domenica, giugno 29, 2008

[RK] Nove anni dopo Seattle: una nuova strategia, anzi due

di Bifo
da rekombinant

Nel 1999 a Seattle cominciò una rivolta morale. Dopo l'attacco contro il summit del WTO milioni di persone in tutto il mondo dichiararono che il globalismo capitalista è un fattore di devatazione psichica e ambientale. Per due anni il movimento globale attivò un efficae processo di critica delle politiche neo-liberiste, aprendo la strada alla speranza di un cambiamento radicale.

Poi, dopo la battaglia di Genova cambiò lo scenario narrativo di fondo e la guerra conquistò il posto centrale della scena. Il movimento non fermò allora la sua azione, ma la sua efficacia fu rapidamente ridotta a zero, come dimostrò l'immensa manifestazione mondiale del 15 febbraio del 2003, che non riuscì a fermare la guerra criminale lanciata dai peggiori assassini che la storia umana conosca. Il movimento non riuscì a diffondersi allora nella vita quotidiana della società di tutto il mondo, non riuscì a dar vita a un processo di autorganizzazione del lavoro tecnico-scientifico.

Sapporo e il fallimento delle politiche neoliberiste
Oggi, nove anni dopo Seattle, mentre i padroni del mondo si riuniscono a Sapporo per prendere atto di un fallimento colossale delle loro politiche, ma anche per ribadirle nonostante tutto, dobbiamo inventare una nuova strategia per il movimento, anzi forse due.
Una strategia (anzi forse due) che parta dalla consapevolezza che il potere globale è oggi fondato sulla guerra, e che una dittatura militare sta prendendo forma nel mondo: una dittatura le cui radici sono profonde nei processi di produzione, nella cultura razzista e nell'odio interetnico e inter-religioso che i papi e gli ayatollah hanno seminato nella mente spaventata e ignorante della maggioranza dell'umanità.
La politica neoliberista ha distrutto l'idea stessa di una sfera pubblica nel campo dell'economia e in quello dei media. Ha privatizzato ogni frammento della produzione, della comunicazione, del linguaggio e perfino dell'affettività.
La competizione ha preso il posto della solidarietà in ogni aspetto della vita eil crimine è divenuto la forma prevalente della relazione economica. La guerra globale è il compimento naturale di questa mutazione criminale del modo di produzione capitalista. E la devastazione sistematica dell'ambiente fisico e psichico è l'effetto naturale di questa mutazione.

l'impero del Caos
Le forze democratiche si aspettano qualche sollievo dalla possibile vittoria di Barack Obama alle prossime elezioni americane. Ma vediamo bene il paradosso della situazione. Gli Stati Uniti d'America hanno perduto la loro egemonia militare, perché il fanatismo religioso, il fondamentalismo islamico, il nazionalismo russo risorgente, e il terrore sono strategicamente vincenti nel territorio euro-asiatico. Dall'Afghanistan al Pakistan dall'Iraq all'Iran al Libano, dal Caucaso all'Ucraina, l'egemonia occidentale sta perdendo terreno. Inoltre, la crisi finanziaria apre la strada a un collasso del potere americanom, e la recessione inflattiva che si sta diffondendo dovunque produce disordine e sfiducia nelle società occidentali, e queste, prive di una prospettiva egualitaria, si trasformano in razzismo.

Nel decennio della presidenza Clinton era possibile parlare (seppure mai in maniera molto convincente) di un Impero americano, ma dopo l'inizio della guerra infinita, coloro che avevano parlato di impero americano hanno dovuto parlare di un colpo di stato all'interno dell'impero. Se le cose sono così dobbiamo ammettere che questo colpo di stato ha ottenuto il suo scopo. I guerrafondai hanno perso le loro guerre (la guerra in Iraq è stata un fallimento completo, la guerra in Afghanistan si trascina verso la sconfitta, la guerra in Iran non si vincerà mai). Cionostante hanno vinto la guerra per il profitto da petrolio e per un aumento della spesa militare, e quel che è peggio hanno vinto la loro guerra contro la pace e contro l'umanità.
Oggi, mentre alla Casa Bianca si può attendere che entri una persona di sentimenti democratici, l'Impero americano cade a pezzi e il Caos è l'unico Imperatore del mondo.

una strategia del monastero felice
Che possiamo fare in un panorama distopico di questo tipo? Quale strategia possono elaborare le donne e gli uomini che vogliono la pace e la giustizia? Forse non una strategia è quello che ci occorre, ma due. Nessuna speranza è in vista, dal momento che la svolta criminale del capitalismo sta producendo effetti irreversibili nella cultura e nel comportamento della società planetaria, dividendola in tre sezioni prive di ogni universalità e di ogni sentimento solidale.

Un terzo dell'umanità è in pericolo di vita: la fame si sta diffondendo come mai prima. La crisi energetica diffonde aggressività e inflazione. La guerra devatsa le case e le terre.

Un terzo dell'umanità vive in condizioni di sfruttamento semi-schiavistico, con orari di lavoro che non hanno più limiti e con salari decisi unilateralmente dai capitalisti. Ma sono talmente terrorizzati dalla precarietà e dalla paura di finire nell'abisso della fame e dell'emarginazione che sono costretti ad accettare qualsiasi ricatto.

Un terzo dell'umanità è armata fino ai denti per difendere i suoi livelli di vita e di consumo conro l'esercito dei migranti che premono ai confini della società occidentale.
Io penso che dobbiamo ritirarci ed evitare ogni scontro, ogni conflitto che sarebbe oggi inevitabilmente perdente. Dobbiamo creare una sfera autonoma e sicura per quella piccola minoranza della popolazione del mondo che vuole salvare l'eredità della civilità umanista e le potenzialità dell'Intelletto generale, che sono in serio pericolo di una militarizzazione definitiva.

Dobbiamo preparaci a una lunga fase di barbarizzazione e di violenza. Nel primo decennio del secolo siamo entrati in un'era che assomiglia a quella che in Europa chiamiamo Medio Evo. Mentre il territorio era devastato da invasioni e l'eredità delle civiltà antiche era distrutta, gruppi di monaci salvarono la memoria del passato e soprattutto i semi di un possibile futuro.
Noi non possiamo sapere se l'epoca barbarica durerà per decenni o per secoli, nè possiamo dire se l'ambiente fisico e psichico del pianeta sopravviverò all'attuale devastazione criminal-capitalista. Ma sappiamo di sicuro che non abbiamo né le armi per affrontare i distruttori, e dunque dobbiamo salvare noi stessi e la possibilità di un futuro umano.

l'imprevedibile
Questa è la strategia che io propongo. Ma una sola strategia non è sufficiente quando le cose sono caratterizzate da un indeterminismo profondo e le prospettive sono così imprevedibili come nel momento attuale. Non possiamo al momento dire quali conseguenze produrrà la fine dell'egemonia americana, nè quali sviluppi avrà la guerra che si svolge dal Pakistan alla striscia di Gaza. E non possiamo immaginare quali effetti produrrà la guerra civile a bassa intensità che si sta combattendo in Europa per motivi etnici, né quali conseguenze produrrà la recessione che corrode l'economia e la sopravvivenza dei lavoratori occidentali. Per ilmomento abbiamo assistito ad un'evoluzione razzista e fascista della cultura operaia in Europa, ma domani chi lo sa.

Bene, io penso che mentre ci ritiriamo nei nostri monasteri non dovremmo dimenticare di prepararci per un improvviso rovesciamento delle prospettive.
Dobbiamo essere pronti alla prospettiva di un lungo periodo di sottrazione monastica, ma anche alla prospettiva di un improvviso rovesciamento del panorama politico globale.

Provate a immaginarvi la rivolta degli operai cinesi contro il capitalismo nazional-socialista, o l'esplosione di una aperta guerra razziale in Europa, il collasso del sistema militare ameircano incapace di far fronte a una nuova ondata di terrorismo. Provate a immaginare il collasso apocalittico degli eco-sisteni di zone nevraligche del mondo.

Questi scenari sono perfettamente realistici nel prossimo futuro e potrebbero provocare un mutamento radicale dell'ateggiamento politico della maggioranza della popolazione mondiale. Dobbiamo essere preparati a questo, dobbiamo preparare la narrazione per un simile rovesciamento, e soprattutto dobbiamo creare l'esempio vivente di un altro stile di vita che non sia basato sul consumismo e sull'ossessione della crescita e sulla nevrosi della competizione.

Il nostro compito centrale nel prossimo futuro è la ridefinizione dell'idea stessa di benessere, di ricchezza e di felicità. Il nostro compito è la creazione di monasteri in cui si sperimenti il benessere frugale. Critica della naturalizzazione del paradigma della crescita, elaborazione culturale di un nuovo paradigma basato sull'abbandono dell'ossessione della crescita, finalizzato alla frugaità, alla produzione ad alta intensità di sapere, alla solidarietà, e alla pigrizia, e al rifiuto della competizione.

Il capitalismo ha identificato il benessere e l'accumulazione, la felicità e il consumismo la ricchezza e lo spreco delle risorse naturali e psichiche.

Dobbiamo diventare l'esempio vivente di uno stile di vita in cui il benessere sia unita alla frugalità, la felicità alla generosità, e la produzione sia unita con la pigrizia e il dolce far niente.

La riccezza non ha nulla a che fare con il consumo compulsivo e con l'accumulazione ossessiva.

La ricchezza è il piacere di essere, e il godimento del tempo.

Foto di Jeff Bauche._.·´¯) [Traditionnal roof in a Ger], con licenza Creative Commons da flickr

Chi governa la paura?

di Alessandro Dal Lago
da Liberazione - 27 giugno 2008

L'idea di biopolitica, coniata da Michel Foucault in alcuni corsi al Collège de France della fine degli anni Settanta, designa oggi, nel dibattito filosofico-politico, i diversi campi in cui si esercita il governo della vita, ovvero la definizione incessante e pratica del vivente come oggetto di controversia pubblica: dal conflitto sulla personalità dell'embrione all'etica sessuale e al controllo demografico delle migrazioni.

Infatti, l'attore più potente in campo biopolitico è oggi la Chiesa cattolica, che esercita, legittimamente o no, la pretesa di governare in ogni campo le espressioni della vita. Ma, in generale, «come vivere» (e ovviamente come morire) è la posta in gioco nel conflitto tra destra e sinistra, laici e cattolici eccetera. Dai valori da trasmettere ai nostri figli alle campagne contro l'alcolismo giovanile, il bullismo, le droghe leggere eccetera, fino alla «buona morte», la condotta di vita è terreno di scontro politico e quindi di «governamentalità». Questo non significa che stia rinascendo qualcosa come lo Stato etico (benché Chiesa e la destra fondamentalista, in ogni parte del mondo, abbiano sicuramente in testa qualcosa del genere), ma che l'«etica» (e quindi la condotta individuale) tende a sostituire i grandi temi del Novecento: il benessere collettivo, la giustizia sociale, la libertà politica e così via.

Un aspetto della biopolitica, in senso molto lato, che mi sembra oggi rilevante è ciò che definirei come Daseinpolitik, ovvero «politica dell'esistenza» o dell'esserci. Innumerevoli segnali fanno ritenere che aspetti della condizione umana che, nella filosofia del Novecento, erano di stretta competenza del soggetto individuale (stando al classico in materia, Essere e tempo di Martin Heidegger) siano oggetto di investimento politico. Al solito, non stiamo parlando di un complotto o di grandi fratelli ma di una tendenza, al tempo stesso culturale e politica, pervasiva e articolata. Consideriamo, per esempio, l'onnipresente questione dell' «insicurezza». Oggi questa non ha nulla a che fare con «l'insicurezza ontologica» di cui parlava quarant'anni fa l'antipsichiatra Ronald Laing nell' Io diviso , e cioé il senso di inconsistenza o di incertezza esistenziale che prima o poi prende chiunque, in forme più o meno sopportabili. Invece, l'insicurezza è una questione in senso stretto sociale e concreta. «Quando esco per strada non mi senso sicuro», «I reati sono più o meno stabili ma cresce l'insicurezza della gente», «L'immigrazione clandestina produce insicurezza»: ecco espressioni tipiche che ogni giorno leggiamo sui quotidiani e su cui il ceto politico si esprime instancabilmente. E che quindi sono divenute sotto ogni punto di vista politiche.

Che la sicurezza - e quindi la riduzione dell'insicurezza - sia uno degli obiettivi primari di ogni buon governo è noto fin dai tempi del cameralismo. Anzi, della fondazione dello Stato moderno, quello che si chiama westphaliano e corrisponde più o meno alla definizione weberiana dello Stato come «monopolio della violenza legittima». Come si sa, la sicurezza in gioco nelle teorie politiche classiche riguardava la vita in senso stretto: nella famosa allegoria hobbesiana del Leviatano, i cittadini delegano al principe ogni uso delle armi per essere protetti, nell'incolumità e nei beni, da assassini, fazioni religiose avverse e nemici. Hobbes era particolarmente sensibile a questo tema. All'inizio della sua autobiografia in versi, Vita carmine expressa , egli ricorda che la sua nascita prematura fu causata dal panico che si diffuse in Inghilterra, all'arrivo dell'Invencible Armada: «And hereupon it was my mother dear/Did bring forth twins at once, both me and fear» («E fu così che la mia cara madre partorì a un tempo due gemelli, me e la paura»). Negli ultimi versi, Hobbes dichiara che solo ora, alla fine della sua vita, quando ha fatto tutto quello che riteneva giusto e attende solo la morte, «non ha più paura».

La protezione della vita e dei beni è dunque il minimo che uno Stato deve assicurare ai cittadini. Naturalmente questa ragion d'essere primaria delle strutture pubbliche è declinata in modo molto diverso a seconda delle culture politiche. Negli Stati Uniti, in cui sostanzialmente i cittadini hanno diritto di usare le armi per difendere la propria casa dagli intrusi, la mancanza di un sistema sanitario nazionale fa sì che una quota non trascurabile della popolazione non goda di una vera e propria protezione della salute. Ma in ogni caso è evidente che uno Stato strutturalmente incapace di operare in questo senso vede erodere le basi stesse della sua legittimità.

Apparentemente, quanto precede va esattamente nel senso della retorica pubblica della sicurezza che ho evocato sopra come un aspetto della «politica dell'esistenza». Qualcuno che magari conosce le mie precedenti opinioni in materia penserà che mi sono convertito, che so, alla filosofia politica - se vogliamo chiamarla così - di Maroni o Veltroni (le cui idee in tema di sicurezza sono molto simili). Ma è esattamente il contrario: io ritengo che proprio l'incessante retorica pubblica dell'insicurezza dilagante non abbia a che fare con la sicurezza dei cittadini, ma con il loro governo, e cioè con la loro subordinazione. Che apparentemente i cittadini approvino tale retorica, stando ai sondaggi, non mi sorprende più di tanto. E non solo per quel fenomeno che l'amico di Montaigne, Etiene de La Boetie, cinque secoli fa, chiamava suggestivamente «servitù volontaria». Quanto e soprattutto perché è molto difficile che una retorica prodotta oggi dalla totalità del ceto politico (con lievissime differenze d'accento tra governo e opposizione) non goda di favore per un certo tempo, anche perché alimentata quotidianamente. Naturalmente, nessun ciclo storico è eterno: nulla esclude che prima o poi l'opinione pubblica non si decida a chiedere conto ai suoi governanti di quello che dicono, con una semplice domanda degna del racconto di Andersen, I vestiti dell'imperatore : «Ma se ci parlate da quindici anni di insicurezza, non è che per caso non siete mai stati capaci di far qualcosa in proposito?». Dio abbia pietà di quei governanti, quando gli elettori scopriranno di essere stati raggirati per tanto tempo.

La verità è che mai i governanti potranno far qualcosa, date le premesse fantastiche dell'incessante retorica. Per dirla in poche parole, nessuno ci potrà mai curare dal mal di insicurezza: che nel 1992 in Italia si uccidessero ogni anno 1.200 persone, e oggi poco più della metà, non ci dice nulla della probabilità reale di essere uccisi in questi sedici anni. E lo stesso vale per quella di essere scippati, derubati e così via. Le statistiche sono una sintesi puramente numerica dell'esito di processi aleatori e largamente imprevedibili: non significano letteralmente nulla per le nostre esistenze. Io, per esempio, ho vissuto per alcuni mesi in una città, Los Angeles, la cui contea è abitata da 14 milioni di abitanti ed è funestata da 1.000 omicidi all'anno - fatte le debite proporzioni, è come se in Italia si contassero 5 mila omicidi, e cioè nove volte il numero reale, una cifra che farebbe invocare da qualcuno il coprifuoco. Ebbene, stando a Los Angeles, non ho percepito nessun rischio, nessuno ha attentato alla mia vita e mi sono persino dimenticato un paio di volte di chiudere la porta di casa. E' vero che abitavo in un quartiere considerato sicuro (ma diversi miei conoscenti hanno dichiarato di essere normalmente impauriti…). Insomma, come la diminuzione dei reati di strada non ci protegge dalla possibilità di uno scippo, così la percentuale degli omicidi su un certo numero di abitanti non ci permette di essere sicuri che domani qualcuno non ci aggredirà con un coltello. In questi campi, l'insicurezza è questione di punti di vista, carattere, suggestionabilità e ovviamente caso.

E quindi corrisponde in tutto e per tutto al carattere enigmatico dell'esistenza. Ecco perché ho definito Daseinpolitik, «politica dell'esistenza», quel tipo di retorica pubblica che fa leva sull'umanissima paura o incertezza esistenziale per legittimare se stessa, e quindi il governo. Per dare un'idea di ciò che intendo offro solo un esempio, che non ha ovviamente alcun valore, se non metaforico. Mi chiedono di firmare una petizione contro i proprietari di un bar sottocasa che tiene aperto fino a notte fonda ed è perciò causa di un frastuono intollerabile. Non amo il genere «cittadini che non ne possono più,» ma sono disposto a considerare la cosa, finché non leggo che la petizione è diretta all'assessore comunale alla sicurezza. Ma che c'entra la sicurezza? Qui è questione di regolamenti comunali in tema di pubblici esercizi, e quindi la petizione o protesta dovrebbe essere indirizzata ai carabinieri o alla polizia municipale. Ma non capisce che qui è in gioco il degrado della città? Mi si risponde. No, non capisco. La verità pura e semplice è che dopo l'incessante campagna sulla sicurezza, risolvere il problema del frastuono è possibile solo con l'equazione: «Frastuono uguale degrado uguale insicurezza uguale (implicitamente) immigrazione». Il risultato è che responsabili ultimi del frastuono non saranno considerati i gestori del bar (e al limite le autorità comunali che non fanno nulla), ma i ragazzini marocchini che ciondolano di notte con la birra in mano.

L'insicurezza ha contorni così ampi che può riguardare tutto e non corrispondere a nulla di particolare. O meglio corrisponde a qualcosa che si dà per scontato come una necessità e non ci si sogna nemmeno di interpretare. E' vero, l'andamento dei reati, per lo più in diminuzione, non spiega il senso di insicurezza, ma se i cittadini hanno questa percezione, dobbiamo fare qualcosa… ecco che cosa dice un giorno sì e uno no qualsiasi editoriale dei quotidiani nazionali, grandi e piccoli. Io trovo tale retorica intellettualmente ripugnante. In primo luogo perché questo tipo di messaggio, martellante com'è, finisce per alimentare e accrescere proprio un senso di insicurezza dai contorni incerti e inconoscibili (ma i giornalisti non pensano mai che televisione e giornali sono agli occhi del pubblico, la realtà?) E poi perché finisce per giustificare ogni obbrobrio, che farebbe rivoltare nella tomba non dico Aldo Capitini, ma persino il vecchio Beccaria. Ed ecco alcuni esempi e un caso empirico.

Da un mese circa i rom vengono cacciati da tutti gli insediamenti non si sa dove. Da qualche tempo i prefetti delle grandi città fanno schedare anche i sinti, per lo più di cittadinanza italiana, inviando la polizia all'alba nei loro insediamenti, come se si trattasse di criminali. In qualsiasi posto civile, questa sarebbe considerata discriminazione su base etnica (i cittadini sono schedati a seconda della loro supposta origine) e quindi inammissibile. Alle proteste giustificatissime di un sinti molto noto, sopravvissuto di una famiglia sterminata dai nazisti, il giornalista di un quotidiano diffusissimo (che non cito solo per un barlume di carità) obietta più o meno: «Ma lo fanno per voi, per stabilire chi si comporta bene e chi no…». Insomma, se ti svegliano alle cinque del mattino per schedarti e terrorizzano i tuoi bambini, lo fanno per il tuo bene. Si noti non solo l'ipocrisia dell'argomento, ma l'implicito schierarsi del giornalista con le autorità. Che ci sta a fare l'Ordine dei giornalisti se non insegna ai suoi iscritti che compito di un vero giornalista è descrivere e al limite spiegare ciò che succede, e non fare la morale (e che morale!) alle vittime di un sopruso?

Caso empirico: l'ondata di piccoli pogrom contro i rom a Napoli sarebbe stata causata dal supposto tentativo di ratto di un bambino da parte di una nomade. Immediatamente l'Opera nomadi e altre associazioni hanno fatto notare che non esiste un solo caso accertato o giudicato nel dopoguerra di bambini rapiti dai rom (in cambio conosco almeno tre bufale analoghe, negli ultimi anni, che si sono sgonfiate in pochi giorni). L'inchiesta è in corso e scommetto la mia reputazione che si è trattato, nel caso peggiore, di un equivoco. Ma tutta la stampa nazionale ha riportato l'episodio prendendolo per buono: «Nomade rapisce un bambino a Napoli, eccetera» Mi sarebbe piaciuta una controinchiesta, tenuto anche conto che da quelle parti opera la camorra, che non va tanto per il sottile quando si tratta di deviare l'attenzione pubblica dai propri misfatti. Ma credo che l'aspetterò per molto tempo. Ed ecco che cos'è l'insicurezza, almeno nell'Italia d'oggi: un misto di balle mediali, cinismo politico e anche, perché no, panico generalizzato.
Pensare che in queste condizioni i sondaggi sulla percezione dell'insicurezza o dell'immigrazione - propinati instancabilmente dai media - siano veraci significa avere un'idea curiosa della verità: è vero quello che i media propongono come tale. Walter Lippman, che non era proprio un anarchico, ironizzava su questa pretesa almeno sessant'anni fa.

Con politica dell'esistenza intendo non un complotto o un piano per assoggettarci, ma un comodo metodo per distrarci dalla realtà di un paese incattivito, privo di senso del futuro, in cui i salari sono più bassi che altrove, le università agonizzanti, i giovani senza speranza d'impiego stabile e la spazzatura trabocca dai cassonetti. Creando un nemico ubiquo, indefinibile e fungibile (marocchini, rom, albanesi, stupratori all'angolo delle strade, pedofili nei giardinetti) le vere magagne in cui affondiamo sono minimizzate e il ceto politico può continuare a fare la bella vita. E i giornali a vendere il loro allarmismo. Povero Hobbes. Almeno la sua mamma aveva paura della formidabile armata spagnola.

Foto di Kazze [Fear Box 2 - The Revenge], con licenza Creative Commons da flickr

domenica, giugno 22, 2008

Noi punk del Virus e i centri sociali milanesi

di Marco Philopat
da il manifesto del 21 giungo 2008

Nel 1977 avevo 15 anni e sotto casa mia c'era il primo centro sociale di Milano occupato nel '75, la Casermetta di Baggio. Dentro c'erano quelli di Avanguardia Operaia che tentavano di fare qualcosa di positivo nel quartiere, il Movimento Studentesco che andava nelle vicine case minime a organizzare il doposcuola per i figli dei migranti meridionali, poi quelli più avventurosi dell'Autonomia che erano una marea. Le prime volte avevo provato a curiosare le lezioni del doposcuola, ma presto mi ero annoiato, nel cortile della Casermetta c'erano ben altre attrazioni rispetto all'insegnamento dell'italiano a dei ragazzini svogliati, i quali a loro volta preferivano sognare la rivoluzione con gli autonomi. La lotta per noi consisteva soprattutto nella partecipazione a qualche manifestazione tesa contro la polizia e nelle serate di socialità diffusa tra cannette e chitarre acustiche. Eravamo tanti, tutti giovani, mezzi milanesi e mezzi terroni, estremamente felici e sicuri di diventare i protagonisti di un mondo che stava cambiando pelle velocemente. A Milano i centri sociali erano numerosi, senza contare i circoli del proletariato, le sedi politiche extraparlamentari, le librerie e le redazioni dei giornali, se c'era una minima ingiustizia sociale in qualche oscuro angolo di città, la risposta del movimento non tardava mai a farsi sentire.

L'eroina e il punk. La pacchia durò pochissimo e dal vertice dell'onda settantasettina si passò direttamente alla depressione del 1979. La Casermetta fu sgomberata insieme a molti altri centri e circoli, tanti compagni arrestati e noi giovani ribelli dell'ultimora finimmo per irrobustire le file già affollate degli eroinomani. Mi salvai grazie al punk che mi portò a gridare il no future nelle strade di un centro cittadino completamente ripulito. Lì, come per incanto, resisteva ancora un altro centro sociale, il Santa Marta di Demetrio Stratos e delle Kandeggina Gang. Ma la Milano da bere era allora molto convincente e gli ex militanti del movimento creativo furono presto assoldati dai rampanti socialisti craxiani, e così per i pochi punk milanesi non restava altro da fare che rifugiarsi in uno degli ultimi centri sociali sopravvissuti in una zona quasi periferica, a via Correggio 18.

Nei primi quattro anni degli Ottanta il Virus, il locale per i concerti interamente autogestito dai punk nato all'interno di via Correggio 18, era praticamente l'unico luogo antagonista che funzionava ancora. Cioè, c'era per esempio il Leoncavallo e alcuni altri, ma dentro si faceva ben poco e rare erano le persone che li frequentavano. Al Virus nacque, per la prima volta dopo la grande repressione e il riflusso, una nuova aggregazione giovanile che in pochi mesi moltiplicò la sfera dei propri interessi. Si passò dallo slogan quasi disperato, stampato a caratteri cubitali sugli striscioni dietro al palco che diceva «quando il sistema ti chiude ogni spazio, non rimane che la musica per esprimere il tuo dissenso», all'organizzazione di una grande manifestazione a Comiso contro i missili nucleari, con l'intenzione di occupare la base militare per far suonare le band punk di tutta Europa. Nel maggio 1984 il Virus tentò di occupare un vecchio teatro in disuso, il volantino portava le firme del Leoncavallo e dell'ultimo tra i circoli, quello di Viale Piave. La polizia sgomberò in poche ore, poi una settimana dopo, per timore di qualche forma di rigurgito stile anni settanta, la giunta comunale socialista si allineò alla questura e tutta l'area di via Correggio 18, Virus compreso, verrà eliminata dalla faccia della città. I punk si stabilirono al Leoncavallo e nel giro di qualche concerto le bianche pareti immacolate del vecchio centro sociale si riempirono di scritte e graffiti a spray.

Il Leo degli anni '80. Nella seconda metà degli anni Ottanta il Leoncavallo, con la gestione dei compagni provenienti dalla storica casa occupata di via dei Transiti, ospitava l'esperienza similpunk dell'Helter Skelter da cui poi sfocerà il centro sociale Cox 18, nato dall'espansione di un'antica sede anarchica. Entrambi i luoghi saranno sottoposti agli sgomberi e poi alle rioccupazioni nel corso dell'estate del 1989. Da allora, e per tutti gli anni Novanta, a Milano i centri sociali fioriranno ovunque, tra i tanti la Pergola e S. Antonio Rock Squot nel quartiere Isola, il laboratorio anarchico, la casa delle donne di via Gorizia e lo Squott di viale Bligny in Ticinese, la Panetteria e l'Adrenaline a Lambrate, il Vittoria e Via dei Missaglia a sud della città, il Micene e il Galla nella zona nord ovest e nell'hinterland la Cascina di Vaiano Valle, il Bakeka di Novate, l'Eterotopia di San Giuliano, la Corte del Diavolo a Sesto. I Csa a quel tempo agivano nella direzione del soddisfacimento dei bisogni immediati e non guardavano certo al rilancio di grandi utopie. Non c'erano grandi progettualità politiche ed esistenziali come quelle che avevano caratterizzato il loro esordio vent'anni prima, al limite si erano fatti promotori di una proposta culturale innovativa riuscendo a strapparla al business del divertimento o al monopolio delle ormai decadenti organizzazioni di partito o sindacali. Funzionavano anche come informali camere del lavoro per precari dell'emergente era postfordista e infatti molti tra i gestori e frequentatori impararono una professione, in genere nel campo culturale, chi tecnici dello spettacolo, chi operatori specializzati e qualcuno anche giornalista o regista di video.

Le geografie del desiderio. Intanto nel giugno del 1996 era stato pubblicato un libro, una sorta di fotografia con l'autoscatto, Centri sociali - Geografe del desiderio realizzato da Cox 18 e Leoncavallo con l'aiuto del consorzio Aaster e di Primo Moroni. Ci si interrogava sul ruolo dei Csa in una città come Milano, la disponibilità o meno di entrare in dialettica con il territorio di insediamento, oppure il chiudersi in logiche autoreferenziali. La questione della diversità e dell'autonomia ma allo stesso tempo il significato dell'essere attraversati da migliaia e migliaia di persone ogni giorno, le prime analisi sui nuovi modelli produttivi e sulla precarietà nel mondo del lavoro, la crisi di rappresentanza e la rappresentanza informale di interessi ben più ampi di quelli a cui si era abituati a pensare. Il rischio dello slittamento nei rapporti tra i gestori e l'utenza dei centri che poi sarà una delle cause scatenanti dell'attuale situazione di stallo. I centri sociali autogestiti, si diceva, devono affrontare periodiche «prove», sia sul piano simbolico che su quello della tutela concreta, in base alle quali legittimare il proprio implicito parlare ed agire «a nome di», pur nel rifiuto di ogni principio di delega. Di «prove» se ne abbozzarono poche e quel rifiuto del principio di delega che univa il movimento dei centri sociali milanesi fu messo inevitabilmente in discussione.

Tuttavia sul finire del decennio altri spazi aprirono, per esempio il Bulk, il Torkiera e l'Orso, la rivolta di Seattle aveva spinto all'azione le cosiddette moltitudini, Bush aveva rubato il trono ad Al Gore, il centrosinistra manganellato a Napoli e Berlusconi ci aspettava alle soglie della zona rossa. Cariche, botte, sangue, l'omicidio di Carlo, l'undici settembre, Afghanistan e Iraq... Dal 2004 è crisi dichiarata all'interno dei centri sociali milanesi, la proposta culturale innovativa se la sono scippata prima alcuni fuoriusciti dai Csa stessi aprendo circoli Arci, poi tutti gli altri. I gestori rimasti non sanno che fare, se vogliono organizzare un concerto o un'iniziativa devono stare attenti alla concorrenza, i precari non hanno nemmeno i soldi per uscire e quindi si trovano lavoro altrove e i frequentatori sono perlopiù figli di gente che sta bene. Se oggi, proprio come trent'anni fa, un giovane migrante vuole sognare, non dico la rivoluzione, ma almeno qualche tipo di lotta politica, l'ultimo posto a cui bussare sono i centri sociali. E se per caso vuole semplicemente imparare l'italiano, di certo non può contare su qualche redivivo del movimento studentesco, forse è meglio che si rivolga ai formigoniani della compagnia delle opere.

Foto di Vandalo [Vandalo02], con licenza Creative Commons da flickr

lunedì, giugno 16, 2008

Wu Ming 5 su Roma K.O. Romanzo d'amore droga e odio di classe

da nandropausa # 14/15 giugno 2008

Il sindaco V. vuole sgomberare i seimila abitanti di Corviale, che ha subito danni strutturali, in una tendopoli a Cinecittà, proprio di fianco a un grande centro commerciale.
Non è il migliore dei piani. Scoppia la rivolta, come c'era da aspettarsi. Black Bloc e donne velate, hippoppettari e massaie corvialine, riot grrrls fuori tempo massimo, rasta, coatti di quartiere, compagni. Partono cinque giorni deliranti.

Ricordo la frustrazione adolescenziale dello specchiarsi nelle vetrine e vedere che non si è vestiti nel modo giusto, che non lo si può essere. Infiniti episodi di violenza urbana hanno la radice in questo fondo emotivo. Merci attraverso vetrine, imprendibili, oggetti che consentirebbero una forma momentanea di riscatto. Protesi contro l'impotenza, palliativi contro il disagio, effetto placebo sociale: la chiave del grottesco, dello smisurato, del deforme, se giocata con misura, sembra essere uno dei modi più efficaci per raccontare la quotidianità di questo paese, in questo momento storico, purché venga espunta ogni tendenza dolciastra, felliniana nel senso deteriore del termine, e purché si presti una cura iperrealista alla descrizione di volti, oggetti, contesti, parole, modi. In altre parole, non occorrono giochi di specchi per scoprire la deformità nella vita di tutti i giorni. Basta essere moderatamente lucidi e attenti. La deformità del paese, in più, non si è prodotta ora. E' risultato degli ultimi venticinque anni di storia.

In questo romanzo, davvero, manca solo la giraffa che si suicida buttandosi dalla finestra di un edificio in fiamme. Eppure qui c'è il quotidiano, qui ci siamo noi come comunità, di fronte a una impasse storica che chi è nato e vissuto in un quartiere di periferia, come me, può interpretare come invito alla rivolta, anche senza futuro, purché divertente. Del resto anche l'edificio-simbolo da cui parte la vicenda del romanzo è immediatamente grottesco. Un edificio lungo un chilometro, epitome del disagio da metropoli, mutazione italica di concetti funzionalisti. Si dice che la presenza di Corviale alteri il flusso dei venti in tutta la città, che impedisca al ponentino di spirare. Di certo vivere in simili contesti – ma anche in periferie "illuminate" come la Barca, da cui provengo, cantata dagli Scritti Politti in Skank Block Bologna, o nel grigiore da hinterland che Philopat conosce bene – altera la prospettiva, la rende angusta, oppure spinge all'apertura, instilla in chi ha avuto la forza o la fortuna di guardare dietro l'angolo voglia di ribellione, di libertà, di fuga.

Se c'è una cosa quindi che traspare da quest'ultimo lavoro di Marco Philopat e del Duka – vera e propria memoria storica che ha attraversato decenni di movimento e di street life romana- è il materiale di cui siamo fatti tutti, noi che apparteniamo a generazioni vicine. Cascami di ideologie, assemblaggi di stili di strada, drammi e farse, oggetti d'uso, oggetti di culto, nomi di atleti e attori, droghe, l'idea del viaggio come ombra del quotidiano difficile, una tendenza allo stoicismo coniugata con la pulsione forte, vivida, potente al consumo, all'edonismo, al piacere, al dandismo da poveri, da classe operaia, l'idea che è possibile non fare un cazzo e vivere felici, anche se questa cosa poi è uno sbattimento infernale. Attorno alle storie del Duka, che coprono vicende lontane, disparate, eppure risonanti – la nascita del tifo organizzato nella curva romanista, i primi rave party a Ibiza, il punk e la new wave, il Chiapas pre-insurrezione, Amsterdam, i Paesi Baschi - si snoda una vicenda urbana contemporanea, appena oltre il plausibile, risolta con efficacia, divertente, agevole, popolare nella migliore accezione del termine.

Il rischio del reducismo è presente, ma viene dribblato agilmente, con un tocco da futebol bailado sudamericano, perché la storia tiene, le storie del Duka sono impagabili – vedi quella del Punk Secco e della corsa di carrelli da supermercato, o l'incontro con i casseurs nella Parigi dei rifugiati politici italiani - e i personaggi, specie il giornalista free lance ex-compagno e pusher di coca (e anche un paio di presenze femminili) sono ben delineati, calati nella realtà, credibili.

Foto di Jocho B. [Pop Gun], con licenza Creative Commons da flickr

11 tesi dopo lo tsunami

a cura del Centro per la Riforma dello Stato - 12 giugno 2008

1. Aprile 2008: va rilevato il tratto di discontinuità, forse di salto. Non si può riprendere il discorso dall’heri dicebamus. Occorre un cambio di passo, nella ricerca e nell’iniziativa. Non stava scritto che la transizione si chiudesse a destra. Ma così è avvenuto. E tuttavia non è la sorpresa il sentimento dominante: i segni c’erano, nel paese, e anche a Roma. Perché non siano stati letti, è il problema. D’altra parte, non è la paura il sentimento che ci deve dominare. Non c’è Annibale alle porte, non ci sarà un passaggio di regime. C’ è una nuova destra, di governo, e di amministrazione, da sottoporre ad analisi e da contrastare nella decisione, con uno scatto di pensiero/azione.

2. Si conferma il dato, che viene da lontano, di una maggioranza di centro-destra nel paese reale. Negli ultimi quindici anni, l’opinione di centro si è avvicinata all’opinione di destra. Se la Dc era un centro che guardava a sinistra, Forza Italia è un centro che guarda a destra. Questo ha dato l’illusione che ci fosse un residuo di centro da conquistare a sinistra. C’era, ma meno consistente di quanto si pensasse. I mutamenti, non colti, di società, a livello di territorio, sono stati più forti dell’iniziativa politica. Sono state due le risposte a questi smottamenti di opinione: una a vocazione maggioritaria, una a vocazione minoritaria. La prima, una risposta, diciamo così, espansiva: competere al centro, per togliere al centro-destra un pezzo di consenso. Così, i Progressisti, poi l’Ulivo, poi l’Unione, poi il Partito democratico. Che quest’ultimo potesse assolvere a questa funzione da solo come un tutto, si è dimostrato un progetto, a dir poco, non realistico. La seconda, una risposta, diciamo così, difensiva: marcare una posizione alternativa, con una grande ambizione e una piccola forza. Non si può essere, troppo a lungo, anticapitalisti e deboli, antagonisti in pochi. Aprile, il più crudele dei mesi: due fallimenti, del centro-sinistra e della sinistra, del grande partito di centro-sinistra e della piccola aggregazione di sinistra.

3. Qui, un punto teorico-politico, che va affrontato. Si potrebbe chiamare l’equivoco della rappresentanza. Anzi, il rapporto tra l’equivoco della rappresentanza e quella che si dice la crisi della politica. Che cosa viene prima, una crisi di rappresentanza sociale o una crisi di proposta politica? Che cosa fa più difetto, la rappresentanza o la rappresentazione? Proviamo a rovesciare il senso comune. E diciamo così: la crisi della politica comincia non quando la politica non sa più ascoltare, ma quando la politica non sa più parlare. Certo che bisogna ascoltare, la rappresentanza è essenziale, capire la società, conoscerla, ma non è tanto la mancanza di questo che sta al fondo della crisi della politica. Il fondo della crisi della politica è nel crollo di soggettività politica, nella caduta, relativamente recente, della proposta soggettiva. La politica non sa più parlare proprio perché non sa più leggere, non sa più interpretare. E quindi non sa orientare, non sa dirigere. L’equivoco della rappresentanza è il fatto di assumere il dato così com’è, anche il dato della società, anche il dato della maggioranza di centrodestra nel paese. Se tu lo assumi così com’è, e cerchi di correggere questo, e non ti fai carico invece di una proposta politica forte, lì inneschi appunto un processo che va a finire nella crisi della politica. Prima produci l’antipolitica e poi ti fai carico di rappresentarla.

4. Quando la politica non sa più parlare, allora viene fuori un ceto politico, e un ceto amministrativo, autoreferenziale, che parla a se stesso e di se stesso, perchè non sa più parlare al paese, alla società. Questo ceto politico, impegnato a occuparsi di se stesso, entra nella logica di qualsiasi altro ceto, di qualsiasi altro corpo della società. Per garantirsi il consenso insegue le pulsioni di massa. Più le rappresenta, più vince. La politica non è scollata dalla società civile, è incollata ad essa. Se società civile è il campo degli interessi particolari e degli egoismi corporati, allora la politica di oggi non la rappresenta poco, piuttosto le assomiglia troppo. Questa politica è un pezzo di questa società, subalterna alle leggi di movimento, nazionali e sovranazionali, attraverso cui essa si autogoverna. Di qui, la crisi di senso dell’agire politico, vero e proprio fatto d’epoca del nostro tempo. Perché, compito principale della politica non è dare risposte, è fare domande. E’ la politica che deve interrogare la società, e il dato che c’è, deve appunto saperlo leggere, decifrare, tradurre, e solo dopo che lo ha interpretato, può rappresentarlo, ma mai rappresentarlo come riflesso passivo, mai specchiarlo così come si presenta oggettivamente, nel suo gioco incontrollato di forze.

5. Quale, su questo punto, la differenza tra l’adesso e ieri? In passato c’erano le grandi classi, che avevano una voce, che parlavano, esprimevano, sì, interessi, ma grandi interessi, di per sé riconoscibili. In quel caso la politica era più facilitata a rappresentare, a raccogliere, perché la voce veniva da potenti aggregati, già autonomamente, in qualche misura, organizzati. Era meno importante allora leggere e interpretare, era più possibile direttamente rappresentare. Ma quando le grandi classi si disgregano, e ti trovi di fronte a una società frammentata, pluralistica, corporativizzata, cetualizzata, anarchicamente individualizzata, quando non c’è più quindi voce sociale, aumenta l’obbligo della voce politica. Parlare a questa frammentazione, vuol dire elaborare una proposta riunificante. Il sociale ormai, nel capitalismo dopo la classe, va costruito, non va descritto. Produrre legame sociale, e produrlo attraverso il conflitto, o meglio, attraverso i conflitti, ecco il volto nuovo della Sinistra, dopo il Movimento operaio. La Destra, nemmeno la nuova destra, può e sa farlo. Il discrimine è qui. Fare società, ma con la politica: se deve esserci missione, per la Nuova Sinistra, questa è.

6. C’è un’ondata di destra, che arriva, con il solito ritardo in Europa, dall’America di Bush, proprio mentre lì va forse declinando. E’ una febbre da rivoluzione conservatrice in tono minore, che attacca i corpi malandati dei nostri sistemi politici. Lo schema è quello tradizionale: la paura come risposta al disagio. Perché la paura non è la causa scatenante, la causa scatenante è il disagio, di società, di umanità, e quindi di civiltà. La paura è un rimedio mobilitante per chi non ha difese, e dunque le cerca, per chi non ha sicurezza del futuro e dunque cerca sicurezza almeno nel presente. La destra corrisponde di più e meglio al lato oscuro dell’animo umano, e la sinistra ha i Lumi ma da tempo li tiene spenti. Una tesi politica, controcorrente, da sostenere a questo punto con buone ragioni potrebbe dire così: la destra vince perché non c’è la sinistra. E’ una tesi dimostrabile empiricamente, ultimi dati elettorali alla mano, nel paese Italia e, soprattutto, in quell’evento simbolico che è la caduta di Roma: non ha sfondato il centro-destra, è franato il centro-sinistra. La verità da cominciare a dire è che il centro-sinistra non ha futuro se non si riorganizza intorno a una Grande Sinistra.

7. C’è un retroterra di questo discorso, di cui bisogna essere consapevoli, un discorso di lungo respiro, che funge un po’ da convitato di pietra di tutti i nostri pensieri. Dice questo: la destra vince, perché il capitalismo è forte. Sta forse esaurendosi il ciclo neoliberista e sta forse riguadagnando spazio il ruolo delle politiche pubbliche, e c’è da capire dove cadrà l’accento, se sul passaggio di crisi o sul passaggio di ristrutturazione. La sfida è a livello globale, e sarebbe bene non lasciare alla destra tutta intera la denuncia degli effetti perversi della globalizzazione mercatista. Il capitalismo è forte perché riesce a tenere ancora insieme innovazione di sistema, democrazia politica ed egemonia culturale. Un blocco di potenza che ha permesso fin qui a proprio favore due, e due sole, soluzioni di governo: o un centro-destra forte o un centro-sinistra debole. La virtuosa alternanza nei sistemi bipolari o bipartitici, modello Westminster, si sappia, ha questo vizietto di fondo. In queste condizioni, non c’è spazio né per una politica di pura gestione né per una politica di mera contestazione. C’è posto solo per una guerra di posizione, di media durata. La difficile situazione economica impatterà con il governo politico della destra. E l’emergenza, che sembrava dover essere istituzionale, magari sarà di più sociale. La storia-mondo, poi, è un campo di imprevedibili eventi, se non la si guarda con la pappa del cuore, ma la si afferra con la lucida intelligenza di una politica-mondo. Qui c’è un terreno favorevole per la sinistra, se saprà essere meno Proteo e più Anteo, se saprà di meno apparire in tante forme e di più ritrovare la sola terra da cui ricava la propria forza.

8. Bisogna dire: il popolo della sinistra ha il diritto di avere, per sé, una forza politica. E poi dire: l’Italia, per stare in Europa e nel mondo ha bisogno di una sinistra. Non di una piccola sinistra, residuale, testimoniale, arroccata nei passati simboli e nelle antiche identità, ma di una Grande Sinistra, moderna, critica, autonoma, autorevole, popolare. Non si può concedere che l’anomalia italiana si ripresenti oggi nella forma dell’eccezione di un paese senza una grande forza politica che rivendichi con orgoglio questa funzione, nel nome, nei fatti, nei valori. Il problema di oggi non è: che cosa è sinistra, ma chi è sinistra. Più che conoscere, si tratta di andare a ri-conoscere il popolo della sinistra. Ma, anche qui, riconoscere non vuol dire rappresentare, vuol dire costruire, o meglio, ricostruire un campo di forze, in grado di portare un progetto di trasformazione, strategicamente pensato e tatticamente agito. Fondare un popolo: questo il Beruf - vocazione/professione - della politica, quando non è chiacchiera ma discorso, non immagine ma idea, non affabulazione ma organizzazione.

9. La nuova e antica centralità: dare forma politica al pluriverso del lavoro. Ci vuole un’idea politica di lavoro, anzi, di lavoratore. Dopo l’esperienza storica del movimento operaio, in che modo la persona che lavora, uomo e donna in modo differente, può avere in quanto tale, non solo come cittadino, una funzione politica? Come i lavoratori associati possono contare politicamente? In che modo, per quali vie, con quali forme, possono esprimere un progetto di modello sociale, di sistema politico, di egemonia culturale? E, anche qui, chi sono oggi i lavoratori? C’è questo ceto medio acculturato di massa, che è diventato un po’ la caricatura del blocco storico per il centro-sinistra: perché è isolato e lontano dal resto della società reale. Ha una parte alta, che va verso le professioni, una parte bassa che va verso il precariato, a volte le due condizioni si congiungono. E’ prezioso lavoro della conoscenza, un decisivo pezzo di lavoro immateriale, con in mano il futuro di sviluppo del paese. Va ricongiunto al lavoro materiale, al lavoro manuale, che c’è anche quando manovra le macchine, al lavoro operaio, salariato. Il lavoro sans phrase, direbbe Marx. Ma qui ne va della dignità della sinistra il farsi carico e porre rimedio a questa disperata solitudine operaia, che si esprime, come abbiamo visto in tanti modi, a volte sconcertanti, che vanno riconosciuti, non giudicati. Solo assolvendo politicamente a questo compito si può riaprire il discorso sul nuovo “mondo del lavoro”. Lavoro e sapere, si dice oggi. Più la differenza del lavoro femminile. Il lavoro autonomo, di prima e seconda generazione, che va ricongiunto al lavoro dipendente, garantito o precarizzato. Così come il centro urbano va ricongiunto alle periferie metropolitane. Non è possibile accettare come un destino il rovesciamento di consenso che si è verificato tra questi spazi di territorio e in questi luoghi del sociale. Non è possibile. O altrimenti essere di sinistra non ha più senso politico. Ecco la vera missione di un forte partito della sinistra: recuperare il senso della propria funzione, nel “fare popolo” come “soggetto politico”. Ricongiungere, riannodare e stringere il nodo tra campo sociale e forza politica.

10. Diceva Brecht: sul muro sta scritto “viva la guerra”/ chi l’ha scritto, è già caduto. Adesso si dice: non si può tornare indietro. Chi lo ha detto, ha già messo un piede nel vuoto. Il nuovo a tutti i costi restaura il vecchio che avanza. Abbiamo avuto a nostre spese, qui e ora, una lezione da manuale. Calcoliamo bene le mosse, prendiamoci il tempo necessario. Ma non escludiamo a priori il fatto che a volte è necessario fare un passo indietro per saltare in avanti.

11. Intendiamoci su questo. Non si tratta di mettere insieme i pezzi della vecchia sinistra. Sarebbe un’operazione fuori tempo e senza spazio. Il vecchio bisogna sempre che sia quello dell’avversario, mai il nostro. Tutte e due le tradizioni, quella comunista e quella socialdemocratica, sono esaurite. Ma non si creda che sia allora viva, per i bisogni della sinistra, la tradizione liberaldemocratica. Il partito del popolo della sinistra è oltre tutta intera questa storia. Le componenti popolari si sono sfaldate, ma le loro culture in senso lato, cioè le tracce di civiltà, che esse hanno depositato nella storia del nostro paese, sono lì, in attesa di essere riconosciute,valorizzate, riorganizzate e riunificate con le nuove culture, con i nuovi grumi di civiltà: le esperienze di organizzazione con le esperienze di movimento, il socialismo con il femminismo, il cattolicesimo sociale con i diritti della persona, il lavoro salariato con l’ambientalismo politico, la cultura del conflitto con la cultura della pace. Tutto questo, insieme, è popolo della sinistra. E può diventare partito del popolo della sinistra. Non è un blocco, è un campo. Non si comporrà da solo. Bisogna comporlo. Ci vuole decisione politica e pensiero forte. Ma, ecco: non si deve scherzare con i propri riferimenti, pratici e teorici. Altrimenti si diventa un’altra cosa.

Foto di Simple Dolphin [deserted 9 | 斑], con licenza Creative Commons da flickr

mercoledì, giugno 11, 2008

"Roma K.O." booktrailer by Gigi Roccati

Il Mediterraneo, strage continua a cielo aperto

di Germana Graceffo
da kom-pa

Continua ad aumentare il numero dei morti della guerra dichiarata ai migranti dall’Europa e dall’Italia. Decine di cadaveri dispersi nel Canale di Sicilia, altri cadaveri impigliati sugli scogli del ragusano, a Linosa, a Lampedusa, effetti collaterali delle decisioni assunte o semplicemente annunciate sulla introduzione del reato di immigrazione clandestina e sull’inasprimento delle normative sulla protezione internazionale e sui ricongiungimenti familiari, decisioni europee che con l’adozione della direttiva rimpatri permetteranno di portare fino a 18 mesi la detenzione amministrativa di tutti i migranti costretti ad arrivare irregolarmente in Italia.

Il nuovo pacchetto sicurezza, con quattro disegni di legge ed un decreto legge già operativo, segna un ritorno ad uno stato fascistoide nel quale l’arbitrio della polizia viene sottratto persino al controllo di legalità della magistratura. Un omaggio agli alleati post-fascisti di Berlusconi e alla Lega Nord, che già quattro anni fa avevano dichiarato che si sarebbe dovuto sparare agli immigranti mentre erano ancora a bordo delle navi.

L’opposizione condivide 9 punti su 12 del pacchetto sicurezza proposto da Maroni, ed é pronta ad un voto di tutte quelle misure repressive, anche nei confronti dei cittadini comunitari, che già erano state annunciate dal ministro degli interni Amato. Ma soprattutto, dopo gli accordi italo-libici sottoscritti a Tripoli il 29 dicembre dello scorso anno, si propongono come i garanti della continuità in politica estera, additando la strada che deve seguire il nuovo governo.

Il governo Berlusconi ripropone infami accordi di riammissione, anche con paesi come la Libia e la Tunisia che non riconoscono effettivamente il diritto di asilo e che praticano la tortura e la detenzione arbitraria, per bloccare gli irregolari prima che arrivino in Italia o per rispedire indietro come carne da macello i migranti che riescono a raggiungere le nostre coste.

In questo quadro la Sicilia e le isole minore vengono militarizzate, con l’ampliamento dei centri di identificazione ed espulsione e la creazione di nuovi centri presso le vecchie caserme militari. I vecchi CPT cambiano nome: si chiameranno CIE (Centri di identificazione ed espulsione), centri che serviranno ad assicurare l’arresto immediato e la detenzione amministrativa dei migranti che arrivano dopo avere attraversato il deserto ed il canale di Sicilia. Lampedusa si trasforma in un gigantesco lager a cielo aperto: il sindaco propone di circondare con filo spinato il centro di accoglienza creato dal precedente governo; la parlamentare Maraventano chiede la costruzione dei centri di detenzione per immigrati a mare.

Foto di arkano3 [el naufragio], con licenza Creative Commons da flickr

Appello a sostegno della Sapienza, a sostegno degli studenti

da uniriot - 10 giugno 2008

Molte cose sono state raccontate in questi giorni sull'università la Sapienza, molte cose non vere hanno preso il posto della verità. L'aggressione contro alcuni studenti ad opera di militanti del partito neofascista Forza nuova è stata trasformata in una rissa, una gioiosa manifestazione di oltre 2000 studenti (nonostante la pioggia) in un sequestro di persona. La verità sappiamo è un campo di battaglia e non sempre bastano i fatti a renderla inattaccabile.

In conseguenza a queste falsità si è dispiegato un singolare attacco nei confronti degli studenti e dell'università tutta. Gli studenti sono stati definiti responsabili di una degenerazione politica senza precedenti, figlia del '68, annus terribilis, secondo il Corriere della sera, da archiviare una volta per tutte; la Sapienza un'istituzione incapace di far parlare forze politiche che, nonostante facciano ripetutamente uso di ideologie xenofobe e razziste, oltre che negazioniste nei confronti della Shoah, abituate all'uso della violenza e dell'aggressione, sono legali e dunque meritano di essere ascoltate da studenti, ricercatori e docenti.

Questo attacco va respinto, perché porta con sé un'ostilità senza precedenti nei confronti del sapere critico, della democazia e dell'autonomia dell'istituzione universitaria. Un'ostilità che colpisce anche la Costituzione repubblicana, espressamente antifascista: pluralismo e tolleranza politica e culturale, in questo senso, non sono disgiungibili dal rifiuto di ideologie, linguaggi e pratiche dichiaratamente fasciste come quelle del partito Forza nuova. L'università è probabilmente un luogo anomalo nel paese, anomalo perchè all'interno di esso la pratica democratica del dissenso trova posto, anomalo perchè la critica può essere esercitata pubblicamente. Un'anomalia positiva, dunque, che tiene assieme la comunità scientifica tutta e che fa dell'università uno spazio democratico da proteggere.
Era inevitabile, infine, che all'interno di questa campagna politica di linciaggio, si collocasse una sentenza del Gip (giudice per le indagini preliminari) che ha imposto gli arresti domiciliari non solo a due attivisti di Forza nuova, gli aggressori, ma anche ad Emiliano, studente della Sapienza aggredito. Chiedere la libertà di Emiliano significa riconoscere la differenza tra aggressori e aggrediti, significa dire la verità sui fatti accaduti alla Sapienza.

Primi firmatari:
Nanni Balestrini (poeta e scrittore), Erri De Luca (scrittore), Valerio Mastrandrea (attore), Serge Quadruppani (scrittore e traduttore), Sandro Mezzadra (docente universitario, Bologna), Adalgisio Amendola (docente universitario, Salerno), Sergio Bianchi e Ilaria Bussoni (casa editrice Derive Approdi, Roma), Gianfranco Morosato (casa editrice Ombre corte, Verona), Ugo Cornia (scrittore), Valerio Evangelisti (scrittore), Benedetto Vecchi (giornalista de il manifesto), Matteo Pasquinelli (ricercatore universitario, Londra), Carlo Formenti (docente universitario e giornalista), Franco Berardi Bifo (saggista), Agostino Petrillo (docente universitario, Milano), Tiziana Terranova (ricercatrice universitaria, Napoli), Adelino Zanini (docente universitario, Ancona), Augusto Illuminati (docente universitario, Urbino), Angelo Mastrandrea (giornalista de il manifesto), Girolamo De Michele (scrittore), Roberto Gramiccia (medico e scrittore), Gabriele Porro (giornalista, la Repubblica), Alessandro Pandolfi (docente universitario, Urbino), Wu Ming (scrittori), Andrea Fumagalli (docente universitario, Pavia), Christine Ferret (responsabile Centre des Ressources - Ambasciata di Francia, Roma), Veronica Raimo (scrittrice), Luisa Capelli (casa editrice Meltemi), Marco Bascetta (casa editrice manifestolibri), Raffaella Battaglini (autrice teatrale), Elena Vanni (attrice), Marco Philopat (scrittore), Massimo Gaudioso (sceneggiatore), Elio Germano (attore), Ottavio Marzocca (docente universitario, Bari), Pino Marino (cantautore e musicista), Anna Pizzo (giornalista, Carta), Pierluigi Sullo (giornalista, Carta), Luca Casarini (attivista e scrittore), Lanfranco Caminiti (giornalista), Tano D'Amico (fotografo)

Per firme e adesioni: roma@uniriot.org

Immagine di arimoore [tell truth], con licenza Creative Commons da flickr

Le ronde della paura

di Marco Bascetta
da il manifesto del 10 giugno 2008

Nel generale decadimento delle forme tradizionali di aggregazione politica e sociale, solo una, non certo nuova né presentabile, sembra godere di straordinaria fortuna e popolarità. Si tratta delle famigerate «ronde» che dilagano nei comuni e nei quartieri d'Italia. E' un fenomeno inquietante, ma che non conviene liquidare con una sbrigativa e facilmente condivisibile smorfia di disgusto. Per i più convinti cultori dello stato e delle sue prerogative non dovrebbe sussistere problema alcuno: la sicurezza spetta alle forze dell'ordine e ai suoi funzionari, ogni pretesa di «partecipazione» dei cittadini al controllo del territorio che non si traduca in semplice richiesta di «più polizia» e amore patriottico per gli uomini in divisa rischierebbe di costituire un intralcio se non una prevaricazione. Sebbene anche il punto di vista «statalista» si sia mostrato disposto a molteplici compromessi con lo «spontaneismo poliziesco» oggi in gran voga e con la privatizzazione di diversi comparti repressivi. Ma per chi non considera lo stato come espressione massima e perfetta del vivere collettivo e non si sente rappresentato e tutelato dal potere repressivo della sovranità statale, un problema sussiste e non è dei più semplici. Non è difficile, infatti, ravvisare nelle ronde e nei comitati cittadini, scesi in guerra contro gli immigrati e le più diverse forme di «devianza» o semplice diversità, qualcosa di assai contiguo alle aspirazioni di «autogoverno» o «autodifesa» che sono state anche patrimonio delle lotte popolari e di una tradizione di autonomia politica e organizzativa dai poteri istituzionali e dalle rappresentanze politiche.

Qualcuno ricorda le «ronde proletarie»? L'idea del «territorio liberato» e governato dal basso ha da sempre occupato l'immaginario della sinistra rivoluzionaria. Fatto sta che questa idea di autogoverno sembra realizzarsi oggi in forme mostruose, dominate dal risentimento e dalla ferocia della guerra tra poveri. E' la forma perversa di un protagonismo sociale incapace di fissare lo sguardo sulle radici reali del disagio e dello sfruttamento. La Lega è stata, fin dai suoi esordi, la più pronta a cogliere il fenomeno e le sue ambivalenze, a virare le istanze di autogoverno verso un'ottusità ideologica da comunità puritana, verso un corporativismo di carattere territoriale capitanato dai «signori della guerra» contro l'immigrazione e la «devianza», a dare vita a una microstatualità etnicizzata e punitiva. Facendo coincidere l'idea di libertà con la «proprietà privata» di un territorio nel quale convivono, in forme imparentate con l'apartheid, i proprietari padani e, sotto stretto controllo, i loro indispensabili servi stranieri. Le ronde leghiste mettono in scena una militanza localpatriottica garante di questo ordine, hanno il compito, più simbolico che pratico, di rappresentare la «partecipazione del popolo» non solo elettorale, ma nella costruzione di un ordine quotidiano all'insegna del più soffocante conformismo.

A partire dal corporativismo territoriale e culturale padane le ronde dilagano in tutto il paese. Altri partiti della destra (An a Bologna) cavalcano la moda e trovano nelle ronde un modo di aggregare e gratificare i loro giovanotti, mandandoli a caccia di comportamenti disdicevoli, secondo il modello delle guardie iraniane della rivoluzione, quelli che «reprimono il vizio e promuovono la virtù». E, sempre nella disgraziata Bologna, l'ineffabile giunta Cofferati, senza tradire l'amore per lo stato, allestisce la sua ronda sul modello della Stasi (il capillare sistema di delazione della Ddr) addestrando studenti volontari a vigilare sul quartiere studentesco, dissuadendo ed eventualmente denunciando, i trasgressori delle numerose ordinanze repressive emesse dal comune. Ognuno ha le sue tradizioni e i suoi modelli storici.

Ma, aldilà di queste grottesche interpretazioni politiche della "«partecipazione popolare» resta il fatto che nelle città il modello della ronda, i comitati dei residenti contro gli «invasori», notturni e diurni, contro mendicità o prostituzione si moltiplicano di giorno in giorno, prendendo il posto dei vecchi comitati di quartiere che si battevano contro il caro-fitti, il caro-bollette, la carenza dei servizi, l'abbandono dei rioni popolari. L'autogoverno della paura sostituisce l'autogoverno della vita, impoverendola. Tuttavia, fino a quando non si riconoscerà in questo festival dell'intolleranza e della discriminazione qualcosa di familiare, le sembianze deformi della volontà di influire, senza mediazioni, sulle proprie condizioni di vita, il gioco sarà inevitabilmente condotto da quella politica bipartisan che asseconda il risentimento e l'egoismo, traducendoli in una delega all'esercizio della più spietata repressione. Chi meglio della destra è in grado di raccogliere e organizzare un sentire corporativo che non riguarda più, come un tempo, le professioni, ma circostanze biografiche, come l'essere genitori, o abitanti di un quartiere? Il vecchio schema, da cui la sinistra non vuol prendere commiato, recitava così: il singolo rappresentato dal lavoro, il lavoro rappresentato nello stato. Il nuovo schema, assunto in pieno dai partiti politici rappresentati in parlamento nonché da quello che fu il «partito dei sindaci», sembrerebbe invece suonare così : il singolo rappresentato dal sondaggio, il sondaggio rappresentato nello stato. E il sondaggio non raccoglie coscienza, né, come si diceva un tempo, qualcosa di «determinato dall'essere sociale», ma la reazione emotiva a una contingenza, una condizione di sradicamento in balia delle più diverse e inquietanti rappresentazioni, nonché delle più spregiudicate rappresentanze.

Una caricatura della democrazia che ne enfatizza i peggiori difetti. E, al tempo stesso, l'illusione di aver detto la propria: «pane al pane e vino al vino». Questi fenomeni sono ben piantati nei modi contemporanei di vivere e di produrre e lì, solo su quel terreno, possono essere contrastati e combattuti, rinunciando all'idea bislacca di restaurare forme più docili e rappresentabili di omogeneità sociale. Il problema è, semmai, riprendere le fila del discorso sull'autogoverno, sulla politica dal basso, sottraendolo all'agghiacciante deriva delle ronde, delle fiaccolate e infine dei piccoli pogrom in cui l'invadente astrazione delle ideologie stataliste e la demagogia corporativa lo hanno precipitato, alimentando il risentimento e la paura.

Foto di letneo [
quel che fa paura #1], con licenza Creative Commons da flickr

domenica, giugno 08, 2008

Dossier operaismo

Dopo la pubblicazione, qui segnalata, del libro sulla parabola teorica e storica dell'operaismo dal titolo L'operaismo degli anni Sessanta le edizioni deriveapprodi inaugurano una raccolta di interventi attorno a questa pubblicazione nella sezione Dossier del loro sito. Di seguito il primo intervento della redazione (giusto un assaggio), mentre sul sito si trova la recensione di Benedetto Vecchi pubblicata su Alias e già alcuni altri interventi. Questa segnalazione, con l'invito a seguire l'evoluzione di questo dossier sull'operaismo, mi permette di segnalare anche le novità del sito della deriveapprodi: editoriali a firme sparse che commentano qualche fatto del quotidiano, i dossier su temi che scaturiscono dalla pubblicazione di talune opere... insomma, un sito che vale la pena di tenere "sotto controllo", a maggior ragione in questa epoca di grigiore. Qui a lato, potete trovare il feed degli editoriali. (frnc)


Un chilo e cinquecentocinquanta grammi. Tanto pesa L'operaismo degli anni Sessanta. Appena arrivato dalla tipografia, bisognava fare delle spedizioni e abbiamo messo sulla bilancia 'ste novecento pagine e letto l'astina. A tirarlo dietro, un'arma impropria. A farlo entrare nella zucca, un'arma impropria.
Quella straordinaria stagione politica che va dalla fine degli anni Cinquanta alla fine dei Sessanta, dalla sconfitta Fiom alla Fiat fino all'esplodere delle lotte operaie, ha qui il suo pensiero e la sua lettura.
Pensiero e lettura che ruotano intorno la nascita e la fine di due riviste in successione, «Quaderni rossi» e «classe operaia». Cioè, intorno l'«avventura» di una strepitosa, arrogantissima, coltissima, intelligentissima, generosa «cerchia» di giovani, in qualche caso giovanissimi, intellettuali di formazione e militanza socialista e comunista che si raccoglie intorno Raniero Panzieri e poi se ne distacca per seguire un proprio - lo stesso di prima - percorso fino a dichiararne la fine.

La straordinaria quantità di documenti, lettere, appunti, note, volantini, stralci di opuscoli, interviste - un lavoro di ricerca, di raccolta e di raccordo assolutamente fuori dall'ordinario, e che probabilmente più che essere esaustivo finirà col dare origine ad altre storie -, forse non aiuta a sciogliere e comprendere del tutto il groviglio dei passaggi, degli snodi di fronte ai quali ciascuno di quei protagonisti si trovò a prendere posizione e a determinare la posizione degli altri. Ogni ricordo, ogni giudizio finisce col segmentare e rimescolare ulteriormente le appartenenze, i percorsi, che diventano e si intrecciano di volta in volta diversi per teoria, analisi, politica, organizzazione, territorio [i torinesi, i veneti, i romani, i genovesi, i milanesi] fino a iscriversi nelle ragioni delle affinità, del carattere.

Ma questo non diminuisce di una virgola il valore intellettuale del libro, semmai lo potenzia.
Perché una cosa è certa: quella linea di rottura teorica - con la tradizione e con la modernità - che poneva al centro il lavoro operaio aveva una potenza di attrazione intellettuale senza pari e restituiva una pienezza di vitalità, di elaborazione storica o letteraria o economica o filosofica, che era anche fisica. Senza questo, l'intervento davanti le fabbriche, i questionari con gli operai, i seminari e i circoli, i giornali e i volantoni, i viaggi in automobile e in treni di ultima classe, le riunioni e le discussioni estenuanti e i convegni sino all'alba, senza questo pellegrinaggio dalla Fiat di Torino al Petrolchimico di Porto Marghera, dall'Alfa Romeo di Milano alle industrie di Piombino, di Genova, alla Fatme di Roma, senza questo non ci sarebbe stato l'operaismo.
Così, l'intenzione della casa editrice non è solo quella di fornire un libro utile, per studiosi, biblioteche, istituti di ricerca, il dibattito intellettuale; ma un libro necessario. Necessario adesso. Gli operai - si dice - non ci sono più: compaiono quando muoiono, ricordano la loro presenza quando si registra la loro definitiva assenza. È la loro morte a gettare luce sulla loro vita. La morte d'altra parte non fa che sancire la fine politica, una vita senza politica, senza fine politico.

Il secolo operaio è alle nostre spalle. Senza operai che senso ha l'operaismo? Siamo post-operai, siamo post-operaisti.
Il lascito di quell'esperienza è però tutto nella sua inattualità. Essa nasce e cresce nella attesa pratica - di qualcosa che c'è già ma non è ancora - e si divide e muore nell'apparizione teorica - di qualcosa che è ma non è più.
Noi pure siamo in attesa.

(Nella foto Panzieri, Tronti, De Caro, Negri)

L'Europa dell'apartheid - Intervista a Étienne Balibar

di Teresa Pullano
da il manifesto - 6 giugno 2008

È pessimista sull'avanzata delle destre, anche estreme, in Europa. E sul fatto che i cittadini dell'Unione desiderino realmente la democrazia. Ma si affida a Gramsci per dire che in questo momento bisogna avere l'ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione. Confessa che oggi non direbbe no ad un referendum sulla Costituzione europea. E pensa che nei confronti degli immigrati, il «ventottesimo stato dell'Ue», esista una vera e propria «apartheid europea», in cui il razzismo rispecchia i conflitti interni tra gli stessi cittadini comunitari. Conflitti dei quali i migranti rappresentano solo il capro espiatorio. Incontriamo Étienne Balibar, filosofo della politica e intellettuale critico della costruzione europea, di passaggio a Roma per alcune conferenze proprio mentre divampa in Italia un clima xenofobo e razzista.

In Italia ha vinto la Lega sulla base della difesa del territorio, perfino i movimenti pensano di ripartire dallo stesso principio, sia pur declinato in maniera opposta. Forse che in Europa il principio del territorio si sta sostituendo a quello di nazione?
Quello del territorio è un concetto plastico che non ha un referente univoco.Leggevo qualche giorno fa un editoriale del manifesto sulle violenze al Pigneto: si faceva una critica, giustificata ma che non offre una soluzione immediata, del modo in cui tende a svilupparsi un mito del microterritorio che fa sì che gli abitanti di un quartiere o di una regione si percepiscano come difensori di uno spazio minacciato da cui espellere tutti gli stranieri. È la prova che la nozione di territorio può funzionare a vari livelli. Nelle periferie francesi le guerre tra bande di giovani proletari immigrati, disoccupati e non scolarizzati sono anch'esse dei fenomeni di difesa del territorio nel senso fantasmatico del termine. È a questo livello che bisogna proporsi non solo una critica della nozione di territorio, ma una vera politica d'apertura o di deterritorializzazione dell'appartenenza comunitaria. La sacralizzazione dei piccoli territori può essere molto violenta ma è limitata. Ciò che preoccupa è la generalizzazione di questi fenomeni su una scala più ampia. Si è verificato con il fascismo, che era una trasformazione immaginaria del territorio nazionale in proprietà di un popolo o di una razza. Ci sarebbero delle conseguenze disastrose se questo fenomeno si sviluppasse nell'insieme dell'Europa, in particolar modo su base culturale, come sembra suggerire Benedetto XVI, quando sostiene che essa è un territorio cristiano e di conseguenza i musulmani sono dei corpi estranei.
Possiamo dunque concludere che il principio di territorialità può essere la base di una cittadinanza europea?
La costruzione europea ha una base territoriale per definizione, ma a seconda se la concepiamo come fissa o evolutiva, come chiusa o aperta, si apre una direzione storica diversa. Oggi il territorio non è la base della cittadinanza europea, ma dovrebbe diventarlo. Quella che definisco come una vera e propria «apartheid europea» è data dal fatto che è cittadino europeo solo chi ha la nazionalità di uno degli Stati membri. Gli immigrati stabilitisi da una o più generazioni sul suolo europeo sono la ventottesima nazione fantasma dell'Ue e costituiscono circa un ottavo della sua popolazione. Non sono semplicemente persone che in Francia non sono francesi, in Germania non sono tedeschi o in Italia non sono italiani. È a livello dell'intera Europa che gli immigrati sono degli esclusi, a maggior ragione con la libera circolazione all'interno delle frontiere europee. L'allargamento dell'Unione europea produce forme qualitativamente nuove d'esclusione. Il diritto alla cittadinanza europea non è territoriale: è genealogico. Nella maggior parte degli stati membri la nazionalità si acquisisce con lo jus soli, ma a livello dell'insieme dell'Europa la cittadinanza è genealogica nel senso dell'appartenenza originaria alla nazione. Questo evoca dei ricordi e pone problemi inevitabili. Ci sono delle analogie tra lo sviluppo di quest'esclusione e il fatto che nella storia ci sono state e ci sono sempre, almeno a livello simbolico, delle popolazioni transnazionali trattate come nemici interni o corpi estranei alla civiltà europea. È stato il caso degli ebrei; oggi non lo è più. Rimane il caso dei rom. Il fenomeno di cui parlo è tuttavia molto più vasto.

Oggi in Europa non si sentono istanze di partecipazione dal basso a livello comunitario, mentre nei singoli stati le istanze di partecipazione si esprimono in un linguaggio nazionalistico e identitario. Che rapporto vede fra queste due tendenze?
La domanda di partecipazione a livello locale e la domanda di controllo popolare a livello nazionale e sovranazionale non si escludono. Forse c'è bisogno di un'accelerazione delle cose perché i cittadini ne prendano coscienza. La responsabilità di questa situazione è da attribuire alle istanze intermedie, come i partiti politici, che oggi sono drammaticamente assenti e ci si dovrebbe chiedere il perché. Secondo Gramsci, le istanze intermedie sono la trama statale del funzionamento della società civile e, reciprocamente, i conflitti della società civile si traspongono nella struttura dello stato. Le costituzioni nate dalla resistenza in Francia e in Italia infatti affidano ai partiti il ruolo di costituire l'opinione pubblica. Dove sono oggi i partiti politici in Europa?

La legittimità degli Stati nazionali e quella dell'Unione europea secondo lei vanno di pari passo?
Il momento attuale è caratterizzato, in modo preoccupante, da una perdita di legittimità democratica degli Stati nazione e da una diminuzione della legittimità del progetto politico europeo. Non si tratta di assumere una posizione di difesa della sovranità nazionale, al contrario. Io adotto la definizione di legittimità di Max Weber, che mi pare vicina al concetto foucaultiano di potere: una nozione pragmatica e realista che si articola in termini di probabilità, d'obbedienza al potere pubblico e dunque d'efficacia di questo stesso potere. Da questo punto di vista, non possiamo ritornare indietro rispetto a quel poco di struttura politica che esiste su scala europea, ma siamo obbligati a progredire. Ne consegue che la legittimità delle istituzioni europee è diventata una condizione di legittimità delle istituzioni nazionali stesse. Non tarderemo a vedere concretamente gli effetti di questa relazione, che si manifesteranno con forza man mano che le difficoltà economiche e sociali legate agli choc petroliferi si ripercuoteranno in Europa. Solo delle politiche europee comuni hanno una minima possibilità di essere efficaci di fronte a questo tipo di situazione, ma devono essere approvate dai cittadini degli Stati nazionali, che rimangono la fonte ultima di legittimità.
Intanto in Europa assistiamo a una crescita delle destre, anche quelle più estreme. Perché, secondo lei?
In questo momento sono pessimista e mi riconosco nella massima di Gramsci dell'ottimismo della volontà e pessimismo della ragione. Per principio le situazioni difficili sono quelle in cui bisogna immaginare delle soluzioni e delle forme d'azione collettiva e non lasciarsi andare a seguire la tendenza naturale delle cose. I sistemi politici relativamente democratici nei quali viviamo o abbiamo vissuto sono in questo momento gravemente minacciati ed indeboliti. Ai miei occhi, i problemi del nazionalismo e dell'avanzamento della destra non coincidono. Tra le due correnti ideologiche ci sono delle interferenze molto forti, ma esse non si riducono l'una all'altra. Il nazionalismo nei vari Paesi europei non è monopolio della destra. Faccio parte - lo devo confessare, ma i lettori del manifesto lo sanno - delle persone che tre anni fa in Francia hanno votato «no» al referendum sulla costituzione europea. Ho creduto di farlo per ragioni che non erano né di destra né nazionaliste. Sono oggi costretto a constatare che questa scommessa è stata persa e che l'aspetto transnazionale e il richiamo a un federalismo europeo sono stati completamente neutralizzati da una dominante nazionalista a sinistra, o meglio nella vecchia sinistra. Ciò che è inquietante è la convergenza del nazionalismo di destra e del nazionalismo di sinistra. I suoi effetti si fanno sentire a livello dei governi nella forma di un sabotaggio permanente delle politiche europee comuni. Ma la convergenza tra le due forme di nazionalismo a livello dell'opinione pubblica e dell'ethos delle classi popolari in Europa è ancora più preoccupante. Meno gli stati nazionali sono capaci di rispondere alle sfide economiche, sociali e culturali del mondo contemporaneo, più i discorsi populisti e nazionalisti fanno presa su una parte delle classi popolari in Europa. Bisogna interrogarsi sulle cause strutturali di questa situazione, non ci si può accontentare del discorso elitista dell'ignoranza del popolo. Di certo è una situazione molto pericolosa per il futuro della democrazia in Europa, senza parlare delle conseguenze sullo sviluppo del razzismo.

Lei parla di un nazionalismo di sinistra. Si può dire che la sinistra oggi pensi da un lato lo spazio mondiale e dall'altro quello nazionale, e sia perciò incapace di vedere quello europeo come uno spazio eterogeneo rispetto agli altri due? È forse un lascito dell'internazionalismo di Marx?
Calandoci nell'epoca in cui Marx ha scritto, potremmo dire esattamente il contrario. Il pensiero di Marx era legato a un momento rivoluzionario che investiva l'Europa intera. Rileggendo gli articoli di Marx del 1848, vediamo che il nazionalismo democratico si allea con il socialismo e le prime forme di lotta di classe. In quel momento Marx e Engels hanno probabilmente pensato che una repubblica democratica europea o un'alleanza di repubbliche democratiche europee era al contempo la forma nella quale si preparava o poteva realizzarsi il superamento del capitalismo. Oggi la situazione è diversa e il senso di parole come nazionalismo si è ribaltato. È vero che certe forme di anticapitalismo teorico, che pescano in parte nell'eredità di Marx e che io non disprezzo ma trovo un po' arcaiche ed unilaterali, trascurano il problema della politica europea. La prospettiva altermondialista ha tuttavia il vantaggio di affermare che pensare l'Europa come uno spazio chiuso è illusorio. Al contempo, le costituzioni democratiche sono radicate nella risoluzione dei conflitti storici passati. Costruire uno spazio politico europeo è importante perché dobbiamo ricomporre il nostro passato a livello continentale: una cultura politica comune deve emergere dalle differenze culturali e storiche dell'Europa. Vi è un legame profondo tra la mancata rielaborazione del nostro passato e l'immigrazione. Gli immigrati sono i capri espiatori dell'ostilità fra gli europei. E' la loro stessa incapacità di pensarsi come un'unità che impedisce agli europei di trattare il problema dell'immigrazione in termini progressisti. I francesi non vi diranno mai che detestano i tedeschi o gli inglesi che non possono sopportare l'idea di formare un popolo comune con gli spagnoli, però questa diffidenza non è stata superata, anzi si è rafforzata con l'allargamento dell'Europa ad Est.

La Costituzione europea è stata affossata, ma in parte viene recuperata con il Trattato di Lisbona. Come giudica la strategia dei leader politici europei di procedere comunque, nonostante il rifiuto dei cittadini dell'Unione?
Non m'interessa, dubito che gli stessi leader europei ci credano loro stessi. Possiamo invece tornare sulla questione del rifiuto del Trattato europeo. I casi francese ed olandese, come ha scritto Helmut Schmidt su Die Zeit, non erano isolati. Il malessere era generale. Questo malessere resta da interpretare e analizzare ed è sempre d'attualità. All'epoca ho difeso la posizione un po' troppo idealista, che oggi non sosterrei più allo stesso modo, secondo la quale la Costituzione europea non era abbastanza democratica. Pensavo che essa non presentasse una prospettiva sufficientemente chiara di progresso generale della democrazia per l'insieme del continente. Tendevo dunque a considerare che la sola possibilità, molto fragile, per l'Europa di diventare uno spazio politico nuovo e superiore al vecchio sistema degli stati-nazione e delle alleanze nazionali, era di apparire come un momento di creazione democratica. Continuo a pensarlo, ma c'è qualcosa d'idealista in questo modo di vedere le cose che la realtà attuale ci obbliga a guardare in faccia. L'idealismo consiste nell'immaginare che le masse vogliano la democrazia, mentre purtroppo siamo in un periodo molto difficile e conflittuale. Ci sforziamo di aprire nuovamente delle prospettive democratiche a livello transnazionale, però allo stesso tempo dobbiamo provare a trovare i mezzi di resistere passo per passo all'avanzata del populismo e del nazionalismo nei paesi europei.

Foto di simplifica [europa por dentro], con licenza Creative Commons da flickr

giovedì, giugno 05, 2008

L'operaismo degli anni Sessanta. Dai «quaderni rossi» a classe operaia

a cura di Giuseppe Trotta e Fabio Milana
da deriveapprodi

La ricostruzione della storia dell’operaismo negli anni Sessanta: la vicenda intellettuale e politica che ha preso forma all’interno della rivista «Quaderni rossi» per poi sfociare in «classe operaia».
Un saggio introduttivo di Mario Tronti presenta un meditato consuntivo di quell’esperienza, inserendola nel contesto storico del «secolo operaio».
Un’antologia di centinaia di documenti, per lo più inediti, distribuiti tra la primavera del 1959 e quella del 1968, accuratamente annotati e collegati uno all’altro.
Tredici testimonianze di protagonisti: Aris Accornero, Romano Alquati, Alberto Asor Rosa, Lapo Berti, Sergio Bologna, Massimo Cacciari, Rita Di Leo, Mauro Gobbini, Claudio Greppi, Toni Negri, Massimo Paci, Vittorio Rieser, Mario Tronti.
Un repertorio di immagini, una cronologia e un’ampia bibliografia.
In allegato su CD la collezione completa della rivista «classe operaia».

Dal saggio introduttivo di Mario Tronti

Lo «stile» operaista
L’operaismo italiano degli anni Sessanta comincia con la nascita di «Quaderni rossi» e finisce con la morte di «classe operaia». Punto. Questa è la tesi. Poi – si le grain ne meurt – si riproduce in altri modi, si reincarna, si trasforma, si corrompe e... si perde.
Distinguere tra operaismo e post-operaismo è l’operazione di distinzione intellettuale che si propone qui. Questo libro prende motivata origine da questa esigenza. Poi, la cara dolce umana dolcezza del ricordare, ha fatto il resto. Che questo resto sia ben riuscito, sia di buon gusto, sia opportuno adesso, sia utile oggi, sia produttivo di qualcos’altro, a chi legge spetta la risposta. La raccomandazione è quella, trasfigurata, di Brecht: voi, amabili pluralisti, innamorati dell’«altro», pensate con indulgenza agli odiosi tempi dicotomici a cui siete scampati.

Questa è la «mia» verità. Non pretendo che sia la verità della «cosa stessa». Altri ne avranno, riferita a sé, un’altra, diversa. Questo testo va letto contestualmente alle «Testimonianze» dei protagonisti, che integrano, correggono, criticano pezzi non secondari della mia lettura. L’operaismo, come esperienza collettiva di uomini e donne in carne e ossa, risulterà alla fine, esistenzialmente, più complicata di quanto appaia nel racconto concettuale che qui segue. Vorrei avvertire che questa lettura non avviene col senno di poi. È quello che io pensavo allora, e che oggi vedo solo più chiaro. Le testimonianze, e i ricordi, danno l’idea poi di come ognuno metteva se stesso dentro un’esperienza comune e di come ognuno rivede ora se stesso e gli altri nel giudizio e nella memoria, anzi potremmo dire, in una memoria giudiziosa. Siamo andati tutti molto lontano da lì, ma in tutti è rimasto un segno intellettuale, un tratto umano, la parola giusta è, «uno stile», consegnatici da una scuola di eccellenza, la fabbrica moderna, con in cattedra la figura operaia. Perché riparlarne oggi? A che serve? A chi interessa? La passione cinica, o il cinismo appassionato, del nostro modo di pensare, ci dice che non serve a niente e non interessa a nessuno: tranne forse a qualche non rassegnato reduce, ferito, della guerra di classe e a qualche giovane mente che eroicamente sopravvive, senza quasi più acqua da bere, nel deserto della pace sociale. E tuttavia: le cose che sono state dette, e che si dicono, sul tema, non sono sufficienti, a volte sono indisponenti, a capire. E capire qui, permette di sapere molte cose, su quel passaggio di storia e sul suo seguito. Anni Sessanta. Il limite Italia per guardare il mondo. Ma anche la sua opportunità. E dunque: il Novecento, nostro «pensiero vissuto». Un nodo di problemi, non sciolto e da sciogliere.

Ripeto: non si vuol dare un’interpretazione canonica della vicenda. Questa è solo una delle letture possibili. Parziale quanto basta per tenere fede a quella buona vecchia idea di partigianeria della ricerca, a quella indigesta e produttiva pratica teorica del «punto di vista» – ci vuole parzialità per cogliere la totalità – che ci ha formato, e poi ci ha accompagnato, e ancora adesso ci conforta a pensare nell’orizzonte di quel weberiano «malgrado tutto, continuiamo!». E dico noi, perché credo di potere parlare in nome di un’esperienza di pensiero – è la definizione corretta, esperienza di pensiero – di un cenacolo di persone, alcune almeno qui raccolte, cementate tra loro indissolubilmente da un vincolo peculiare di amicizia politica.
Sul mistero di fedeltà implicato dall’esercizio pratico-teorico dell’amicizia politica bisognerebbe tornare con un discorso a parte. Qui i vari classici De amicitia non aiutano. Riguardano il solo foro interno. E invece qui l’interesse della cosa sta nel rapporto, stretto, tra vita interiore e agire pubblico. Potremmo ancor oggi tranquillamente ripeterci l’un l’altro le parole che Tocqueville scriveva all’amico Louis de Kergorlay, in una lettera del 9 settembre 1853, dopo trent’anni di scambi epistolari: «Sei sempre stato e rimani l’uomo che più ha avuto l’arte di comprendere il mio pensiero allo stato nascente. [...] Il contatto del tuo spirito feconda il mio. Le nostre intelligenze si intrecciano, non so come; e quando perseguiamo un’idea comune arrivano a marciare meravigliosamente con lo stesso passo» (vedi, non a caso, in U. Coldagelli, Vita di Tocqueville (1805-1859), La democrazia tra storia e politica, Donzelli, Roma 2005, p. 11).

Non è tutto. Nel nostro caso, la religione antica dell’amicizia lascia il posto alla politica moderna dell’amicizia/inimicizia. L’amico/nemico non è, come banalmente si pensa, una teoria del nemico. È, appunto, una teoria, e una pratica, dell’amico e del nemico. Siamo diventati, e siamo rimasti, anche sentimentalmente, amici per il fatto che abbiamo trovato e ritrovato, politicamente, di fronte a noi un comune nemico. Questa idea è da specificare. Perché proprio su quell’originario approccio operaista si è fondata, e poi costruita, e quindi conservata e arricchita, un’amicizia di questo tipo? Per la forza di riferimento del concetto politico di classe operaia? Per il rigore etico dell’impegno che quel riferimento produceva? Per la totalità di ben distribuite esperienze di lavoro culturale, che miracolosamente si trovarono lì raccolte? Probabilmente per ognuna di queste cose. Ma la mia risposta complessiva è un’altra: tanto difficile da far capire, quanto facile è stato, tutto sommato, viverla. Il cemento di quell’amicizia politica è una ben specifica e determinata e consaputa inimicizia sociale. L’aver individuato, subito, più che un riferimento, un contrasto. Non uno «stare con», ma un «essere contro». Non una «scelta per», ma una «lotta a». Questo ha avuto delle conseguenze spontaneamente obbliganti, per «noi», sulle decisioni intellettuali di quel periodo e sugli orizzonti che ne sono seguiti. Di ciò bisogna forse soprattutto parlare. E questo forse serve, forse questo interessa.
Cercherò, ma non so se mi riesce, facendo forza di contrasto su me stesso, di dirlo in forma piana, diretta, senza la mediazione della parola letteraria, resistendo alla tentazione della metafora lancinante, senza quel gusto dell’accenno, che chiede, non di essere compreso, ma di essere intuito. Eppure, c’è da dire una cosa. È sul terreno della scoperta intellettuale della classe operaia che è nata una forma di scrittura. Anche qui, c’è da chiedersi il perché. Resta, è vero, l’evento misterioso di un modo di dire, e di dirsi, che a un certo punto c’è, e non sai da dove viene, come è nato, quando e, di nuovo, perché così invece che altrimenti.

Ho sempre pensato, un po’ fatalisticamente, che un passaggio di storia si sceglie la sua propria rappresentazione simbolica. Il partigiano semianalfabeta, davanti al plotone di esecuzione nazista, scriveva nelle Lettere dei condannati a morte della Resistenza, un’opera di alta letteratura. E i ragazzi che al mattino presto andavano davanti ai cancelli di Mirafiori, la sera a casa leggevano L’anima e le forme del giovane Lukàcs. La grande storia parla una lingua, la piccola cronaca un’altra. Nel nostro tempo stupido, quest’ultima dimensione, quella cronachistica, celebra i suoi fasti solenni, nella universale sciatteria volgare del linguaggio politico. Allora, anni Sessanta, i suoi inizi con il suo lascito, ci parve di scorgere un ritorno di eventi e di soggetti di alto livello. Probabilmente ci sbagliavamo. Ho parlato altrove di «illusione ottica». Ma quella sensazione di altezza del conflitto fu quanto bastò per innescare in noi quella passione per il nietzscheano «grande stile», che ci ha accompagnato poi, nel bene e nel male, in un lavoro di ricerca, tanto aperto quanto inquieto. La scelta è stata da allora quella di parlare in modo alto a nome di quelli che stanno in basso. Perché questi, e solo questi, meritano il «grande stile». Non è vero, non si dava al conflitto operaio un valore salvifico, come qualcuno, sbagliando, ha voluto vedere: per cui la forma ispirata sembrava la più adatta. Si vedeva nell’iniziativa di «lotta + organizzazione» degli operai il modo, il percorso, lo strumento più efficaci per battere l’avversario capitalistico, per costringerlo a uno sviluppo oltre se stesso. Il pensiero forte domanda una scrittura forte. Di qui traeva origine quello stile di espressione conflittuale: scandito, scolpito, battente, incessante, aggressivo e lucido. Così ci sembrava di cogliere il ritmo di battaglia degli «operai in lotta», in fabbrica, contro il padrone diretto. Non abbiamo più saputo scrivere altrimenti.

C’è di più. C’è una cosa più importante. L’esperienza operaista ha segnato un modo di pensare politico. Solo chi l’ha attraversata ha potuto poi assumere questa forma politica del pensare. Racconterò tra poco il travaglio intellettuale e i Lehrjahre, gli anni di formazione, e di apprendistato, di un pezzo, limitato ma significativo, di generazione. Qui voglio dire come imparammo, una volta per tutte, a quella scuola, la scuola della classe operaia, a essere, fuori della norma, uomini di cultura di tipo nuovo. Il perenne stato d’eccezione intellettuale, in cui poi, per scelta, ci è piaciuto vivere, parte di lì. Voglio fare l’elogio di quella figura, oggi maledetta, dell’intellettuale organico, di partito. Solo chi non è stato capace di esserlo, o chi lo ha vissuto in modo subalterno, per animo opportunista, o per povertà mentale, può adesso mostrare un pentito disprezzo. Una figura nobile, a suo modo tragica, nell’esercizio di una libertà dentro una comunità, tra pesanti vincoli autoimposti e riconosciuti bisogni portati dall’esterno. Sapere che il tuo lavoro intellettuale, lo specialismo della tua ricerca, la verità che cerchi nell’analisi e nella riflessione, non serve a te, ma deve servire a quello strumento collettivo che rappresenta una parte della società: è disprezzabile questo? È più nobile scrivere un libro pensando alla probabile composizione di una prossima commissione di concorso? Eppure fummo noi, da tutt’altro punto di vista, i primi critici innovativi di quella organicità dell’intellettuale al partito. Perché il vero tipo nuovo, per noi – scoperta lancinante del periodo – era in realtà l’intellettuale organico di classe, in rapporto critico, quando necessario, con il partito.