sabato, luglio 19, 2008

Occhio alle mani. Ma quelle sugli archivi

di M. Bascetta
da il manifesto - 17 luglio 2008

L'emendamento vien di notte, favorito dal sonno bipartisan della ragione. Dal 2010 i cittadini italiani dovranno imprimere le proprie impronte digitali sulla carta d'identità. Cesserà finalmente la discriminazione tra pregiudicati e non, tra i rom e gli altri: è il trionfo dell'eguaglianza nel segno dello stato di polizia. Di fronte a un siffatto successo del pensiero egualitario l'opposizione chiede al ministro Maroni di sospendere il censimento poliziesco delle comunità rom: il controllo totale arriverà comunque, senza perdere la faccia in Europa, senza urtare sensibilità ecclesiastiche, senza sospetto di discriminazioni razziali.

Ma il ministro leghista non demorde: si, sono tutti potenziali criminali, ma chi più, chi meno, e dunque con gli zingari si comincia da subito. All'arma dell'emergenza e della propaganda è sempre difficile rinunciare. Fatto sta che sulla schedatura generale della popolazione italiana ben pochi hanno qualcosa da eccepire. Né i liberali che un tempo leggevano e apprezzavano l'Orwell "antitotalitario", né i democratici che pensavano, sempre in quel tempo remoto, che la convivenza civile dovesse fondarsi più sulla fiducia che sul perfezionamento del panopticon poliziesco e il proliferare della delazione.

Tra i molti paradossi dell'ossessione securitaria c'è la convinzione, infinite volte smentita dalla storia nei piccoli come nei grandi fatti, che l'apparato del controllo non possa mai cadere in cattive mani, che il potere sia sempre e per definizione buono e al servizio dei cittadini. Un paradosso tanto più inquietante nel momento in cui, in risposta alla classica domanda «chi custodisce i custodi?», giunge la sentenza del processo di Genova che mette in salvo gli aguzzini di Bolzaneto. Ma, si sa, le forze dell'ordine sono formate da cittadini al di sopra di ogni sospetto e anche di qualche acclarato reato.

Se c'è qualcosa che la ex sinistra comunista avrebbe dovuto gettare senza indugi nella pattumiera della storia è proprio l'invasività dello stato nella vita dei singoli, la vocazione alla sorveglianza, il conformismo imposto per legge, il sospetto preventivo e generalizzato. E, invece, proprio a questi turpi aspetti, sembra essere rimasta tenacemente affezionata. Così la schedatura universale può essere vergognosamente celebrata come una risposta democratica alla schedatura di una sola etnia, contro la quale ci si sarebbe dovuti battere con ogni mezzo necessario. Non ci vuole troppa fantasia per immaginare come questo immenso archivio di impronte digitali potrebbe essere utilizzato. Magari per scoprire chi ha distribuito un certo volantino o premuto i tasti di un computer irriverente?

Naturalmente non c'è chi non sappia (bambini compresi) che ogni criminale che si rispetti fa uso dei guanti. Non è da escludere, allora, un ulteriore emendamento notturno che vieti il commercio di questo capo d'abbigliamento. O forse seguiremo l'ingegno della Stasi che raccoglieva e archiviava l'odore dei corpi. Anche se riportare gli odori sulla carta d'identità da far annusare, all'occorrenza, ai cani-poliziotto non sarà impresa delle più semplici.

Foto di
Xipe Totec39 [Hand prints], con licenza Creative Commons da flickr

giovedì, luglio 17, 2008

Se l'Unione è vuota

di Slavoj Žižek
da il manifesto - 15 luglio 2008

Ci sono momenti in cui siamo così imbarazzati dalle dichiarazioni pubbliche dei leader politici del nostro paese da vergognarci di essere loro connazionali. A me è successo leggendo come ha reagito il ministro degli esteri sloveno quando gli irlandesi hanno votato no al referendum sul Trattato di Lisbona: egli ha dichiarato apertamente che l'unificazione europea è troppo importante per essere lasciata alle persone (comuni) e ai loro referendum. L'élite guarda al futuro e la sa più lunga: se si dovesse seguire la maggioranza, non si otterrebbero mai le grandi trasformazioni, né si imporrebbero le vere visioni. Questa oscena dimostrazione di arroganza ha raggiunto l'apice con l'affermazione seguente: «Se avessimo dovuto aspettare, diciamo così, una iniziativa popolare di qualche tipo, probabilmente oggi francesi e tedeschi si guarderebbero ancora attraverso il mirino dei loro fucili». C'è una certa logica nel fatto che a dirlo sia stato un diplomatico di un piccolo paese: i leader delle grandi potenze non possono permettersi di esplicitare la cinica oscenità del ragionamento su cui poggiano le loro decisioni - solo voci ignorate di piccoli paesi possono farlo impunemente. Qual è stato, allora, il loro ragionamento in questo caso?

Il no irlandese ripete il no francese e quello olandese del 2005 al progetto della Costituzione europea. Esso è stato oggetto di molte interpretazioni, alcune delle quali anche in contraddizione tra loro: il no è stato un'esplosione dell'angusto nazionalismo europeo che teme la globalizzazione incarnata dagli Usa; dietro il no ci sono gli Usa, che temono la competizione dell'Europa unita e preferiscono avere rapporti unilaterali con partner deboli... Tuttavia queste letture ad hoc ignorano un punto più profondo: la ripetizione significa che non siamo di fronte a un fatto accidentale, ma con un'insoddisfazione perdurante negli anni.

Ora, a distanza di un paio di settimane, possiamo vedere dove sta il vero problema: molto più inquietante del no in sé è la reazione dell'élite politica europea. Questa non ha imparato niente dal no del 2005 - semplicemente, non le è arrivato il messaggio. A un meeting che si è tenuto a Bruxelles il 19 giugno i leader dell'Ue, dopo avere pronunciato parole di circostanza sul dovere di «rispettare» le decisioni degli elettori, hanno presto mostrato il loro vero volto, trattando il governo irlandese come un cattivo insegnante che non ha disciplinato ed educato bene i suoi alunni ritardati. Al governo irlandese è stata offerta una seconda chance: quattro mesi per correggere il suo errore e rimettere in riga l'elettorato.

Agli elettori irlandesi non era stata offerta una scelta simmetrica chiara, perché i termini stessi della scelta privilegiavano il sì: l'élite ha proposto loro una scelta che in effetti non era affatto tale - le persone sono state chiamate a ratificare l'inevitabile, il risultato di un expertise illuminato. I media e l'élite politica hanno presentato la scelta come una scelta tra conoscenza e ignoranza, tra expertise e ideologia, tra amministrazione post-politica e vecchie passioni politiche. Comunque, il fatto stesso che il no non fosse sostenuto da una visione politica alternativa coerente è la più forte condanna possibile dell'élite politica: un monumento alla sua incapacità di articolare, di tradurre i desideri e le insoddisfazioni delle persone in una visione politica.

Vale a dire, c'era in questo referendum qualcosa di perturbante: il suo esito era allo stesso tempo atteso e sorprendente - come se noi sapessimo cosa sarebbe successo, ma ciononostante non potessimo davvero credere che potesse succedere. Questa scissione riflette una scissione molto più pericolosa tra i votanti: la maggioranza (della minoranza che si è presa la briga di andare a votare) era contraria, sebbene tutti i partiti parlamentari (ad eccezione dello Sinn Fein) fossero schierati nettamente a favore del trattato. Lo stesso fenomeno si sta verificando in altri paesi, come nel vicino Regno Unito, dove, subito prima di vincere le ultime elezioni politiche, Tony Blair era stato prescelto da un'ampia maggioranza come la persona più odiata del Regno Unito. Questo gap tra la scelta politica esplicita dell'elettore e l'insoddisfazione dello stesso elettore dovrebbe far scattare il campanello d'allarme: la democrazia multipartitica non riesce a catturare lo stato d'animo profondo della popolazione, ossia si sta accumulando un vago risentimento che, in mancanza di una espressione democratica appropriata, può portare solo a scoppi oscuri e «irrazionali». Quando i referendum consegnano un messaggio che mina direttamente il messaggio delle elezioni, abbiamo un elettore diviso che sa molto bene (così egli pensa) che la politica di Tony Blair è l'unica ragionevole, ma nonostante ciò... non lo può soffrire.

La soluzione peggiore è liquidare questo dissenso come una semplice espressione della stupidità provinciale degli elettori comuni, che richiederebbero solo una migliore comunicazione e maggiori spiegazioni. E questo ci riporta all'improvvido ministro degli esteri sloveno. Non solo la sua dichiarazione è sbagliata fattualmente: i grandi conflitti franco-tedeschi non esplosero per le passioni delle persone ordinarie, ma furono decisi dalle élite, alle loro spalle. Essa sbaglia anche nel rappresentare il ruolo delle élite: in una democrazia, il loro ruolo non è solo governare, ma anche convincere la maggioranza della popolazione della giustezza di ciò che vanno facendo, permettendo alle persone di riconoscere nella politica di uno stato le loro aspirazioni più profonde alla giustizia, al benessere, ecc. La scommessa della democrazia è che, come disse Lincoln molto tempo fa, non si può ingannare tutti per sempre: sì, Hitler andò al potere democraticamente (anche se non proprio...), ma nel lungo periodo, nonostante tutte le oscillazioni e le confusioni, bisogna avere fiducia nella maggioranza. È questa scommessa a tenere viva la democrazia - se la facciamo cadere, non stiamo più parlando di democrazia.

Ed è qui che l'élite europea sta miseramente fallendo. Se essa fosse veramente pronta a «rispettare» la decisione degli elettori, dovrebbe accettare il messaggio della persistente sfiducia delle persone: il progetto dell'unità europea, il modo in cui esso è formulato attualmente, è viziato in modo sostanziale. Gli elettori stanno scoprendo la mancanza di una vera visione politica al di là della retorica - il loro messaggio non è anti-europeo, anzi, è una richiesta di più Europa. Il no irlandese è un invito a cominciare un dibattito propriamente politico su che tipo di Europa vogliamo veramente.

In età ormai avanzata, Freud rivolse la famosa domanda Was will das Weib? - Cosa vuole la donna? - ammettendo la sua perplessità di fronte all'enigma della sessualità femminile. Il pasticcio con la Costituzione europea non testimonia forse lo stesso smarrimento? Cosa vuole l'Europa? Che tipo di Europa vogliamo?

Foto di Sebastià Giralt [Mosaic del rapte d'Europa, Aquileia], con licenza Creative Commons da flickr

martedì, luglio 15, 2008

Una cultura «altra», in attesa del silenzio

di V. Evangelisti
da il manifesto - 13 luglio 2008

I centri sociali furono un tentativo di perpetuare l'eredità del '77 in anni duri e di feroce repressione. Facevano leva su due temi salienti dell'Autonomia: il «contropotere territoriale» e la socialità alternativa, prima di allora teorizzata da Lotta Continua, quando era ormai prossima allo sfascio. In pratica si trattava di sperimentare pratiche di vita comune autogestita, distanti dalle logiche di potere, e destinate a dilatarsi sul territorio. Nessun modello esistenziale valido fuori doveva riprodursi dentro: dall'ansia di competere alle discriminazioni sessiste. Ma non ci si doveva ritirare in una sorta di Shangri-La, o in un monastero benedettino resistente ai barbari (come ha di recente teorizzato a sorpresa Bifo, vinto dal pessimismo). Compito dei Csoa (Centri sociali occupati autogestiti) era compattarsi dentro per proiettarsi fuori. Definire uno stile di vita per poi imporlo, con le buone o con le cattive. Conquistare spicchi di metropoli.

Il modello era naturalmente il Leoncavallo di Milano, però erano ammissibili varianti locali. A Bologna credo che il primo centro sociale a sorgere fosse il Crack. Ospitato in una baracca poi demolita dal Comune, si trasferì in una seconda più ampia, sotto le mura dell'ex manifattura tabacchi. Lo gestivano punk politicizzati e autonomi dissidenti dal filone centrale padovano-romano. L'esperienza durò alcuni anni e si esaurì. Offrì concerti di gruppi punk provenienti da tutto il mondo, discussioni interminabili, manifestazioni «cattive», canzoncine leggendarie («Siamo gli autonomi, siamo i più duri», «Fate largo quando passa la commissione mensa»). Il rapporto con la città? Totalmente conflittuale. Dal Crack si partiva per occupare case e costruire barricate. Si disprezzava Bologna (bottegaia, provvisoriamente picista e codina) come Bologna ci disprezzava.

Dopo il Crack venne La Fabbrica. Un Csoa importantissimo, gestito questa volta dagli autonomi «ortodossi» aderenti al comitato nazionale detto «anti anti» (antimperialisti, antimilitaristi). L'accento fu spostato sui lavoratori immigrati, cui la sinistra istituzionale non prestava attenzione. La Fabbrica li organizzò, nei limiti del possibile. Si aprì anche a una serie di sperimentazioni musicali e teatrali. Tra le colonne enormi di uno stabilimento in disuso si fecero esperienze che le istituzioni si guardavano dal proporre. La cultura «vera» bolognese è transitata anche tra i capannoni de La Fabbrica, piccola società retta dai criteri dell'uguaglianza.

Lo stesso potrei dire per la breve esperienza del Csoa «Il Pellerossa», in piena zona universitaria, e per Villa Serena, stabile molto periferico ma magnifico. Troppe divergenze tra le componenti del movimento, ai tempi della Pantera, fecero implodere quelle occupazioni, senza necessità di una repressione esterna. Resistette solo il Livello 57, creato da militanti provenienti dall'ex Crack. Specializzato in tematiche antiproibizioniste, offrì per anni concerti a un ritmo quasi quotidiano e resistette a mille traversie. Le sue Street Parade annuali diventarono un appuntamento fisso per giovani provenienti da tutta Italia. Per fare scomparire il Livello occorreva un fattore nuovo, che infine arrivò. Di nome faceva Sergio, di cognome Cofferati. Il giustiziere dei centri sociali, per lui puro fattore di disordine in una città che voleva ridotta al rigor mortis.

Prima dell'elezione sciagurata dello sceriffo altri centri erano sorti, e tuttora sopravvivono. Il Tpo, Teatro Polivalente Occupato, nacque appunto in un teatro abbandonato della zona universitaria, poi si trasferì in un acquario in disuso della prima periferia. Adesso sorge nei pressi della stazione ferroviaria, ed è un modello di organizzazione. Promosso da un gruppo di gestione legato ai Disobbedienti padovani, ospita un bar dai prezzi politici, una palestra, una scuola di lingue per stranieri, una radio e altro ancora. In passato conteneva persino un sex shop gestito da femministe (che non hanno saputo resistere, purtroppo, al «dialogo» con Cofferati) e ha avuto ospiti illustri, da Stefano Benni ad altri scrittori e artisti. Grazie ad accordi stipulati quando sindaco di Bologna era Giorgio Guazzaloca, di destra ma tollerante, il Tpo ha vita abbastanza sicura.

Molto travagliata è invece l'esistenza del Laboratorio Crash! Promosso da autonomi «tradizionali» ex Fabbrica, poi sostituiti da leve più giovani ma non meno determinate, combatte con le unghie e con i denti i continui tentativi di sopprimerlo. A un primo sgombero, da un deposito delle ferrovie abbandonato da decenni, ha reagito occupando, nella stessa via, un'antica fabbrica di gelati inattiva da tempo immemorabile. Certi spettacoli di musica d'avanguardia li si trova solo lì. La facciata è dipinta da Blu, un writer multato a Bologna e premiato a New York.

Altri centri sociali, come il Vag61 e l'Xm24, sono invece fusioni di collettivi disparati, dalle molteplici attività e interessi. Settantasettini dai capelli ormai ingrigiti si mescolano a giovani sovversivi, ribelli alle convenzioni. Giovanile è anche il parterre del Lazzaretto occupato, sito in un casolare ai margini della città. Anche qui si può ascoltare gratuitamente musica inconsueta e non commerciale, spesso di altissima qualità.

Fino a poco tempo fa, erano tutti spesso in lite tra loro. La politica della terra bruciata di Cofferati li ha quasi costretti a compattarsi. Non davano fastidio solo per le attività culturali, di cui la giunta comunale se ne frega altamente, ma anche per il loro attivismo politico antagonista. Manifestazioni contro i Cpt, antirazziste, antifasciste, contro la guerra, contro la discriminazione sessuale. Troppo, per un municipio che vagheggia grandi opere in centro e periferie silenziose. Dunque si butti giù, si demolisca. Poco importa che i centri sociali paiano - faticosamente - prefigurare ciò che dovrebbe essere la sinistra. Noi si è una variante moderata della destra. O no?

Partano dunque le ruspe, e torme di vigili urbani finalmente armati come si deve. Attualmente i centri sociali garantiscono concerti, presentazioni di libri, teatro, rassegne di cinema quasi ogni giorno. Non se ne può più. Il cittadino medio bolognese ne ha le scatole piene. Non riesce nemmeno a contare, causa il rumore, quanto denaro ha estorto oggi a uno studente per un posto letto. Bisogna finirla. Non ci è riuscito Guazzaloca? Ci riuscirà Cofferati. Prima o poi, si spera, regnerà su Bologna il silenzio totale. Così confortevole.

Foto di
Libera Strega / LOL² A [una porta al centro sociale], con licenza Creative Commons da flickr

lunedì, luglio 14, 2008

Foucault au secours des intermittents

di C. Fabre
da Le Monde - 11 luglio 2008

On ne lira dans cet ouvrage ni slogan ni formule de calcul pour l'assurance-chômage des artistes et des techniciens du spectacle. Il ne s'agit pas non plus d'un "retour sur" la lutte menée depuis la réforme de juin 2003, entre manifestations et annulations de festivals. Intermittents et précaires rend compte d'une enquête menée sur les conditions de travail de tous ces professionnels du spectacle qui alternent périodes d'emploi et de chômage, au fil des projets qu'ils mènent pour le compte de leurs (multiples) employeurs.

Les auteurs en tirent une réflexion prospective sur la notion de travail : tel une avant-garde, le mouvement des intermittents remet en cause le couple binaire emploi-chômage et nous invite à reconstruire les bases de la protection sociale, nous disent Antonella Corsani, chercheuse de l'équipe Matisse du centre d'économie de la Sorbonne et cofondatrice de la revue Multitudes, et Maurizio Lazzarato, philosophe.

De l'automne 2004 au printemps 2005, une enquête avait été menée par l'équipe de chercheurs Isys (composante du Matisse de Paris-I et du CNRS) à la demande de la Coordination des intermittents et précaires et avec le soutien de la région Ile-de-France. A l'époque, la presse avait critiqué la méthode au motif que des intermittents eux-mêmes participaient à cette étude auprès d'économistes, de sociologues, de statisticiens. Les auteurs défendent leur "expertise citoyenne" qui fait coopérer spécialistes et profanes. Une méthodologie qui interroge les relations entre "savoir, pouvoir et action", expliquent- ils, comme l'ont pratiquée Michel Foucault ou encore Pierre Bourdieu dans son enquête sur La Misère du monde (Seuil, 1993).

Ces précisions faites, les auteurs dressent un tableau inquiétant de l'intermittence. Ou comment la fabrication des spectacles, de documentaires, etc., obéit de plus en plus à une logique de rentabilité, dans un univers où il n'y a "que des cas particuliers": ainsi, le temps de travail sera scrupuleusement comptabilisé dans les secteurs fortement syndiqués ou, au contraire, déclaré de manière forfaitaire, à charge pour le "porteur de projet" de négocier au mieux son cachet.

Sans parler de la variabilité des salaires journaliers ni de la stagnation des revenus, voire de leur baisse depuis dix ans. Certains - des réalisateurs, mais aussi des compagnies de théâtre travaillant au sein d'une collectivité locale - reconnaissent travailler "à la commande". Comme s'ils répondaient à la demande d'un client, ce qui interroge la notion de création. La réduction des budgets et des temps de production impose aux compagnies de réorganiser le travail autour des postes jugés indispensables. L'artistique perd du terrain face à la communication, le nerf de la guerre étant la diffusion des spectacles, dans un contexte très concurrentiel...

Loin des auteurs l'idée que l'intermittence serait à bannir. Au contraire. N'en déplaise aux syndicats, disent-ils, l'emploi stable à vie n'est pas "souhaité et souhaitable par tous". "L'intermittence, sous certaines conditions, est bien cette possibilité pour tout un chacun de garder la maîtrise du temps, de ses intensités (...). Une liberté de mener des projets hors des normes de l'industrie culturelle et du spectacle et, enfin, last but not least, une arme fondamentale dans la négociation des salaires et des conditions de travail", soulignent Antonella Corsani et Maurizio Lazzarato dans le dernier chapitre. Observant que d'autres professions intellectuelles partagent avec les intermittents des pratiques communes, ils appellent à une réflexion sur "un nouveau statut du travail et sur de nouveaux droits sociaux". Stimulant et revigorant.

Intermittents et précaires, d' Antonella Corsani et Maurizio
Lazzarato. Ed. Amsterdam, 232 pages, 18 €

mercoledì, luglio 02, 2008

La condizione post-coloniale

di Salvatore Cavaleri
da kom-pa

Viviamo in una post-epoca?
O forse sarebbe meglio dire che viviamo nell'epoca dei “post”?
Quesiti che nascono spontaneamente gettando lo sguardo agli innumerevoli appellativi che hanno definito la nostra condizione proprio a partire dall'oltrepassamento dell'epoca passata: post-moderno, post-industriale, post-fordista, post-storica, post-strutturalista, “dopo l'orgia”, “oltre il novecento”, ecc...
In ogni caso c'è sempre un “post” onnipresente, come a sottolineare rotture e continuità con un epoca precedente che non c'è più, ma dalla quale non ci siamo ancora del tutto emancipati [1].
Di questa lunga schiera di "post", quella che, almeno in Italia, ha ricevuto minore attenzione è sicuramente quella di “postcoloniale”.
Risulta preziosa allora la pubblicazione de La condizione postcoloniale di Sandro Mezzadra (Ombre corte, Verona 2008), contributo sicuramente originale per il suo indagare a fondo le questioni che questi studi hanno posto.

Quindi, post-coloniale: per comprendere a fondo la nostra epoca globalizzata non possiamo prescindere, non solo da una lettura storica del processo coloniale, ma anche e soprattutto del processo anti-coloniale di ribellione e resistenza che portò alla liberazione dei paesi colonizzati.

E' infatti con il colonialismo che il capitalismo diventa, già nella sua fase di accumulazione originaria, un sistema - mondo. Ed è con il processo inverso di decolonizzazione che il cerchio si chiude. Da qui in poi sarà impossibile cogliere lo spessore di un singolo avvenimento locale senza tenere conto dei legami globali in cui è inserito.

A partire da “I dannati della terra” di Fanon e “Orientalismo” di Said , fino ad arrivare ai più recenti Bhabha ad Appadurai, gli studi postcoloniali sono diventati punto di confronto imprescindibile, inizialmente in ambito storiografico, per poi essere utilizzati anche in antropologia, sociologia, economia, ecc.
Termini come identità, cultura, razzismo, comunità escono stravolti dalla fittissima elaborazione di scrittori che dell'esperienza di liberazione dalla colonizzazione sono stati protagonisti, narratori e interpreti.
Testi che hanno prodotto un vero e proprio terremoto all'interno del dibattito storico. Sia gli apologeti che i critici dell'età coloniale, infatti, hanno sempre descritto un processo storico lineare e unilaterale che andava dal centro (l'Europa) verso le periferie (le colonie). Non è così, la storia coloniale è stata anche storia anti-coloniale e i protagonisti di questa storia non sono stati solamente i colonizzatori, ma anche e soprattutto le rivolte dei popoli colonizzati.
Non si tratta semplicemente del recupero delle storie minori, ma di far emergere come quelle storie minori, “subalterne”, abbiano avuto un ruolo determinante anche nelle storie “maggiori”.
Con lo sguardo dei posteri oggi possiamo vedere, infatti, quanto la storia faccia brutti scherzi e segua percorsi tutt'altro che lineari. Per un bizzarro gioco dell'eterogenesi dei fini oggi risulta paradossalmente difficile trovare un inglese in India o un francese in Algeria, mentre sappiamo bene quanto rilevanti siano le comunità indiane in Inghilterra e algerine in Francia.
Allora chi ha colonizzato chi?

Mettere in discussione la linearità del tempo storico ha così permesso, inoltre, di far emergere anche la non linearità del presente.
E questo è il secondo contributo degli studi postcoloniali: anche la globalizzazione non è un processo lineare di omologazione. Il globale non fagocita il locale. Piuttosto viviamo tutti in “dimensionali multiple”, in cui ognuno di noi attraversa più tempi e più spazi.
Se nei secoli passati furono solo i colonizzatori a sincronizzare i propri orologi su più fusi orari, oggi è esperienza diffusa: dai migranti che vivono il doppio tempo del paese di approdo e di quello di origine, ai manager dell'alta finanza che aspettano le aperture di tutte le borse del mondo, fino ai fans dei telefilm americani che si sincronizzano con la programmazione dell'Abc e non con quella di Rai2.
Il legame con il territorio del resto, oggi non rimanda più a qualcosa di “originario” o arcaico, non rimanda più cioè ad un dato di natura, quanto piuttosto ha a che fare con l'immaginario, con la capacità dell'immaginazione di inventarsi storie e reinvetare comunità. (cfr. La diaspora interculturale di G. Burgio)

La pubblicazione de “La condizione post-coloniale” è importante perché si inserisce in questi dibattiti, ma con l'esplicita volontà di far emergere il segno di questi processi.
Mazzadra tratta sì della trasformazione della dimensione spaziale e temporale nella nostra epoca, dei fattori culturali e identitari, ma, ci tiene a sottolinearlo sin dalla prima riga, ciò che è realmente in questione nel suo libro è il capitalismo contemporaneo.
Non a caso liet motiv è quello di far emergere come il dibattito postcoloniale fornisca elementi di critica che si intrecciano strettamente con il filone Operaista italiano, soprattutto agli sviluppi successivi “al processo di globalizzazione dell'eredità teorica dell'operaismo italiano seguito alla pubblicazione di Impero”.
Il legame tracciato non è per nulla forzato, ci basti sottolineare come questi due filoni di analisi, tanto l'operaismo quanto gli studi postcoloniali, tra i pochi a fornire realmente elementi per comprendere lo stato del capitalismo attuale, abbiano in comune: la capacità di comprendere la natura conflittuale dei processi, il mettere in discussione la linearità dello sviluppo storico, il sottolineare sempre il ruolo produttivo e creativo dei subalterni (o delle moltitudini), il pensare la globalizzazione smontando le dicotomie dentro-fuori e centro-periferia, l'importanza assegnata ai processi cognitivi e quindi il sempre più stretto legame tracciato tra produzione ed immaginazione. Non smettendo mai di sottolineare che il capitalismo si fonda innanzitutto su una logica di sfruttamento e di dominio.

Mezzadra cioè, più che al postcolonialismo, è interessato alla condizione postcoloniale, condizione in cui tutti siamo immersi. L'importanza di questo libro sta allora certamente nel contributo che da alla comprensione dei processi storici, ma anche e soprattutto è un libro utile per cogliere le potenzialità attuali dei conflitti e l'emergere di nuovi soggetti molteplici.
“In questione non è soltanto che studiando gli slum di Calcutta si possa imparare qualcosa di essenziale per comprendere quel che accade nelle banlies di Parigi, ma anche come i piqueteros argentini possano avere molto da insegnare ai collettivi di precari che agiscono nelle metropoli europee” (pag.13).

[1] In realtà questi termini descrivono una fase di transizione che in molti iniziano a ritenere conclusa. Sono emerse, infatti, negli ultimi dieci anni, definizioni che descrivono la nostra epoca di per sé, senza rifermenti diretti all'epoca precedente. Basti pensare a termini come globalizzazione, mondializzazione o Impero.
Nell'ultimo numero della rivista Posse, Negri a proposito afferma: "Avevamo tuttavia una convinzione, alla fine dei dieci anni di lavoro su Empire e Multitude – una percezione ormai matura – e cioè che la contemporaneità si fosse ridefinita, che fosse terminato il tempo nel quale la determinazione del presente potesse darsi sotto la sigla del post-."
http://www.posseweb.net/spip.php?article95

Foto di Darwin Bell [post modern wall], con licenza Creative Commons da flickr

martedì, luglio 01, 2008

Günther Anders: discesa nell'ade.Auschwitz e Breslavia, 1966

di I. Domanin
da carmillaonline

L’approdo tardivo a una terra natale, spogliata ormai delle sue valenze affettive, devastata e senza radici, dove non ha più senso immaginare una patria. Questo è il senso delle amarissime considerazioni che costellano il fitto diario esistenziale di Günther Anders, Discesa nell’Ade. Auschwitz e Breslavia, 1966 pubblicato per i tipi di Bollati Boringhieri (€ 16), un drammatico reportage, una specie di libro di viaggio nei luoghi d’origine che si rivela però essere la narrazione di una catabasi negli Inferi. Anders scrive una filosofia d’occasione e non accademica. Non troviamo trattazioni tecniche di problemi metafisici, bensì meditazioni che prendono lo spunto da situazioni concrete. Il filo conduttore è solo l’esperienza quotidiana. Ma non si tratta di un esercizio di saggezza. Non sono aforismi che riguardano la buona vita. Al contrario, Anders, come del resto in tutti i suoi testi ci descrive l’orrore che sordamente si cela dietro le apparenze confortevoli della civiltà tecnologicamente avanzata. Questo volume, però, è particolarmente significativo dei risvolti biografici di Anders ed entra, anche con crudeltà, nelle pieghe più personali del suo pensiero.

Anders, intellettuale ebreo di nazionalità tedesca, esule in America e sopravvissuto allo sterminio degli ebrei, ritorna nella nativa Breslavia. La città ha cambiato nome, è diventata Wroclaw e adesso fa parte della Polonia comunista. Per recarvisi è necessario transitare nei pressi di Auschwitz. Il racconto del libro si apre lì. Anders e la sua terza moglie Charlotte sono in viaggio con la loro auto. Nelle vicinanze del lager. Le vittime della Shoà sono scomparse senza lasciare una traccia del loro morire. Proprio per questo, per via della loro eliminazione affidata a un cieco dispositivo tecnologico, per essere state private di qualsiasi connotazione umana della morte, non è possibile nessuna elaborazione del lutto. Un atmosfera mefitica, un miasma insopportabile si respira nell’aria. La presenza dei morti è invadente, pressante, ingombrante. Chi è sopravvissuto è soverchiato da un’incontenibile vergogna d’esistere. Un fatto che non riguarda solo il mondo ebraico, ma che diventa il crisma universale della situazione storica attuale. Per Anders, infatti, questa è diventata la condizione normale degli esseri umani.

Come testimonia il prosieguo del testo, dove, a partire dall’arrivo a Breslavia, si assiste alla descrizione di uno scenario perturbante: l’assoluta mancanza di patria del mondo attuale. Siamo tutti meramente dei sopravvissuti. O dei profughi, solo per il momento scampati a un pericolo supremo. Potremmo sparire dal mondo senza nessun motivo, privati persino di poter depositare qualche segno ascrivibile alla nostra presenza. La nostra specie è senza speranza. Ha costruito sistemi di distruzione, che, se si sono rivelati micidialmente nell’epoca dei totalitarismo, sono definitivamente presenti nel nostro orizzonte. La possibilità della definitiva scomparsa del genere umano è diventa una realtà. Questo potere di distruzione senza limiti è dovuto alla tecnologia che è in grado di annichilire, fino alle estreme conseguenze, la vita. Le conseguenze attuali sono sotto il nostro sguardo. La violenza della seconda guerra mondiale non è un ricordo. Torna a ripetersi. Ma il nostro senso d’umanità pare ridursi. La stato d’eccezione diventa normale.

Per Anders il pericolo cresce smisuratamente nella misura in cui questa situazione angosciosa e solo presentita, ma non può essere immaginata. La nostra sensibilità è dimidiata. Le catastrofi ci vedono solo spettatori anestetizzati ed eticamente indifferenti. La tragedia del mondo ci appare in uno specchio irreale rispetto al quale non siamo in grado d’essere coinvolti. Siamo intrappolati dentro una deficienza emotiva, incapaci di avvertire sensibilmente la tragedia in cui siamo calati.

Questo è l’enigma che ci consegna questo preziosissimo libro. Come espandere la nostra coscienza, come dilatare il nostro mondo psichico fino a entrare in contatto con la minaccia irrapresentabile che aggredisce le fondamenta della condizione umana?