriciana che l'America dei loro sogni sta sprofondando, sconfitta dalla resistenza regressiva dei popoli islamici, e sommersa da una recessione senza vie d'uscita. L'Occidente sprofonda in una recessione che annuncia guerra civile planetaria. Questo lo scenario, questo l'orizzonte.

Ora la società non ha più difese, in compenso non c'è più il ceto politico che la parassitava.
Lasciamo perdere l'idea di ricostruire la sinistra, perché la sinistra non ci serve. E' un concetto vuoto, che si può riempire soltanto di passato. La società non ha bisogno di un nuovo apparato di mediazione politica. Non ci sarà mai più mediazione politica. Il capitale ha scatenato la guerra contro la società. Non possiamo far altro che adeguare ad essa i nostri strumenti e i nostri linguaggi.

Non possiamo combattere quella guerra sul piano della violenza, per la semplice ragione che la perderemmo. La società deve costruire le strutture della sua autonomia culturale: dissolvere le illusioni che sottomettono l'intelligenza al lavoro al consumo e alla crescita, curare lo psichismo collettivo invaso dai veleni della paura e dell'odio, creare forme di vita autonoma autosufficiente, diffondere un'idea non acquisitiva della ricchezza.
Non abbiamo altro compito. Ed è un compito gigantesco.

Ritorno al futuro

da City of Gods

La vera notizia è che nel nuovo parlamento italiano non sederà nessun rappresentante della sinistra.

Che Silvio Berlusconi vincesse, insieme alla sua banda di forcaioli, mafiosi e razzisti, era più o meno scontato. Che parte della società italiana si senta attratta da queste doti naturali del Partito delle libertà lo si poteva immaginare, anche se è sempre triste toccarlo con mano. Il risultato della Lega e di Di Pietro confermano il trend. E Veltroni e il PD, nonostante l'impegno a fare seriamente la parte rassicurante dei monaci della politica nazionale - buona volontà, accoglienza, dialogo, moderazione, preghiera - non sono riusciti a intercettare il voto cattolico. Anche questa non è una sorpresa.

La vera notizia è la scomparsa della sinistra. Tutti si stupiscono, noi di City un po’ meno. Ce lo aspettavamo, seppur non nelle proporzioni di questa disfatta che ricorda simbolicamente la caduta del muro di Berlino. Il volto di Fausto Bertinotti, ieri sera su tutte le reti nazionali, ben rappresentava il fatto, assomigliando vagamente al crollo di una diga, come dice la canzone.

Che altro attendersi, che altro si attendeva questa sinistra, quando la frammentazione sociale mostra ogni giorno di più la sua irriducibilità a farsi rappresentare dalle forme canoniche del partito e del sindacato tradizionali? Che tipo di appealing può fornire un’idea della politica che inciampa a parlare di violenza e non violenza in modo completamente disincarnato, senza rendersi conto che la violenza della vita quotidiana e del ricatto economico è oramai costante e pervasiva? Che senso ha ancora una volta affrontare il tema del precariato esistenziale come se fosse semplicemente una questione di interventi legislativi sul lavoro? Che risposta o prospettive sono state date in termini di welfare e soddisfacimento dei nuovi bisogni? Che soggetti sociali aveva in mente questa sinistra votata alla sconfitta? Che donne, che uomini, che rapporto con i movimenti, con la vita reale, con l'ambiente?

La sinistra istituzionale, che si è detta "radicale" o "arcobaleno", si è rilevata inadeguata e vecchia, e non solo dal punto di vista anagrafico.

La sinistra è morta, si può e si deve ripartire dal futuro.

Piccola nota sulle elezioni politiche


Riprendo la parola su
finoaquituttobene per un breve commento sul risultato di queste elezioni politiche. Lo faccio perché per scelta convinta - dopo giorni di indecisione - non ho votato e con il mio non-voto sapevo di concorrere ad affossare in primo luogo la Sinistra-l'Arcobaleno.
Il Partitone Democratico non l'avrei mai votato, mi sa mai lo voterò; un partito di centro non è un buon posto per gente di sinistra, tanto più per quelli inclini a vedere la politica più fuori che dentro i palazzi, cioè nelle strade e nei quartieri, nella costruzione di relazioni, nell'agire differenti immaginari da quelli dominanti di potere e profitto. A maggior ragione per chi crede che la sinistra sia "antiquata" e che oggi ben poca cosa possa significare se non rappresentare residui elementi di un nostalgico passato.

Mister B ha vinto - ma pochi avevano dubbi su questo - e il Partitone Democratico ha vivacchiato sullo spauracchio berlusconiano. La Sinistra-l'Arcobaleno - come titolava il manifesto di ieri - è da oggi sinistra extra-parlamentare. Dunque la scomparsa su cui l'astensionismo di sinistra aveva scommesso è partita vinta, ora si spera che dopo le dimissioni del Bertinotti arrivino a ruota quelle di Giordano-Pecoraro-Diliberto-Mussi... ma forse questa è pura speranza, se già c'è chi sostiene che la sconfitta sia dipesa dal "vampirismo" del PD o dalla mancanza di Felce&Mirtillo dal simbolo che avrebbe confuso la base elettorale... manco fossero tutti fessi questi della base elettorale...

Ora c'è da ripartire, lo spazio delle possibilità si fa più agibile e vedremo se ne potrà venir fuori qualcosa, certo per i movimenti che verranno le possibilità si allargano a mano che si restringe la possibilità di sovra-determinazione dei conflitti da parte degli arcobaleni.
Va detto poi che a sto punto tutti noi non avremo più l'alibi della rappresentanza parlamentare a sinistra, ora si deve davvero tornare a fare politica abbandonando anche quel certo atteggiamento di supponenza verso gli italiani in genere e per coloro che hanno votato e non come sperava qualcuno. Lasciamo ai rappresentanti della destra le lacrime di coccodrillo per la scomparsa della sinistra parlamentare (con magari Bertinotti prox senatore a vita) insieme alla preoccupazione che i conflitti possano di nuovo prendere forma nella società, senza "diritti di tribuna" in parlamento che rappresenterebbero per i conflitti solo ipoteche e alimenterebbero - ancora una volta - l'idea di una possibile mediazione politica.

Come dice Bifo nell'intervento che segue "
non ci sarà mai più mediazione politica. Il capitale ha scatenato la guerra contro la società. Non possiamo far altro che adeguare ad essa i nostri strumenti e i nostri linguaggi".


(frnc)

giovedì, aprile 10, 2008

EuroMayDay008: il primo maggio precario che travolge i confini del futuro!


Ci rivolgiamo a tutti e a tutte; uomini e donne, precari e precarie, native e migranti, lavoratrici e lavoratori dei call center, degli aeroporti, dello spettacolo e della moda, dell'informazione e della formazione, delle ricerca, delle cooperative sociali, della distribuzione.

Ci rivolgiamo agli operai e alle operaie, delle fabbriche e dei servizi, agli studenti, alle associazioni, ai centri sociali, alle mille forme di resistenza e di autorganizzazione che ri-generano i territori e le metropoli martoriati dal vampirismo neoliberista.

La precarietà picchia duro, nel lavoro e nella vita. Non è “sfiga”. Non è cosa passeggera. Non è un problema sociale tra gli altri ne' un titolo di un giornale. Non è semplicemente la perversa proliferazione di contratti atipici ne' un dazio che le giovani generazioni sono costrette a pagare per entrare nel mercato del lavoro.

È il modo contemporaneo di produrre la ricchezza, di sfruttare il lavoro, di asservire ogni stilla della nostra vita al profitto delle imprese. La precarizzazione è la crisi della rappresentanza politica e sindacale del lavoro e nel sociale, e segna un punto sulla linea del tempo rispetto al quale non si può tornare indietro. È il punto da cui è necessario ripensare e sperimentare nuove forme e strategie di lotta; contro lo sfruttamento, le gerarchie e le povertà.

Una lotta che parli chiaro e a voce alta, perché ricca di tutto ciò che la precarizzazione nega e riduce al silenzio. Negli ultimi anni, l'EuroMayDay ha costruito, in Italia e in Europa, uno spazio politico e sociale, condiviso, in cui la presa di parola e il protagonismo dei precari e delle precarie, senza mediazioni e mediatori, ha sperimentato forme inedite di visibilità, comunicazione e conflitto.

Ma la Mayday è un processo sociale che si evolve di anno in anno, per tutto l'anno, e questa edizione, a Milano, rilancia a partire dal protagonismo dei migranti. Il lavoro migrante rivela i segreti della precarizzazione. Il controllo dei confini produce gerarchie spesso razziste tra regolari e irregolari, tra buoni e cattivi, criminalizzati dalle retoriche della guerra e della sicurezza che servono solo a non parlare di coloro che di lavoro muoiono, senza nessuna sicurezza.

La specificità dei migranti è vivere una doppia precarietà. Dentro e fuori i luoghi di lavoro il legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro li ricatta, i Cpt e le espulsioni li minacciano costantemente. La loro condizione riguarda però tutto il lavoro, è una leva fondamentale della precarizzazione perché alimenta la frammentazione, perché riduce gli spazi di libertà e le possibilità di lotta. Ma in questi anni il protagonismo dei migranti ha prodotto esperienze significative di lotta autonoma in nome della libertà di movimento.

Il primo maggio, a Milano, vogliamo condividere questa forza, amplificarla, congiungerla con quella degli altri precari. Condividere esperienze che sono transnazionali, e che danno il segno di una May Day che attraversa l'Europa da Aachen/Aquisgrana a Berlino, Copenhagen, Hanau, Amburgo, Helsinki, Lisbona, Madrid, Malaga, Maribor, Napoli, Palermo, Terrassa, Vienna... e va oltre, perché passa per la Tokyo MayDay in Giappone, e si collega alla manifestazione dei migranti negli Stati Uniti del prossimo primo maggio.

Vogliamo costruire una long/larga/lunga MayDay che sappia porre un confronto serrato e continuativo, fra tutte le realtà lavorative, sociali, sindacali che lottano, ogni giorno, in ogni dove, contro la precarizzazione, sulle tematiche che da sempre hanno caratterizzato l'idea del primo maggio precario: la continuità di reddito intesa come un nuovo orizzonte delle politiche rivendicative, del welfare e la trasformazione del protagonismo precario e migrante in un conflitto nuovamente diffuso ed incisivo.

La precarizzazione, lo ripetiamo, picchia duro e segna una discontinuità profonda con il passato. E' un equilibrio sapiente fra ricatto e consenso e agisce sul sociale in modo diverso, dividendoci e confondendoci. Atomizza le nostre vite e saccheggia i territori e le metropoli in cui viviamo. Milano è fresca di nomina per l'Expo 2015. Tremiamo pensando alle conseguenze di ciò: l'orgia bipartisan dell'orgoglio nazionale di speculazioni ed appalti allestirà il palcoscenica nascosto per lo sfruttamento intensivo di lavoro precario e migrante in un'oscena colata di cemento.

Non ci sono dubbi, siamo incompatibili con tutto ciò: se questa è una vetrina che lo sia della nostra capacità di conflitto e di un'idea di valorizzazione delle nostre vite ben differente Di questo si discuterà nelle Fiere Precarie che precederanno, attraverseranno e seguiranno la parade mettendo a confronto esperienze di autoproduzione, di cooperazione e di condivisioni dei saperi.

Let's MayDay,

Milano, primo maggio,

Porta ticinese, ore 15.00

mercoledì, aprile 09, 2008

Vampirismo geoeconomico

di Sbancor - da carmillaonline

Sulla scrivania ho tre schermi. Due sono di Bloomberg, il sindaco di New York. Uno manda in continuazione notizie dal mondo, l’altro disegna grafici su qualsiasi mercato, titolo, obbligazione o maledetta carta straccia “subprime” tu abbia in animo di analizzare e nel caso acquistare. Ma adesso non è proprio il caso.
Tenersi liquidi: questa è la parola d’ordine. Comprare, oggi non compra quasi nessuno.
Tranne i Sovereign Wealth Funds, dove vengono riciclati i petrodollari russi e arabi oppure i surplus commerciali del Far East.
Sull’altro schermo ho Google Earth. Sulla scrivania due libri: Il canto della missione di John Le Carré, e Hitler di Giuseppe Genna.

E’ tutto ciò che mi ha accompagnato in questi mesi di depressione.
Qualcuno di voi potrebbe chiedersi cosa c’entrano i computer con i libri e perché stanno tutti sulla mia scrivania. Domanda stupida. Stanno sulla mia scrivania perché fino a un po’ di tempo fa sono stato troppo depresso per spostarli. Ma questa è una risposta stupida quanto la domanda. In realtà libri e computer descrivono la realtà. Ciò che sta succedendo ora, adesso. E le conclusioni che ne traggo non mi tranquillizzano. Anzi.

Sugli schermi vedo innanzitutto la crisi economica. Non sarà la prima e molto probabilmente neanche l’ultima. Eppure guardiamo le Borse mondiali. Dall’inizio dell’anno Shanghai ha perso il 31,96, Francoforte il 18,99 Tokyo il 18,18, Milano il 18%, Honk Kong il 17,85, Parigi il 16,16, Zurigo il 14,85. New York il 14,07, Madrid il 12,60, Londra l’11,69.

Si dice che la crisi è finanziaria e americana, che sono i “subprime” ad avvelenare il sistema. Ma allora perché Shanghai è al – 31,96%? E’ vero, Shanghai era sopravvalutata, lo sapevano tutti. Tranne i risparmiatori cinesi! Se cade la domanda americana, cadranno anche le esportazioni cinesi, e se i cinesi tenteranno di sostituirle con la domanda interna, crescerà l’inflazione, come sta già accadendo. Nessuno è immune dal contagio. Alcuni “catastrofisti storici” pensano che i cinesi incominceranno a sbarazzarsi dei dollari e dei titoli americani denominati in dollari. Per far cosa? Per comprare Euro registrando una perdita di valore di circa 1/3 per ogni dollaro venduto ora? Certo un riequilibrio delle riserve valutarie è possibile. Gradualmente. Intanto lo yuan è legato al dollaro e gode di una svalutazione competitiva che agevola l’export. Invertire questa tendenza sarebbe folle. Bretton Woods II funziona ancora. Male, ma funziona.

Eppure…

Osserviamo ciò che è accaduto con la fredda lucidità dell’economia – the dismail science diceva Carlyle.
Un settore periferico del mercato dei titoli americano, il più grande del mondo, va in crisi (vedi qui).
La crisi tramite le “cartolarizzazioni”, cioè la trasformazione dei debiti in titoli, si allarga, prima agli Asset Backed Securities (ABS), poi ai Collateral Debt Obligations (CDO’s). A questo punto la crisi diventa una valanga. Tutti i titoli in cui si suppone la presenza di mutui subprime perdono di valore. Le Agenzie di Rating, i Soloni del pensiero unico economico, vengono prese alla sprovvista. Loro sono abituate a valutare la solvibilità di un debito, cioè la capacità di un creditore a restituirlo, non la volatilità di un titolo, cioè il suo cambiamento di valore sul mercato. Reagiscono ad agosto con l’improntitudine di chi si è fatto cogliere in fallo. Effettuano un downrating di migliaia di titoli. Le banche che li possiedono non reggono il colpo. Qualcuna fallisce, come la Northern Rock in Inghilterra, prontamente nazionalizzata. Altre vengono salvate odal banche pubbliche in Germania, altre ancora messe sotto tutela, come Societé Générale in Francia.
In America saltano almeno cinque banche specializzate in mutui casa.

Ma non è che l’inizio. Sempre ad agosto l’interbancario inizia a bloccarsi. Che vuol dire? Semplicemente che le banche non si fidano delle altre banche e chiudono i normali canali di finanziamento all’interno del sistema creditizio. Crisi di fiducia che si trasforma immediatamente in crisi di liquidità. Intervengono le Banche Centrali Europee, Americane, Giapponesi e Australiane per fornire liquidità al sistema. E’ un fiume di denaro che si riversa sulle banche. Centinaia di miliardi di dollari ed euro. Non basta. La crisi si ripete a ottobre, a dicembre, adesso. Le Banche centrali, la FED in testa, incominciano ad accettare titoli “illiquidi” in garanzia. Lo fa anche la BCE, ma non vuole che lo si dica. Sarebbe a dire che le banche prendono denaro a prestito dando in garanzia alle banche centrali carta straccia. Non Basta. La Bear Stearns, una delle più antiche banche d’investimento americane, è sull’orlo del fallimento. La FED interviene, anche se non potrebbe, in quanto i suoi interventi di salvataggio dovrebbero essere limitati alle banche commerciali. Ma Bernanke ha capito che se fallisce Bear Sterns non potrà evitare l’”effetto domino”. Salterà Leheman Brothers e forse qualcun altro.

Continua qui.

Chiki-Chiki Precario,Euromayday'08 & euromayday '08 berlin #1



martedì, aprile 08, 2008

Supereroe Troglodita - da Guerra agli Umani di Wu Ming 2

Cara Sandra,
ormai da una settimana non telelavoro più. Lungi da me l’idea di cercare un altro impiego qls. Ho preso in odio ogni lavoro da me fatto sotto il sole. Ma non vengo a dirti che tutto è vanità.
Soltanto: il sottoscritto ha già dato. C'è un tempo per ogni cosa, e quel tempo è finito. Se uno è soddisfatto di questa vita, s’accomodi. Per quanto, l’uomo che lavora per sopravvivere non possa godere di una vera integrità. Da anni sorvolo l’abisso della disoccupazione cronica a spasso su corde sottili. Ho speso le migliori energie a mantenermi in equilibrio. Adesso basta. E' giunto il momento di dare un'occhiata di sotto.

Lo zaino è lì da quest’estate, lo sai. Ho un quaderno fitto di appunti, stratagemmi copiati da diversi manuali. So già dove andare, un luogo isolato e tranquillo che per il momento non rivelerò a nessuno. Vorrei evitare che una fila di persone si presenti ogni giorno davanti al mio rifugio con l’intento di farmi rinsavire. Non sono impazzito, anzi, mai stato più lucido. Voglio solo diventare ricco: se questa è follia, la condivido con la maggior parte degli uomini. Un individuo è tanto più ricco quanti più sono gli orpelli che può trascurare. Vivrò in una grotta, mangerò bacche, castagne e farina di formiche. Mi scalderò col fuoco. Chi è il sultano di Brunei in confronto al sottoscritto?

Questo mondo non ha bisogno di me, e viceversa. Pari e patta, il cerchio si chiude e il sottoscritto parte per la tangente.
Mi farò vivo quando lo riterrò opportuno.

Saluta i nipoti,

Marco 'Walden', supereroe troglodita.



Per scaricare gratuitamente l'intero libro o anche altri del collettivo Wu Ming ricordo - meglio una volta in più - che li potete trovare
qui. (frnc)

venerdì, aprile 04, 2008

Allegria di naufraghi - 22 Aprile Bologna


Nella letteratura dell'ultimissima generazione sembra impossibile trovare la speranza.
La speranza di comunità solidale, la speranza di azione collettiva efficace sembra scomparsa. Precarietà, competizione e panico, bombardamento neuro-mediatico. Solitudine. Il suicidio è la prima causa di morte per coloro che hanno venti anni. L'incidente automobilistico è la seconda causa, di morte, e spesso si tratta di un suicidio.

Ma il naufragio si prepara. La crisi dei mutui immobiliari è stata solamente la prima avvisaglia, mentre il costo del petrolio cresce di giorno in giorno, e la guerra interminabile porta lutti e diffonde odio e avvicina il crollo della credibilità dell'intero Occidente che sta perdendo la guerra irakena e la guerra afgana. Il naufragio dell'economia occidentale è dietro l'angolo. E' forse nel naufragio che potrà ritornare la speranza, che potrà ritornare la solidarietà. Quando il mare è in tempesta e la nave affonda allora non hai scelta. Devi gettar la zattera, e saltarci su. E quando sei un naufrago, allora due sono i tuoi pensieri. Il primo è che il naufragio può durare a lungo, forse per sempre, e quindi occorre rendere la zattera un luogo accogliente, occorre imparare a godere del contatto dei corpi, occorre seguire un codice spontaneo di solidarietà di naufraghi, occorre elaborare le regole che rendono possibile l'allegria del naufragio, e queste regole sono quelle della sensibilità. Il secondo pensiero è quello di trovare una terra nuova, e dato che la bussola è andata persa il modo migliore di procedere è quello di chi si affida al caso. Forse la troveremo, forse non la troveremo mai, la terra che nessuno ci ha promesso.

Si prepari la zattera, là impareremo di nuovo il piacere dei corpi che si toccano, là impareremo di nuovo il calore delle parole.


Il 22 APRILE
Alla casa della conoscenza di Casalecchio di Reno (alla periferia di Bologna città morta)
Alice Suella (autrice de Loro in bocca)

Alessio Berardi (autore di Pizza al sangue)
Oana Parvan (autrice de Il malocchio)

E altri

ULTIMISSIMI scrittori e artisti
Discuteranno della condizione precaria
E della catastrofe esistenziale ambientale economica in cui sembra gettata l'umanità.

(da Bifo su neurogreen)

La potenza inafferrabile del lavoro

di Toni Negri
da il manifesto - 3 aprile 2008

Ecco un libro di critica di economia politica che si può leggere da principio alla fine (non è cosa da poco): è Bioeconomia e capitalismo cognitivo di Andrea Fumagalli (Carocci, pp. 240, euro 20,30). Parrebbe, questo libro, l'avvio iniziale (e tuttavia abbozzo maturo) di un trattato di economia politica: si va infatti dalla teoria dell'accumulazione (suddivisa in quattro parti: modi di finanziamento, attività ed evoluzione delle forme di accumulazione, forme dell'impresa, realizzazione monetaria) ad una nuova teoria della prestazione lavorativa (anch'essa articolata in tre parti: come dispositivo di sussunzione totale della vita, come figura cangiante della forza-lavoro nel capitalismo cognitivo, ed infine nello sfruttamento-alienazione delle nuove soggettività al lavoro), fino a una teoria complessiva del capitalismo cognitivo che insiste sugli elementi di contraddizione (il «comune» contro/oltre il pubblico ed il privato) e su un programma postsocialista («reddito di esistenza» e «welfare del comune»).

La natura dell'alienazione
Si diceva: sembra che questo libro sia un trattato, ma non è affatto così. Questo libro, infatti, deborda l'economia politica: «l'aspetto economico che viene trattato è quello del potere e della soggettività delle figure sociali che agiscono o subiscono tale potere». È dunque, questo di Fumagalli, un libro politico. Insisterò su questo aspetto, lasciando ad altri più competenti di quanto io lo sia, l'analisi dei teoremi economici più innovativi che egli avanza. A me interessa lo spillover, il traboccare politico della ricerca ed il suo concentrarsi sulla nuova definizione del lavoratore salariato nel capitalismo cognitivo. Questa è la vera novità di questo libro.

Marx ci ha insegnato che è solo a partire dalla figura dello sfruttamento e dai movimenti della forza lavoro che la critica può diventare reale, e cioè collegare l'analisi teorica all'iniziativa politica, la critica che emancipa alla praxis che libera. Fumagalli fa ruotare l'intera trattazione teorica attorno alla ridefinizione dello sfruttamento.
Senza togliere nulla alla definizione di sfruttamento come «espropriazione» del lavoro vivo e sua trasformazione in lavoro morto, e senza dimenticare la ferocia capitalistica nel trasformare la forza lavoro in capitale variabile, egli ritorna sull'«alienazione» e ne definisce la nuova «natura comune», così come essa è fatta risaltare dal capitalismo cognitivo. «Nel capitalismo cognitivo alienazione esistenziale e sfruttamento tendono ad essere due facce della stessa medaglia». Questa è dunque l'orribile pesantezza dello sfruttamento, trasformato dal dispositivo cognitivo in riassorbimento della vita nel capitale. Come liberarsi? Come lottare in queste condizioni?

Due riflessioni. Innanzitutto: perché chiamare «bioeconomia» questo tessuto di discussione critica, invece che «critica dell'economia politica»? Non varrebbe la pena di limitare la definizione di bioeconomia a quelle specifiche tecniche di conoscenza e di produzione di valore che riguardano le facoltà vitali degli esseri umani (il genoma etc.)? Problema non evidentemente secondario: si tratta infatti di chiedersi se i nuovi poteri dello sfruttamento capitalistico sulla vita dei lavoratori abbiano tanta forza quanta ne hanno sul genoma, sulla topografia della natura e sulle consistenze biologiche.
È quello che Fumagalli, ed anche noi, supponiamo ed a cui ci opponiamo. Non ci indigniamo dunque della trasformazione tecnologica della natura ma del suo sfruttamento, del dominio che su queste pratiche - al fine della accumulazione - viene esercitato.

Dominio e resistenza
La seconda riflessione riguarda la temporalità, cioè la prepotente attualità dell'emergere di questi temi. Essa è provocata da una nuova consapevolezza critica dei soggetti sfruttati. Se il potere investe la vita, se concetto e realtà di capitale si presentano come biopotere, la potenza del lavoro vivo, rivelandosi a se stessa nel contesto generale della vita, si presenta come resistenza al dominio e come costruzione prospettica di nuovi dispositivi biopolitici. Ma le trasformazioni delle categorie del capitale comportano la trasformazione delle categorie della resistenza. E tutto questo si costruisce sempre più vivacemente e fortemente quanto più nel capitalismo cognitivo le «potenze del lavoro» si riconoscono come «produttive del comune».

Torniamo alla questione dello sfruttamento: essa muta anche guardando alle trasformazioni sistemiche delle figure del capitale. Vale a dire che, nel capitalismo cognitivo, si esaurisce in maniera definitiva la «formula trinitaria» (rendita, salario, profitto) ed il capitalismo cognitivo astrae la sua potenza configurandosi tutto - unitariamente - come capitale finanziario. Quanto più si immerge nella vita tanto più il capitale finanziario la possiede e la sfrutta dall'alto. Il profitto diventa sempre più parassitario e si confonde nella rendita finanziaria.

Queste esperienze scientifiche rafforzano la consapevolezza della crisi della legge (classica) del valore. La legge del valore inciampa infatti qui sulla vita. «Se è la vita stessa dei singoli, che oggi sono individui necessariamente sociali, ad essere messa al lavoro, la reazione a questa nuova condizione umana non può in nessun caso essere raccolta in una tipologia unica e tanto meno catturata puramente e semplicemente nel tempo di lavoro. È il tempo di vita che determina ogni valorizzazione produttiva».
Che cosa significherà allora, attraverso le filiere del capitalismo cognitivo, a fronte del capitale finanziario, dentro lo sfruttamento biopolitico, ribellarsi? Significa - conclude Fumagalli - autorganizzare la ribellione a partire dalle ed insistendo sulle nostre «forme di vita»: rifiutare la regola capitalistica, nel momento stesso in cui si costruiscono nuove facoltà umane. L'analisi, a questo punto, deve diventare programma. Quando analizziamo la forma monetaria del dominio capitalistico, nella sua esaltazione finanziaria, poniamo allora il «reddito di cittadinanza» contro i dispositivi del capitale finanziario; in forma programmatica e con animo di lotta, si tratterà quindi di comprendere che cosa voglia ormai dire «lotta salariale» contro il biopotere; e cioè lotta per l'estensione del welfare (il salario del comune) contro quello sfruttamento del comune che è sorgente e forma attuali del dominio capitalistico.

Oltre la contingenza
Non pensiate che siamo diventati buoni. Di generazione in generazione, a fronte di coloro che ci dicono che la lotta di classe è finita, noi rispondiamo: cretini! Non vi accorgete che ogni ipotesi scientifica, che ogni esperienza vitale riaprono alla prospettiva insurrezionale? Siamo ormai al punto in cui dobbiamo chiederci - nell'attualità, nella presenza - se il concetto di capitale non sia esso stesso giunto a divedersi in due, se cioè il capitale costante (globale) riesca ancora a trattenere dentro di sé (e a trasformare continuamente in maniera funzionale al proprio sviluppo) la forza-lavoro - intelligente, mobile, cognitiva, affettiva, relazionale. Probabilmente (è quanto un trattato di economia politica non potrà mai dire ma che Andrea Fumagalli azzarda) la vita se ne è andata dal capitale. Questo è l'insegnamento definitivo che comincia a formarsi dentro questo primo approccio alla «bioeconomia». Si capisce così quale possa essere la sola alternativa al nuovo paradigma di accumulazione: l'esodo del lavoro vivo.

giovedì, aprile 03, 2008